Un racconto scritto e proposto da Francesco Paolo Colucci
Il vetro in frantumi sul mio viso stravolto. La frenata improvvisa, le urla di mia madre, il pianto ininterrotto della mia piccola sorella. E poi il sangue. Sulle mie mani, sulle mie gambe. Accanto a me la testa senza alito di mio padre, accasciata, anzi fracassata sopra un clacson di speranze ormai al tramonto. Le attese dell’estate, la mia, di giovane spensierato in cerca di amorose avventure. Le sue, le chimere da futuro pensionato, con l’ultimo dei trentacinque anni ancora da scontare tra le mura della fabbrica petrolchimica che ci aveva sfamati un’intera vita e che ci permetteva ogni anno di partecipare all’agostino esodo. E che mi permise di essere lì, che ci consentì di essere in quell’attimo, che in realtà non ricordo. Sirene dispiegate, arsura da canicola estiva, vociare confuso di esseri animati sconvolti. Le schegge della pietra infilate in superficie, sulla mia rovente pelle.
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Ero veramente stanco, esausto. Che delusione! Tutti noi eravamo stati ingannati dal mito del ritorno alla terra. Quanta speranzosa fiducia, quanto impegno, sudore, io ed i miei colleghi avevamo riposto nel conseguimento della Laurea in Agraria. E le specializzazioni, i dottorati, gli stages senza prezzo e le pubblicazioni fatue, poi. E tutto questo per ritrovarmi a fare il giardiniere per delle vecchie rincitrullite d’alto bordo con il vizio del pollice verde (ma delle mani altrui):
«Mi raccomando, faccia attenzione ai miei preziosi gerani!»
Che tristezza, che scoramento! Ogni giorno pensavo a quel maledetto corso propedeutico, quello del primo anno, con il quale il sistema accademico aveva irretito noi giovani illusi, noi fiduciosi nel “verde avvenire”. Pazienti ed attenti, con i notes impugnati nelle mani dominanti.
«Trasformerete le pietre in oro, l’erba in danaro».
Questo il loro fedifrago motto, lo slogan con il quale c’imbonirono e imbrigliarono le nostre quasi-ventenni esistenze.
«La prego, giovanotto, non mi rovini il mio amatissimo, tenerissimo cactus!»
Vecchia bagascia! Altro che diventare il nuovo Linneo…
E fu allora, in quel duro momento di sbandamento e di depressione post-lauream, che si riaffacciarono sulla scena del mio esistere gli amici di un tempo. Quelli sfaticati, i perdigiorno, gli abulici, quei perdenti che oggi mi sembravano vittoriosi nella scelta del naufragio passivo, strategico annullamento dell’individuo attuato per fronteggiare la deriva socio-economica dei nostri tempi. Li vedevo realizzati perché non avevano speso del tempo per altro tempo. Comunque, ciance filosofiche a parte, con codesti compari mi concedevo quella serie di vizi che consentono – anzi, più specificamente, aiutano – a colmare il vuoto della vita. Alcool, azzardo, donne di facili costumi. Ma fin qui passi!
Giunse l’estate. Ci organizzammo per trascorrere il primo, torrido week-end d’agosto in Calabria, in un paesino arroccato tra la montagna ed il mare.
«Abbiamo bisogno della tua scienza, professore. Lì potrai finalmente coltivare la terra, dare un senso alla tua laurea sprecata. Rivelarci il tuo genio incompreso!»
E poi sghignazzata corale da bulli da branco quali erano. Pazienza, erano compagni di vita!
Partimmo in cinque, in un’Opel Kadett Station Wagon grigia, ormai d’annata, sgangherata come la nostra combriccola. La colonna sonora di quell’assurdo viaggio fu, in mio onore, il mitico pezzo prog dei New Trolls Atomic System Quando l’erba vestiva la terra. Arrivati, però, a circa metà del nostro percorso, svoltammo inaspettatamente per una contrada dell’entroterra salernitano:
«C’è un cambiamento di programma. Maestro, abbiamo subito bisogno del tuo agricolo sapere!»
Non capivo. Il pilota condusse la vettura nei pressi di uno di quei cavalcavia che oltrepassano il fiume asfaltato dell’autostrada.
«Adesso è il tuo momento, adesso devi dimostrare al mondo intero il profondo valore dei tuoi studi. Tu che sei capace di sfruttare l’humus della più ignobile delle terre!»
Giunti grossomodo alla metà del viadotto, parcheggiammo il nostro bolide d’epoca. Mi fecero scendere. Aprirono il bagagliaio con la ritualità con la quale si apre uno scrigno, un forziere ricolmo di oggetti preziosi, una teca contenente reliquie. Ormai ero un automa, obbedivo praticamente ad ogni loro comando, vittima di un legame basato più sul dovere che sul sentire.
Nel sacrario automobilistico erano riposte alcune pietre di varia dimensione, adagiate su del terriccio ancora fresco di pala. Le toccai, per avvertirne il potere energetico, per auscultare i battiti della roccia ancora viva. E poi il vuoto. Non rammento più nulla. Il corso dei miei pensieri e dei miei ricordi si riattiva solo a partire dall’interrogatorio al commissariato di Salerno:
«Perché l’ha fatto, mi risponda. Ci fornisca una spiegazione plausibile.»
Non risposi nulla. Balbettavo, cincischiavo nella più totale confusione. La mia attenzione era rivolta esclusivamente alle mie mani. Erano ancora sporche di terra, umide dell’impronta verde-grigia della pietra, quella prescelta.
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Mano nella mano. Così affrontavamo la nostra amara sorte. Così come avevamo affrontato la vita, la nostra, sempre irta di ostacoli, diffidenze, pregiudizi. Pazienza, perché dopo anni di omertoso silenzio finalmente avevamo avuto il coraggio di mostrarci per quel che veramente siamo. Il coraggio di amarci in pubblico com’era nostro desiderio; come prevedevano i disegni della nostra natura; ma soprattutto, com’era nostro diritto.
Eppure trovavamo la morte, bruta, violenta, insensata, proprio per quel naturale diritto espresso. La morte proprio in quella piazza, crocevia di storia e cultura. A pochi passi dal santuario delle diverse espressioni figurative e ad una spanna dal tempio della musicale espressione dove, io nel primo, il mio amato nel secondo, ci eravamo umanamente e professionalmente formati. In quell’eteroclita agorà dove ci eravamo incontrati per la prima volta; dove avevamo creduto di trovare tolleranza, comprensione, affetto.
E invece con il viso rivolto verso quelle mura antiche, quelle pietre arcaiche, nostre radici, sentivo la vita abbandonarmi senza alcun ragionevole motivo. Con gli occhi strabuzzati fissavo interdetto quelle care e trascurate vestigia, ultima immagine terrena ad occupare le mie ormai ombreggiate iridi.
Infatti non riuscivo a trovare neanche più la forza per voltarmi a guardare per l’ultima volta il mio martoriato compagno negli occhi. Ma ne sentivo ancora un barlume di vita amorevole nelle flebili dita.
Ed intanto i nostri aguzzini, una folla scalmanata di assassini dell’altrui diversità, continuavano a colpirci a morte con oggetti contundenti della più disparata natura. Fino a seppellirci, quasi, con gli strumenti classici della movida notturna, quali lattine, bottiglie di birra, d’acqua et similia.
Invero, non mi feriva solo la violenza fisica dell’impatto indesiderato di quegli oggetti sul mio corpo, e su quello del mio partner. Mi uccideva ancor più profondamente il pensiero che tra quella massa inferocita di bigotti ed ipocriti boia si celassero finanche amici, parenti, musicisti, letterati, artisti, tutti i protagonisti di un mondo, il nostro, che avevamo creduto dalla nostra parte.
Eppure, in fondo li comprendevo.
Avevano bisogno di un capro espiatorio, di qualcuno sul quale scaricare le proprie colpe, condanne, insicurezze. C’est la vie!
E mentre quella pioggia incessante di “notturni sassi” poneva fine ai nostri incompresi battiti, mentre una selva d’improperi ed insulti apostrofava il nostro “bacio insolente”, riflettevo su quali potessero essere le dinamiche che spingevano costoro a tale abominevole atto.
Non l’ignoranza, né l’intolleranza, né tantomeno il razzismo, la paura del diverso o altre fandonie da talk-show. Un male più profondo e sottile di questi testé citati guidava le mani di quei Giudei nel massacro di noi due, povere e novelle Maddalene.
Una sofferenza tale da essere insopportabile per qualsiasi essere vivente. Più grave di un macigno, più tagliente di una cote arrotata: la noia.
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Non era giusto. Quella notte, la terra mi parlava di se stessa. Mi raccontava la sua storia che in fondo era stata anche la mia. Una storia che durante il giorno rivivevo con tutti i suoi ancestrali richiami.
Quando la toccavo con le mie mani ruvide e callose, rivedevo mio padre, ne riascoltavo la voce, rude e severa, da uomo di campagna:
«Questa terra è la nostra, ed è un dono di Dio.»
Quando la scavavo diuturnamente con la vanga, a volte accarezzandola, a volte percuotendola con grande forza ma sempre con imo rispetto, rammentavo mio nonno, il suo costante impegno, la sua umile abnegazione al suolo natìo:
«Questi campi saranno sempre i nostri, apparterranno ai tuoi figli. E poi saranno dei tuoi nipoti.»
Ma ormai era tardi. Questa lunga tradizione sembrava spezzarsi per il comune interesse, la res publica. Nella nostra sperduta cittadina, nella nostra isola felice dell’entroterra lucano, doveva essere finalmente costruita l’autostrada, ponendo fine al millenario isolamento.
«Per portare nel nostro paese la civiltà. Per il futuro, la dignità dei nostri figli. Basta con l’arretratezza, niente più lavori umili. Progresso, progresso, progresso!»
Queste le parole del nuovo sindaco, quelle con le quali i miei concittadini erano stati imboniti, persuasi, coartati. Quante bugie, quante promesse, tangenti. Ed i compromessi, gli imbrogli, i traffici sporchi per ottenere i permessi per far costruire quel Leviatano della contemporaneità. E quanti espropri, legittimati dal diritto e dalla gran quantità di denaro (questo sì!) che lo Stato, la Regione, il Comune, elargivano ai malcapitati, per comprarsi la loro vita.
«Non si preoccupi per la sua terra, sia felice! Non dovrà più sporcarsi le mani. Con i soldi che le daremo potrà mandare i suoi figli all’Università, così potranno avere una vita più decente della sua. Comprare vestiti migliori a sua moglie, in luogo di quelle pezze campagnole che la ricoprono; e poi, una casa più grande e accogliente, un’abitazione in città, magari, un appartamento per persone civili. Progresso, progresso, progresso!»
Al diavolo! Io volevo la vita di sempre! I miei figli, poi, avrebbero deciso da sé per il proprio destino. Non potevo scegliere per loro, né tantomeno poteva farlo l’autocrazia burocratica.
Dovevamo ribellarci a questo abuso. Convinsi tutte le vittime dello “sgombero di lusso” a riunirsi in corteo per protestare presso le autorità il giorno dell’ultimo comizio, quello che avrebbe sancito definitivamente il varo dei lavori. Ed il naufragio della nostra verde Lucania. O almeno per noi.
«Questo è solo l’inizio. Questa terra deve conoscere l’evo moderno. Vogliamo, volete, vedere intorno a noi, con voi, le macchine, le industrie, l’asfalto, i palazzi, la ricchezza. Progresso, progresso, progresso!»
Questo l’incipit dell’ultima grande tirata retorica propagandistico-demagogica a favore dell’odierna abiezione; l’ultima invettiva contro gli amati mos maiorum. Contro gli antiquati, i retrogradi, i zingari, come ci chiamava il politicastro.
Quando ci vide sopraggiungere in centinaia di noialtri, uomini, donne, bambini, trasalì dalla paura il vile oratore. Compatti ci direzionavamo verso il nemico, tra le mani le nostre armi: nella sinistra una pietra; nella destra un pugno di terra. Ci furono attimi di tensione, pura, quando arrivammo faccia a faccia, sguardo contro sguardo con il cordone di forze dell’ordine che trincerava il palcoscenico dove si esibiva il fedifrago attore della farsa democratica.
Ma non li scagliammo quei venerandi e venerati sassi. Eravamo gente pacifica, noi. Le pietre le facemmo cascare per terra, all’unisono. Il tonfo, il rumore sordo e netto che scaturì da quel collettivo tam-tam, fece sobbalzare grottescamente quella marionetta chapliniana dell’ultimo cittadino. La terra, quel grumo che orgogliosamente stringevamo tra le mani, anche quella la lasciammo scivolare lentamente, adagiandola sul selciato, come in una sorta di clessidra corale.
Ed infine, a conclusione del nostro happening rivoluzionario, alzammo tutti le braccia in modo da mostrare al nemico i palmi pienamente distesi delle nostre mani, mani segnate indelebilmente dalle nostre origini. I simboli del Diritto Naturale.
Francesco Paolo Colucci