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Annaffiava i fiori

Un racconto scritto e proposto da Davide Rissone

 

Annaffiava i fiori, si chinava incurvando la schiena senza degnarsi neppure di piegare le ginocchia e, con un innaffiatoio di plastica gialla, faceva sgocciolare l’acqua sui fiori. Annaffiava delle rose rosse mescolate e qualche primula viola, rosa e bianca e un geranio bianco, solitario, avendo cura di bagnare tutte le foglie appena smosse dall’arietta della mattina, intiepidita dal sole, ormai alto. Lo teneva con due mani, l’innaffiatoio. Una mano, con il palmo ben aperto, era poggiata sul fondo e si levava verso l’alto quando doveva rovesciare l’acqua, mentre l’altra, serrata e sulla quale le vene erano gonfie e dure come cavi d’acciaio, impugnava il manico. Spruzzava qualche goccia sui petali, senza che queste riuscissero a piegarli, anche se, precipitando dall’alto, si schiantavano su di loro come scocchi d’unghia su un calice di cristallo. Tintinnavano le gocce, e scivolano giù, sulla superficie cerosa dei petali, e andavano a conficcarsi nella terra soffice, smossa dalle sue mani nei giorni precedenti, creando crateri più o meno profondi, lasciando cicatrici e segni del loro passaggio. Poi scomparivano, le gocce, risucchiate dalla terra, e il loro posto veniva preso da altre, in caduta libera dai rami, dalle foglie e dai petali. Era come pioggia tropicale, intermittente e rumorosa.

Raddrizzò la schiena, con una mano sostenne il peso dell’innaffiatoio (un rivolo di acqua sporca le filtrò tra le dita), l’altra l’abbandonò lungo un fianco, e si spostò di qualche passo per ripetere l’operazione con altri fiori. Si chinò, la mano era stretta al manico si mosse e altre centinaia di gocce sparpagliate caddero dal cielo, senza neppure una nuvola a perturbarlo, per abbattersi sulle piantine. Sembravano dei paracadutisti in miniatura. Teneva gli occhi bassi, però, anche quando sollevava il capo e si rialzava da terra.

Non un movimento di troppo, non uno scatto della mano, per non rischiare di affogare i fiori delicati, piantati appena qualche giorno prima, due giorni esatti dopo l’inizio della primavera. Indossava ancora la camicia da notte, un vestito deformato, azzurro tenue con motivi floreali dipinti sopra, mezzo sbaditi, e le pantofole, quelle per casa, con la suola consumata in corrispondenza del tallone. Erano marroni le ciabatte, come la terra nella quale stava camminando.

 

«Perché non hanno fatto le uova? Le fanno tutti i giorni. Gaia ne fa sempre uno grande, più grande di tutti gli altri. È caldo. Delle volte è bianco, altre è sporco. Le dico Grazie Gaia! Hai dormito bene? E poi le accarezzo la testa, lo sai papà?»

«Domani ne faranno tesoro, non preoccuparti.»

«Si sono spaventate le galline? È per quello che non ne hanno fatte? Eh, papà? Papà?»

 

«Hai già chiamato?»

«Ci metterà un po’. Non prima di un’ora buona, ha detto.»

«Scusa? E io cosa dovrei fare nel frattempo?»

«Se vuole…»

«Lascia stare, è meglio. Il medico, almeno?»

«Sta arrivando… Guardi, lì. Sta scendendo da quel Pandino bianco.»

 

«Grazie per essere venuto così in fretta… non so che dire.»

«Carla?»

«Là.»

«La piccola?»

«In casa. È stata lei a…»

«Mio Dio.»

 

L’aria, per un attimo, restò immobile. Come se avesse svolto il suo compito e adesso potesse concedersi una pausa. Le due file di fiori, piantati nella parte di giardino a nord della casa, quella affacciata sulla strada, vennero annaffiate tutte. Non ne restava nessuna asciutta. Posò a terra l’innaffiatoio e con una mano di taglio sulla fronte schermò il sole. Rivolse lo sguardo verso il cancello. Era spalancato e alcune auto avevano parcheggiato in cortile. Si chinò, raccolse l’innaffiatoio ancora bello colmo d’acqua e riprese ad annaffiare i fiori. Le goccioline cadevano mentre la sua schiena faceva su e giù.

 

Ho sceso le scale scalzo. I gradini cigolavano. Ci poggiavo appena il peso sopra ma questi scricchiolavano. A metà scala ho lasciato perdere e ho camminato normalmente. Era chiaro fuori. Ho aperto la porta sul retro e sono uscito in giardino. La sera prima l’avevo lasciata solo socchiusa, perché quella, quando ci infili la chiave, fa un casino d’inferno, e avrei svegliato tutti. Mio padre ha il sonno leggero. L’erba era ancora umida, mi solleticava i piedi, ma non faceva rumore. Le galline dormivano. Sono andato nella rimessa. Avevo preparato tutto la sera prima, dopo cena, mentre mio padre guardava la tv, la mamma lavava i piatti e Alice giocava sul tappeto in sala, di fronte alla tv. L’ho nascosto dietro al rimorchio del trattore e ci ho tirato sopra il telo. Mi sono chinato e ho sentito un rumore. Un fruscio lungo il muro. Ho pensato ad un topo nascosto tra gli attrezzi. Ho allungato comunque la mano e l’ho afferrato. Era freddo e pesante. E mentre lo sollevavo, di nuovo, il rumore. Mi sono tirato su di scatto e sul cofano del trattore, appollaiata sul telo, c’era una gallina. Se ne stava lì, mezza addormentata. Le zampe raspavano contro il telo. Era bella grossa. Ho creduto fosse Gaia, la preferita di mia sorella. L’ho presa tra le mani. Lei non ha fatto una piega, ha solo aperto gli occhi. Con un piede ho spalancato la porta e l’ho spinta fuori, sul prato.

 

Una spina, un po’ più lunga delle altre, le si impigliò nella camicia da notte. Non se ne accorse subito. Si spostò di lato per annaffiare il geranio, il vestito rimase indietro di un passo e questa la graffiò; lacerò il tessuto e arrivò alla carne. Si aggrappò così bene che per liberarsene dovette abbandonare a terra l’innaffiatoio e usare entrambe le mani. Una goccia di sangue le scivolò lungo la gamba. Era denso e scuro, e arrivò fino alla caviglia. Si pulì con un dito e recuperò l’innaffiatoio. Riprese ad annaffiare i fiori senza più alzare il capo.

 

«Gaia era per terra. Nel pollaio. Non stava dove sta di solito, in mezzo alla paglia. Forse è per quello che non ha fatto le uova? Eh, papà? È per quello? Non stava comoda, lì?»

«Tesoro, adesso va’ in casa. Io arrivo subito.»

La bambina rientrò e chiuse la porta dietro si sé. Un attimo dopo comparve alla finestra, aggrappata al davanzale. Guardava la mamma innaffiare i fiori. I suoi piedi erano nudi.

 

«Chi l’ha trovato?»

«La bambina, ma ho chiamato io. È uscita per prima. Lo fa tutte le mattine. Controlla se le galline hanno fatto le uova. Le piace farlo. Ha dato un nome a tutte quante. Mia moglie dormiva.»

 

Dovevo fare in fretta, prima che mamma venisse in giardino ad annaffiare i fiori. Sentivo i piedi raffreddarsi. Mi sistemai sotto la tettoia. Sentii un’auto passare nella nostra strada. Di sicuro Livio, che andava a prendere il caffè. La gallina stava ferma di fronte al pollaio.

Pesava. Era troppo pesante e poi non riuscivo proprio a tenerlo nella giusta posizione. Ho allungato la mano e con il dito ho cercato di premerlo. Non si sono riuscito. Mi sono seduto e ho provato così. Mi sono accovacciato a terra per ridurre più possibile la distanza, ho incrociato le gambe e l’ho impugnato con entrambe le mani. Macché, niente, non si riusciva. L’ho gettato nel prato, appena sotto l’albero. A quel punto, per la prima volta, ho visto le mani tremare. Delle volte mi capita quando sono sul trattore. Non me ne accorgo subito perché seduto lì, con una mano sul volante e l’altra appoggiata al passaruota in lamiera, è come essere avvolto in una enorme vibrazione. Tutto trema. Il volante, la leva del cambio, il cofano, la chiave nel cruscotto che prende a sbattere di qua e di là, e le ruote, sia che vada in giro per un campo appena arato o sull’asfalto. È tutto un sobbalzo, un tremolio. Mi sembra di avere il Parkinson. Anche i capelli tremano, e la pelle sulla faccia; la sento sbattere contro i denti. Le ossa quasi scricchiolano, come quando fai scrocchiare la schiena o le dita delle mani. Mi sembra di essere cullato dentro una centrifuga. Sobbalzo. Delle volte mi piace accelerare per vedere cosa succede. Affondo il piede sul pedale e sento il trattore borbottare, come una caffettiera lasciata un po’ troppo sul fuoco. Allora ci si mette pure l’aria. Oltre a vibrare tutto sento pure il vento cogliermi in piena faccia. Chiudo gli occhi, tanto il sole è così basso a quell’ora da rendermi praticamente cieco. Tengo gli occhi chiusi e accelero. Il vento si fa più forte, non ho paura, no, per niente, sono rilassato, comincio a contare, uno, due, tre, quattro… una volta sono arrivato a venti prima di aprili. Non è successo nulla. Conosco le campagne, ci sono nato. Conosco la terra. È argillosa, e quando piove diventa un pantano. È come colla. Si aggrappa agli stivali e non la stacchi più. E se aspetti che si asciughi è peggio. Si formano delle croste spesse che si sgretolano appena. Gratti, gratti, ma niente. Bisogna bagnarle con la pompa dell’acqua, farle tornare ad essere fango, argilla e solo a quel punto, piano piano riesci a pulirti.

Quando mi fermo e spengo il motore tutto tace. Mi sento il corpo. È di nuovo lì, con me. Le mani, però, continuano a tremare, come se avessero paura di qualcosa. Non la piantano neppure dopo la doccia, quando mi sdraio sul letto per riposare un po’. Sembrano vibrare. Come se qualcosa le avesse dato la scossa. Io provo a fregarle, le massaggio, ma loro niente.

Quando ho preso tra le mani Gaia e l’ho stretta, anche lei tremava tutta.

Quando ho afferrato il fucile hanno smesso di vibrare, però. Avevo una presa sicura.

 

«Cosa posso dire? Una settimana fa è venuto da me per quel problema, ricordi Giorgio? Sì, ma niente di così allarmante. Gli ho prescritto degli antibiotici. Siamo stati tutti giovani (sorride). Era con due amici. Non ci ha neppure pensato. Se ne vergognava lui. Non credo però…»

«Ma no, che io sappia non c’era altro.»

Il dottore si voltò verso Giorgio. Stava osservando sua moglie annaffiare le piante.

«No no, come ha detto il dottore. Cosa dobbiamo fare adesso?»

 

Alcune gocce d’acqua, le più paffute, restavano appese più di altre alle foglie, o ai petali, aggrappate con ostinazione, fino a quando dell’altra acqua le investiva e, gonfiandole ancora di più, le faceva precipitare a terra. Giorgio si avvicinò. «Meglio che vai da Alice, non dovrebbe stare sola. È pieno di gente qui, e ne arriverà ancora, fammi questo piacere». E così dicendo poggiò una mano sul braccio della moglie. «Hai capito?» domandò. «Per favore. Non ho ancora capito cosa aspetta il maresciallo.»

 

«Scusi l’attesa, Maresciallo, ho fatto prima che ho potuto. Porti pazienza.»

«Venga.»

«Avete toccato niente? L’arma ha sparato? La famiglia? Mandi via tutti per cortesia e faccia entrare gli altri in casa. Il medico è già arrivato? Bene, vorrei parlarci. Adesso finisco qui. Dopo vengo in casa. È il terzo in due mesi.»

 

Io gliel’ho detto che era una cazzata. Ma loro niente, hanno voluto fare così. Siamo andati tutti con la stessa. Era carina, niente di più. Non l’avevo mai fatto, non avevo mai pagato. Simo e Leo sì, un paio di volte. Non capivo un accidente di quello che diceva. Aveva una canottiera rossa, e nient’altro. Mi ha fatto sistemare sul letto. Era disfatto. Si è messa a cavalcioni sopra di me. Io ero già stato con altre donne. Anche più belle, ma lei, non so, si muoveva in modo strano. Non era scazzata o cosa, e neppure frettolosa. Si contorceva tutta e gemeva, o fingeva di farlo. Non so. Sembrava preoccupata per qualcosa, ecco. Volevo chiederglielo ma non conoscevo la lingua e ho lasciato perdere e ho finito. Non è stato male. Un po’ mi sono vergognato, però. Simo e lei mi stavano aspettando fuori. Simo stava fumando dell’erba. Iris, credo si chiamasse la ragazza. È stata gentile.

 

Il dottore la condusse in casa. I fiori erano zuppi d’acqua. Non riuscivano più ad assorbirla e questa traboccava dalle radici, come se sgorgasse dal terreno. I petali brillavano al sole, come tanti lenzuoli stesi ad asciugare. La prese a braccetto e la fece rientrare. La sistemò sul divano, accanto ad Alice. Aveva le gambe incrociate e guardava il papà. Livio era seduto al tavolo, con entrambe le mani poggiate sulle ginocchia, come se le stesse tenendo ferme dopo tanto tremare.

 

Perché il fucile? Crede che… in un primo momento avesse progettato di farlo con questo? Sì, è possibile. E poi abbia preso la scala, fatto il nodo e si sia arrampicato… è un ciliegio, questo? Non si vede la strada da qui. Nessuno ha sentito nulla? La sorella. Quanti anni ha? Povera piccina. Ho quasi finito. Arrivo. Gli altri sono dentro? Mio Dio che caldo. Eppure siamo solo ad inizio primavera. Quest’anno sarà un anno caldo, mi creda Maresciallo.

 

Quella notte Alice aveva avuto un incubo. Quando al mattino andava a prendere le uova, trovava Gaia a terra, nella polvere, con la testa poggiata di lato, morta. Era corsa da Luca. Non va mai da mamma e papà perché il loro letto è più piccolo di quello del fratello. Quello di Luca è a due piazze e ha il materasso ad acqua. Si è intrufolata sotto le coperte, l’ha svegliato e gli ha detto «Ho sognato che Gaia era morta». Luca l’ha presa tra le braccia, l’ha stretta forte e le ha detto «Dieci minuti e torni nel tuo letto, devo alzarmi presto domani». «Perché devi alzarti? È sabato!» ha risposto lei. «Ho da fare, devo fresare il campo di Beppe. E domani farà caldo. Dai, dormi adesso. Ti porto io in camera quando ti sarai riaddormentata…» «Lu?» «Sì, che vuoi?» «Gaia non morirà stanotte, vero?» «No, non stanotte.» «Ma morirà?» «Tutti dobbiamo morire, prima o dopo.» «Questo lo so, non sono mica una mocciosa, io!» «Ah sì?» (sorride) «Scemo… non voglio che muoia stanotte.» «Non morirà. Adesso dormi. Notte.» «Notte, Lu.»

Quando la prese in braccio le sue mani tremarono. La sollevò dal letto. Dormiva profondamente ed era leggerissima. Profumava di borotalco e sonno. Era come portare tra le braccia un cuscino appena lavato. L’accomodò nel suo letto, le rimboccò le coperte, le scostò i capelli dal viso e uscì dalla stanza. La porta della camera da letto dei genitori era socchiusa. La luce, dalla finestra, arrivava fino al corridoio. Luca scese di sotto, stava per albeggiare.

 

«La bambina sta bene?»

«Non so, continua a chiedere di Gaia e delle uova, non so dottore.»

«Sarebbe meglio portarla via. Dalla nonna, magari. Sarebbe meglio.»

«Carla, ti va di andare con Alice da tua mamma? Ci vediamo lì, appena hanno finito.»

 

Faceva freddo, troppo freddo per poter fare un uovo. Le altre dormivano ancora. La porta era solo socchiusa, non ci avevano messo il solito fil di ferro. Volevo fare un uovo, ne avevo bisogno. Sono uscita e ho attraversato il prato. Era bagnato. La rimessa di solito è calda. Ci mettono il trattore dopo tutto il giorno di lavoro. È ancora caldo il trattore, soprattutto il cofano. Sono entrata, era buio là dentro e c’era tanta polvere. Ho svolazzato fin sopra il trattore. Era coperto, il trattore. Il cofano non era più caldo, ma la coperta sì. Mi sono accovacciata. Non potevo fare l’uovo, sarebbe rotolato giù per terra. Si stava meglio che nel pollaio, però. Sono rimasta lì e mi sono addormentata. Non sono quanto tempo è passato. È entrato qualcuno è mi sono svegliata. Ho sentito una stretta, qualcuno mi stava stringendo le ali contro il petto. Un attimo dopo ero nel prato. L’erba era meno fredda di prima. Sono andata verso il pollaio.

 

Carla era girata su un fianco. Potevo sentirla respirare. Non so che ore fossero. Presto, perché non c’era ancora tanta luce. Mi sono alzato cercando di non svegliarla e sono andato in bagno, per farmi la barba. È la prima cosa che faccio la mattina. Ho preso a radermi e appena ho finto ho sentito dei passi in corridoio. Alice, ho pensato. Va a prendere l’uovo di Gaia. Beata bambina. L’ho sentita camminare piano, per non svegliare nessuno. Quando è arrivata alle scale, si è fermata di colpo. Il primo gradino scricchiola, devo decidermi a sistemarlo un giorno di questi. Mi sono infilato sotto la doccia. Poi sono tornato in camera. Carla si era voltata, ma dormiva ancora. Mi sono vestito. I vestiti erano appoggiati alla sedia, poi ho accesso un sigaro e ho aperto la finestra. A Carla piace svegliarsi con l’aria fresca. Ho accostato le due ante in modo da far filtrare appena qualche spiffero e al tempo stesso per permettere al fumo di disperdersi. A Carla non piace il puzzo di sigaro. Le piace quello della pipa. È più dolce. La pipa, però, la fumo solo la sera, prima di andare a dormire. Il sabato faccio con calma. È l’unico giorno in cui mi alzo dopo Luca. Ho spento il sigaro e me lo sono messo in tasca. Avevo voglia di caffè. Sono sceso di sotto, ma non ero ancora arrivato a metà scala quando l’ho sentita. Alice ha gridato, poi più niente. Un solo urlo. Mi ha ghiacciato lì. Non l’avevo mai sentita urlare a quel modo. «Alice, Alice, tesoro, che succede?» ho detto, mentre uscivo in giardino.

 

Il trattore è un vecchio Same rosso sbiadito. Le ruote sono sempre sporche di terra secca rappresa, più o meno del colore dell’argilla.

 

A mio padre non tremano mai le mani. Non ha esitazioni. Credo non ne abbia mai avute in vita sua. I campi lì ha comprati lui. Ha risparmiato una vita, ha investito, ha fatto fruttare i soldi e ha comprato ettari e ettari di campi da coltivare. La prima volta che ho guidato un trattore avevo dieci anni, su per giù. Era un Lamborghini giallo, un po’ più grande del Same. Bisognava arare un pezzo di terra e poi fresarla per poterci seminare il grano. «Mettiti qui, dai spostati… adesso guidi tu» mi ha detto. Io ero appoggiato al passaruota e mi stavo godendo il sole del primo mattino puntarmi dritto in faccia. Era tiepido. Mi sono messo al posto di guida e lui si è fatto un po’ più indietro. «Io accelero, e tu guidi, va bene?» ha detto. Ho posato le mani sul volante e ho cercato di imitare i gesti che faceva lui quando guidava. «Segui sempre i solchi e quando arrivi in fondo – là, vedi? – fai lo stesso con quello dopo». Il volante vibrava e la terra veniva rivoltata sottosopra. Si sbriciolava, mentre la lama ci affondava dentro. Era come se affettassimo un enorme pagnotta di pane. Superata la crosta, l’interno era soffice e spugnoso. Quando incontravamo una zolla più dura delle altre il motore gracchiava più forte e a me tremava tutto il corpo. Mio padre, invece, con lo sguardo perso chissà dove, ben oltre il sole, era immobile. Non un movimento, non un sussulto. Una mano poggiata sul cambio e l’altra sul ginocchio. Era come una statua.

Poi siamo arrivati alla fine del campo. Il suo piede si è sollevato mentre una mano si è poggiata sopra la mia, per aiutarmi a girare il volante. E, solo allora, ho smesso anch’io di vibrare. I calli sul suo palmo mi graffiavano ma la sua mano era calda e ferma. Ha rimesso il trattore in posizione, a fianco del solco, e abbiamo ripreso. Il sole era alle nostre spalle e ci scaldava la testa. Io guidavo quasi da solo. Mi piaceva fare quella cosa. Non avrei mai più voluto scendere da lì.

 

Alice raccontò che a scuola stavano studiando i nomi delle piante. «Noi ce l’abbiamo un acero rosso a casa? E una magnolia? E un faggio? La maestra vuole che portiamo a scuola delle foglie, così poi cerchiamo di riconoscerle.» «C’è una betulla, dietro al pollaio. È quella con la corteccia bianca e nera, come le zebre.» «Posso prendere una foglia di betulla?» «Dopo cena papà ti porta fuori.» «Grazie, mamma. Lu, vieni con noi? Lu? Vieni a raccogliere le foglie con noi?»

 

La sera prima, a cena, si mangiò insalata fredda di bollito, con cipolle rosse. E il purè. Per dolce un budino al cioccolato.

Dondolava, cullato dal venticello di primavera. Scandiva il tempo con il suo sporgersi prima di qua e poi di là, poi di nuovo di qua e ancora di là. La luce del sole veniva spezzata ad ogni dondolio. Un attimo c’era e un attimo dopo, al suo posto, rimaneva solo l’ombra, scura e appena allungata, appiccicata sull’erba. E poi eccola di nuovo. Incendiava l’erba sul prato, asciugandola dall’umidità della notte.

La corteccia scricchiolava, ma il ramo era robusto.

 

***

Davide Rissone

Author: Alieni Metropolitani

Gli Alieni Metropolitani non cercano soluzioni. A volte ne trovano… é irrilevante. Appartengono alla Società e con sguardo consapevole ne colgono l’inconsistenza. Non sono accomunati da ideologia, religione o stile di vita ma da una medesima percezione del mondo. Accettano i riti della vita, riuscendone a provare imbarazzo. Scrivere! Una reazione creativa alla sterile inconsistenza del mondo.

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