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Cuore d’argilla

Un racconto scritto e proposto da Tommaso Zucconi

 

Mi affacciai alla finestra e capii che il suono che mi stava torturando le orecchie da ormai cinque minuti era quello di un gatto che miagolava. Era piccolo e bianco ed era seduto sopra un ramo di un castagno. Forse con una scopa lo raggiungo, pensai. Mollai l’argilla sul tavolino e corsi nello sgabuzzino. Presi la scopa e richiusi la porta con violenza. Marina mi guardava con i suoi occhi enormi e si chiedeva cosa stessi facendo. Non mi diceva niente, però.
Il gatto era troppo lontano. Provai in tutti i modi a tirargli il bastone sulla testa ma non c’era verso.
«Porca puttana!» urlai. «Ma porca puttana!»
«Cosa c’hai da gridare?» disse Marina con una compostezza certamente studiata.
«Quel gatto! Non lo senti? Non ti dà noia?»
«Sei nervoso oggi?» replicò senza darmi la soddisfazione di vederla arrabbiata. «Ti vuoi sedere e finire quel timone?»
Ero lì, in piedi, con gli occhi semichiusi e i denti affondati nelle labbra. Le mani chiuse a pugno e una scopa in mano. Il gatto continuava a miagolare, a piangere, a riversare la sua triste condizione felina nelle mie orecchie. Riaprii lo sgabuzzino, ci buttai dentro la scopa e tornai al tavolino.
Accesi la radio. Cercai una stazione di musica leggera e trovai un brano di un cantautore italiano di poco conto. Marina stava creando una maschera. Le sue piccole dita sporche d’argilla si muovevano con un’abilità che a me ancora mancava. La sera prima eravamo stati al trentesimo compleanno di una sua amica, Eleonora, e mi ero ubriacato senza pietà. Avevo ancora la testa pesante e probabilmente non ero dell’umore giusto per finire quel dannato timone. Lo fissai. M’immaginai comandante di un veliero sulle onde agitate di una tempesta, con in bocca una pipa, con una mano sul timone e nell’altra un cannocchiale argentato. L’oceano. Quando l’avevo visto per l’ultima volta? In Argentina, forse. No, l’anno dopo, in Spagna. Schizzi d’oceano mi arrivano sul viso mentre scruto un paesaggio eternamente gigantesco. Eternamente gigantesco. Ovvero gigantesco come l’eternità? Da dove mi è venuta questa espressione epica? Il timone mi fissa. Il gatto miagola e Marina modella una faccia. Due buchi per gli occhi e uno per la bocca. Eppure non è male.
«Quanto ti manca?» le chiesi con voce di miele.
«Poco.»
«Là c’è un altro pezzo» le dissi con voce di zucchero filato.
«Non mi serve.»
«Usiamolo» le proposi con voce di latte scremato.
«Mettilo sul timone.»
«L’ho finito» le contestai con voce di burro.
«Facci un cuore.»
Un cuore? Cosa mai mi proponeva la mia seria fidanzata al carbonfossile? La mia cucciola di marmo, la mia fatina di corteccia? Presi il pezzo d’argilla. Lo riposai e mi alzai. Il gatto non si era mosso ma i suoi gemiti si erano fortunatamente smorzati. Era minuscolo, come un topo che ha mangiato troppo. Forse ha perso la mamma, pensai.
Entrai nella cucina e accesi la luce. Aprii il frigo e trovai una lattina di birra. La presi, la pesai con la mano, ne sentii la temperatura fredda e invitante. La riposi e presi la bottiglia dell’acqua. La sera prima avevo parlato a lungo con un’amica di Marina, Silvia. Era stata molto ammiccante e le sue tette di una certa dimensione mi avevano fatto pensare a lungo in quel giorno piovoso. Erano sode, pesanti e sicuramente soffici. Me le immaginai tra le mie mani e avvertii una piccola erezione tra i pantaloni. Diedi una lunga sorsata d’acqua e ripensai alla casa di Eleonora. Viveva in un appartamento vicino a via Feria, al secondo piano di un palazzo vecchissimo. Il salone principale era enorme, con tantissimi quadri sparsi sulle pareti gialle. Sul tavolino, anch’esso enorme, Eleonora aveva piazzato chili di roba da mangiare e chili di alcolici, sui quali mi ero subito fiondato. Avevo perso di vista Marina per più di metà serata. Poi l’avevo ritrovata seduta su un divano, a discorrere di poesia con un uomo sui sessant’anni vestito con giacca e cravatta. Mi ero seduto accanto a loro, completamente sbronzo, tentando d’intervenire nel discorso con osservazioni acute e battute sagaci.

Marina aveva completato la maschera e ora la fissava con muta intensità. Mi sedetti e presi in mano il pezzo d’argilla che avanzava. Iniziai a modellarlo, cercando di dar forma a un cuore. Almeno, alla classica immagine del cuore, non a quella schifosa massa muscolosa che pompa questo inutile sangue ogni secondo e millisecondo della nostra vita. M’immaginai al timone di una nave su un mare di sangue. Io, Barbarossa delle arterie, Long John Silver navigante di questo liquido rosso e vischioso come la lava, con una benda sull’occhio e un pappagallo morto sulla spalla. E Marina, di bianco vestita, più bella che mai, ad ammirarmi dalla riva.
«Ieri ho parlato molto con Gianluca» disse. «Molto a lungo.»
«E chi sarebbe Gianluca?»
L’argilla iniziava a somigliare a un cuore.
«Gianluca è un mio amico» disse. «Quello alto con i riccioli.»
«Porta gli occhiali?»
«No.»
«Non l’ho presente.»
«È ancora convinto che Denise tornerà con lui» disse. «Continua a dire che lei è l’unica, che è il grande amore della sua vita. Ha parlato di un grande campo di grano e di uno spaventapasseri. Dice che lei è il corvo, che lo azzanna e gli toglie la vita, gli morde gli occhi e gli lascia lacrime, che lo schernisce con il suo gracchiare. Poi mi ha detto che io le ricordo Denise, soprattutto i miei orecchi.»
«Ah sì, eh? Gianluchino innamorato ci vede doppio, eh?»
«Non ci stava provando con me» disse. «Se è questo che credi. È proprio perso per quella stronza.»
«E Denise la conosco?»
«Che cazzo ne so» disse.
La radio stava trasmettendo una canzone triste e le sue note per forza di cose influenzavano le mie dita appannate. Il cuore stentava a crescere, intrappolato dalla mia poca arte e, chissà, dalla mia anima nera. Marina perfezionava quel viso crudele che aveva modellato per tutto il pomeriggio. Gianluca, eh?, pensavo. Cucciolo perduto, gran faccia di merda che passa metà serata con Marina. E Marina che modella l’argilla.
Silvia, pensavo. Mamma mia che corpo che ha, che profumo che indossa, che gonna, che scarpe, che gambe. E m’immaginavo la perizia con la quale Silvia si depilava la fica, e me la immaginavo nell’atto di masturbarsi con un dildo d’argilla, enorme e duro.
Marina non alzava gli occhi dal tavolo. «A cosa pensi, amata mia? Qual è il volto che ti ha ispirato per quella maschera marrone?»
«La voglio mettere sopra una bottiglia» disse con noia evidente.
«Ce ne sono alcune vuote in cucina» parlai.
«Chissà chi le svuota, eh…»
Lasciai scorrere la sua pessima osservazione nell’aria opprimente che invadeva la stanza. Da fuori non si udiva più il gatto, soltanto gli ultimi raggi di sole privi ormai di qualsiasi potenza osavano affacciarsi al nostro nido d’amore. Silvia mi aveva descritto il suo nuovo cane, Lanita. È una cagna bianca e piccola, aveva detto mimandone la grandezza e facendo finta di accarezzarle la testa. È bellissima, le voglio un mare di bene. I cani sono animali bellissimi, avevo mentito. Proprio bellissimi.
Mi alzai e andai in cucina. Il cuore non voleva uscire. Aprii il frigorifero e presi la birra. Me la versai in un bicchiere e tornai al tavolino. Marina si era seduta sul divano a leggere un romanzo di Paul Auster.
«Ah, una cosa» pensai ad alta voce. «Chi era quel vecchio con la cravatta?»
Marina alzò i tristi occhi dalle pagine del libro e mi fissò senza espressione.
«Intendi Manuel?»
«Quel tizio con la cravatta con cui parlavi sul divano.»
«Corso» disse. «Vi ho presentato, avete anche parlato.»
«Io ho parlato con quell’imbecille?»
«Manuel non è imbecille, uno» contò. «E, due, sei un ubriacone di merda e non ricordi mai niente. Manuel è un professore di storia moderna all’Università di Siviglia. È spagnolo e parla benissimo quattro lingue.»
«Un sant’uomo.»
«È un uomo molto interessante. Ha scritto anche un romanzo. Che ho letto.»
«Un romanzo?»
Non rispose e tornò a leggere Trilogia di New York. Il cuore non pulsava. Non aveva forma, non riusciva a prendere forma. D’improvviso il gatto riprese a piangere. Posai l’argilla informe sul tavolo e mi premetti le dita sulle tempie, fissando il muro davanti a me. Poi diedi un sorso al bicchiere. Il gatto solfeggiava, arabeggiava, dipingeva nell’aria serale una musica d’inferno, un concerto per manicomio e pianoforte.
«Non mi riesce il cuore» ammisi. «Non mi riesce proprio.»
«Che cosa?» fece.
«Non mi riesce il cuore.»
Marina sembrò ricordarsi di qualcosa di molto divertente e mi fissò mostrandomi i denti ridenti.
«Scommetto che non ti ricordi neanche della zingara!» esclamò.
«La zingara!» alzai la testa.
«Te la ricordi?»
«Vagamente» rimuginai. «L’abbiamo incontrata mentre tornavamo a casa, vero?»
«Esatto. Voleva dei soldi. Tu hai iniziato a insultarla, dicendo che era una grassona puttana, che doveva bruciare. Ti ricordi, mio amato sbronzone?»
«Quella maledetta zingara! Non voleva dei soldi, voleva la mia anima.»
«E ti ricordi che ti ha fatto il malocchio?»
«Ma che dici?»
«Ti ha maledetto ben bene, cara mia spugna.»
Marina riprese a leggere il libro con un sorriso beffardo sulla faccia. Guardai l’argilla che non diventava un cuore e mi sembrò che anch’essa sorridesse di me. La zingara indossava dei veli semitrasparenti e il suo corpo molliccio mi ricordava una fattoria e un trogolo per maiali. Diedi un sorso alla birra. Il cuore e la zingara. La zingara, la gitana, la giostraia, la rom, la sinti, l’egiziana. E nella mia mano materia inerme che non vuole farsi modellare.
«Non mi riesce proprio questo cuore.»
«Vuoi una mano?» disse la lettrice.
«Mi farebbe piacere» disse il riconciliatore.
La mia bellissima ragazza si alzò dal divano con un sorriso di pace e venne verso il tavolo. Prese il blob e mi diede un bacio sulla bocca. Gliene restituii uno sovrabbondando di lingua e ci guardammo negli occhi sorridendo. Il gatto piangeva ancora, così mi alzai e andai alla finestra. Era sempre sullo stesso ramo, con lo stesso stupido pelo bianco, con la bocca spalancata a spargere copiose lacrime sulle foglie attorno. Una vicina vecchissima era seduta su una sedia a dondolo, sopra un terrazzino, e osservava la strada. Mi portai il bicchiere alle labbra e assaporai la fresca cerveza.
Mi venne in mente una cosa che mi aveva detto Silvia la sera prima, riguardo Lou Reed e una terapia di elettroshock che aveva subito da ragazzo. Aveva ragione Gesù, aveva assentito la ragazza dai grandi seni e la mente lucida, bisogna rivoltare i figli contro i padri, sennò non si va da nessuna parte. Io avevo annuito scolandomi la fine del mio bicchiere di prosecco e martini bianco.
«Lo sai che Lou Reed da ragazzo ha subito una terapia di elettroshock?»
«No.»
Mi sedetti al tavolino, davanti al mio timone. Lo guardai, era proprio bello. Certo, però, potevo farci anche dei pomelli. Long John Silver dell’arteria coronaria non poteva guidare in modo così volgare, con le mani sul timone come se fosse un volante di una macchina. Due bei pomelli… i timoni ce li hanno sempre avuti, no? Peccato che l’argilla sia finita, pensai.
«Marinella mia» esordii. «Lascia stare con quel cuore, dai, aggiungo qualcosa al timone.»
«Che cosa?» mi guardò con occhi gelidi. «Sono ore che stressi per questo cuore, e ora non lo vuoi più? L’ho quasi finito, guarda.»
«È bellissimo, amore, ma pensavo di aggiungere due pomelli al timone.»
«Due pomelli?»
«Sì, per le mani. Dammi l’argilla, ti faccio vedere.»
Marina spalancò la bocca e tentò di dire qualcosa, ma le uscì solo una tosse roca.
«Corso, per l’amor di dio, cosa sei, un bambino?» chiese infine. «Adesso voglio fare il cuore.»
«Mamma mia, come sei!»
Mi alzai e mi affacciai alla finestra. Quel gatto tornò a darmi un fastidio tremendo, così tornai nello sgabuzzino a prendere una scopa. Mi sporsi il più possibile ma fallii un’altra volta. Non riuscii a colpire quella bestia immonda. La vecchia sulla sedia a dondolo mi guardava con aria indispettita e mi urlò qualche parola che non afferrai. Riposi la scopa nello sgabuzzino. Marina continuava a creare il cuore. E le riusciva.
«Marina, posso finire il timone?» chiesi.
«L’hai già finito» rispose. «Fammi fare questo cuore. Vai a farti la doccia, guarda la televisione, leggiti un libro, mangia, bevi, basta che non mi rompi le palle.»
«Mi spieghi che ci trovi di bello in un cuore?»
«E tu che ci trovi di bello in un timone?»
«Un timone è bello. Lo usano i pirati.»
Sorrise appena. Decisi di osare. Mi avvicinai e le rubai l’argilla dalle mani. Lei alzò gli occhi e mi penetrò con la sua vista di undici decimi, praticamente perfetta.
«Rendimelo.»
«I pirati non rendono il bottino, cara mia.»
«Sei un coglione.»
Si alzò e andò in bagno. La sentii chiudere la porta a chiave. Chiusi la finestra e alzai il volume della radio. Stavano passando un album intero di un cantautore del sud Italia e riuscii a ignorare il gatto. Spezzai il cuore e modellai due pomelli. Poi li presi e li appiccicai al timone. Era bellissimo. Non vedevo l’ora di pitturarlo di marrone. Guardai la maschera insapore di Marina e la compatii. Osservai la porta del bagno, dietro la quale non un solo rumore arrivava.
Andai in cucina. Che potevamo mangiare quella sera? C’era del tacchino, della lattuga, un paio di pomodori, vari tipi di formaggio. E una bottiglia di vino bianco.
«Amore!» urlai. «Che ci facciamo per cena?»
Non mi rispose. Richiusi il frigo e finii la birra osservando il mio timone con un orgoglio sempre più crescente. Immaginai le mie mani sul timone e un pappagallo starnazzante sulla mia spalla, che ripeteva sempre qualche frase imparata in qualche libro di Salgari o in qualche filmaccio di seconda categoria sui corsari. Cercai nei pantaloni della sera prima il pacchetto di sigarette Liliana. Aprii la finestra e ne fumai una, osservando il ramo dove fino a poco prima il gatto piangeva e il terrazzo sul quale la sedia a dondolo era ormai ferma, e la vecchia chissà, forse a morire da qualche parte della cucina. La pensai con delle bruttissime presine a forma di mano ricamate da lei stessa in freddi pomeriggi piovosi. La vidi aprire il forno ed estrarre dei cibi semibruciati dall’aria cancerogena. La sentii parlare con l’anfora delle ceneri del defunto marito e lamentarsi di quel pazzo con la scopa che non lasciava in pace quel povero gattino.
Spensi il mozzicone sul muro e lo gettai per strada. Sentii Marina uscire dal bagno.
«Marina» dissi entrando in camera. Lei si stava passando l’asciugamano azzurro sui capelli. Si era messa una maglietta bianca e dei pantaloncini neri. «Che ci vogliamo mangiare per cena?»
Non mi rispose. Mi appoggiai alla porta.
«Marina» ripetei.
Lei continuò a fissare lo specchio, e in esso lei e i suoi capelli umidi, che le cadevano sulle spalle ricoperte dal cotone della maglietta bianca.
«Che ci mangiamo per cena?» provai.
«Argilla» disse, continuando a guardarsi negli occhi.
Feci una finta risata e le andai vicino.
«E dai, amore» tentai. «Non ti sarai mica arrabbiata per quel pezzo d’argilla?»
Non disse niente e si scansò quando provai a baciarla sul collo. Poi si voltò e tornò nel bagno, chiudendo la porta dietro di sé. Bussai gentilmente e con la voce di miele le dissi di non fare la stupida.
«Marina, sono le otto» le dissi con la voce di zucchero. «Non litighiamo, ti prego. Ci prepariamo una bella cenetta, ci beviamo un bel bicchiere di vino bianco e ci guardiamo un film. Oppure ci leggiamo un libro insieme. Però non rovinare questa sera così tranquilla. Domani mi devo alzare presto, lo sai. Devo entrare al supermercato alle sette. Ti prego, non litighiamo. Ti chiedo scusa per quel cuore, davvero.»
Non fiatò. Appoggiai la testa sulla porta del bagno. Sentii scrosciare dell’acqua.
Quella puttana della zingara, pensai. E quel coglione di Gianluca. E quel professore spagnolo di merda. E le tette provocanti di Silvia. E i bicchieri di prosecco e martini bianco. E quella puttana della zingara. Mi passai le mani sulle tempie, poi lo sentii. Era di nuovo sul ramo, e piangeva. Ancora più di prima.

Tommaso Zucconi

Author: Alieni Metropolitani

Gli Alieni Metropolitani non cercano soluzioni. A volte ne trovano… é irrilevante. Appartengono alla Società e con sguardo consapevole ne colgono l’inconsistenza. Non sono accomunati da ideologia, religione o stile di vita ma da una medesima percezione del mondo. Accettano i riti della vita, riuscendone a provare imbarazzo. Scrivere! Una reazione creativa alla sterile inconsistenza del mondo.

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