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Dark Explorer :: Ultima Parte

Un racconto scritto e proposto da Stefano Cortese

 

 

5

Fuori

 

Durante il mio turno al timone di ieri è accaduto qualcosa. Qualcosa che mi ha fatto comprendere molte cose. Voglio raccontare ciò che ho visto e questo sarà il mio ultimo appunto. Non ha senso lasciare memoria di ciò che sto vivendo. Non credo che questa memoria possa valere più delle altre solamente perché sono abbastanza cosciente da poterla fissare. Non credo possa valere molto dopo quello che ho visto là fuori.

Ero, dunque, seduto al timone. Jessop era di vedetta e il capitano a riposo nei suoi alloggi. Avevamo trascorso le prime ore della giornata serenamente, avevamo pranzato e m’ero goduto un lauto riposo prima di mettermi al timone.

Erano le ore mediane della giornata, stavo controllando gli strumenti di navigazione, quando mi sono accorto di una spia che non avevo mai vista accesa prima. Una spia verde, sul piano di controllo dei sensori esterni. La spia lampeggiava, ma non potrei dire da quanto, dato che me n’ero accorto soltanto perché non l’avevo mai vista.

Ho controllato di cosa si trattasse e sono trasalito: era la spia del sistema di localizzazione delle altre navi.

Ho chiamato subito Jessop, perché venisse a controllare che non mi stessi ingannando, prima di destare il capitano da quel sonno di cui aveva tanto bisogno. Jessop ha controllato e come me, tutto eccitato, è convenuto che si trattasse del sistema di localizzazione.

Ho chiamato il capitano all’interfono e lui ha raggiunto la sala controllo con una corsa e con un grande sorriso sulle labbra.

«Da quanto tempo lampeggia la spia?»

«Credo dieci minuti, capitano.»

«Hai stabilito da dove proviene il segnale?»

«Credo oltre quel crinale laggiù, capitano, a poco più di due chilometri a tribordo.»

«Potrebbero essere i nostri, capitano?» chiese Jessop.

«Sì ragazzo, è probabile» ha risposto il capitano con un tono pieno di speranza.

Il capitano ha poi preso posto al timone e ha virato leggermente a tribordo verso la fonte del segnale. La nave si è alzata agevolmente sopra il margine del canyon e oltre la parete rocciosa non abbiamo trovato il baratro della tenebra, come ci aspettavamo, ma una sorta di terrazza, una piana poco ampia e frastagliata, oltre la quale si estendeva il buio.

Il capitano ha aumentato la velocità e in pochi attimi abbiamo raggiunto un assembramento di bassi picchi contorti e il segnale del rilevatore s’è fatto più intenso.

Per quanto potessero essere bassi, i picchi avevano tutte le sembianze di montagne, ma assai meno impervie e scoraggianti di quelle che avevamo imparato a conoscere in quella regione.

Dalla piramide di prua non si scorgeva nulla che potesse ricordare una nave. Eppure, qualsiasi cosa fosse ad emettere quel segnale era laggiù, tra quelle cime.

«Cosa facciamo capitano?»

«Atterriamo.»

«Bene. E poi?»

Il capitano tacque per un momento. Sorvolare quella zona era inutile. Il capitano sapeva che c’era un’unica soluzione per svelare l’arcano: andare laggiù a piedi.

«Dobbia… dobbiamo uscire?» ha chiesto Jessop, balbettando e marcando l’ultima parola con un lamento che sapeva di stupore e sgomento.

«È l’unica maniera per capirci qualcosa, ma non temere Jessop, tu non uscirai. Tu e Hodgson resterete a bordo, mentre io andrò in perlustrazione.»

«Capitano, mi permetto di osservare che la sua presenza a bordo è indispensabile. Jessop è troppo emotivamente scosso per affrontare la missione, quindi tocca a me andare.»

«Non se ne parla, andrò io.»

«Capitano, mi ascolti. Secondo il regolamento, in casi d’emergenza come questo, al capitano spetta il dovere di restare al posto di comando e coordinare le operazioni, che in tal frangente potrebbero essere di salvataggio. Io sono il suo primo ufficiale, tocca a me andare là fuori. Il suo compito è restare qui, badare alla nave ed esser pronto a soccorrermi qualsiasi cosa dovesse accadere. Poi, francamente, sono l’unico in grado di affrontare questa situazione. Jessop è un ragazzo ed è troppo spaventato per avventurarsi da solo là fuori. Lei, mi scusi, ma non è nelle condizioni ottimali per affrontare un’esperienza del genere. Sono l’unico in grado di farcela, capitano. Lo sapete entrambi.»

Il capitano era pensieroso, ma sapeva che avevo ragione. Ha guardato Jessop, che lo implorava con gli occhi affinché egli restasse a bordo ed io uscissi in avanscoperta. Poi ha rivolto lo sguardo su di me e ho visto i suoi occhi pieni di apprensione paterna nei miei riguardi, ma non aveva scelta, era con le spalle al muro. «Va bene» disse, «ma fa molta attenzione». Ho annuito serio ed ho evitato con cura di dirgli che io, là fuori, ci volevo andare.

La nave è atterrata con una leggero tonfo, ma senza alcun intoppo sulla terrazza prospiciente l’agglomerato di cime e picchi oltre il quale doveva trovarsi l’altra nave.

Prima di aprire il portello, e senza che Jessop mi vedesse, il capitano mi ha abbracciato forte e mi ha ripetuto di fare attenzione, chiamandomi “figliolo”. Poi il portellone d’ingresso si è aperto lentamente, con un singulto metallico, un cigolio di stenti che faceva ben intuire da quanto tempo fosse rimasto chiuso.

Ero equipaggiato con un’attrezzatura costruita apposta per gli “scotonauti”, come venivano chiamati un tempo gli esploratori delle tenebre: era un’imbragatura dorsale, chiusa sullo sterno, costituita da quattro potenti fari autoalimentati e assai leggeri. I fari erano poi dotati di un sistema di rilevamento dei movimenti, così da poter focalizzare subito qualsiasi cosa si spostasse nelle tenebre. Il capitano mi ha consegnato pure uno dei fucili dell’arsenale di bordo, in modo da prevenire qualsiasi evenienza.

Finalmente ho guardato l’esterno con la liceità del dovere e mi sono accorto che il buio aveva un odore nuovo a quelle latitudini, più fresco e rigido di quando l’avevo percepito illegalmente, aprendo l’oblò del mio alloggio. La temperatura era soltanto di pochi gradi inferiore a quella interna della nave, cosicché potevo indossare l’uniforme senza munirmi d’altri e più pesanti indumenti.

Ho disceso lentamente la scaletta della piattaforma del portellone, guardandomi solo per un istante dietro: il capitano e Jessop stavano in piedi al limitare del portello, avvolti dal riverbero della luce candida della nave, e mi guardavano con occhi misti d’apprensione e fermento.

Poi mi sono voltato all’esterno e senza esitare ho disceso anche l’ultimo gradino. Per la prima volta in vita mia ho sentito la consistenza della terra sotto ai piedi. È stata una sensazione assai singolare. All’inizio ho provato una vertigine, poi poco a poco mi sono abituato al fondo irregolare del suolo e ho mosso i miei primi passi fuori. Ho respirato a lungo l’aria fresca delle tenebre e ho acceso i fari che m’hanno circondato di un’aureola di luce, così che ero un punto solitario, oltre quello della nave, un punto solitario di luce bianca in un vastità compatta e infinita di catrame nerissimo.

Ho guardato la nave e l’ho vista per la prima volta dell’esterno, così come l’avevo immaginata, colossale e fragile al contempo in quei luoghi perduti.

Il suolo a terra era brullo: rocce appuntite spuntavano qua e là dal suolo, qualche pietra si spostava sotto ai miei passi, di tanto in tanto dovevo stare attento a una depressione poco profonda. Controllai che il sistema di rilevamento dei movimenti funzionasse agitando una mano davanti a ciascuno dei fari, e questi prontamente ne seguirono lo spostamento.

Le luci fendevano il buio, ma lo facevano a fatica, me ne accorgevo. Illuminavano poco più che il passo successivo che avrei fatto, ma non oltre, non più in là. Le tenebre erano dense e compatte e m’è parso addirittura, qualche volta, di attraversare una sostanza allo stato di plasma, che mi impedisse i liberi movimenti.

Ho camminato per un lungo tratto in quella compagine di nero, voltandomi qualche volta alla nave, che diveniva sempre più vaga dietro di me. Intorno non si udiva alcun rumore: né il vento, né altri fenomeni naturali producevano alcun suono in quella regione. Udivo soltanto il rumore dei miei passi, e anch’esso mi pareva attutito, smorzato come provenisse da lontano. Era un silenzio che non avevo mai udito, la voce stessa di quell’eterno abisso.

Dopo circa mezz’ora, mi sono trovato a contatto coi primi picchi della catena, e allora ho attivato un altro strumento che avevo in dotazione: era un sensore non dissimile da quello del pannello di controllo, ma portatile, che mi serviva per localizzare il segnale della nave dispersa.

Il segnale era abbastanza intenso, significando così che non avrei dovuto cercare a lungo. Mi voltai verso la Dark Explorer, ma era un bagliore confuso tra l’oscurità.

Mi sono inerpicato attraverso quello che mi sembrava un sentiero naturale, una spaccatura, un canale forse, tra le rocce, unico punto in cui mi sembrava possibile affrontare l’arrampicata. Per mia fortuna i picchi non erano troppo alti, né difficilmente aggirabili e attraversati da una serie di gole, gallerie brevi e dedali che, speravo, non si facessero troppo intricati.

Sotto ai fari splendeva il silicio delle rocce, restituendomi l’idea che m’ero fatto delle stelle, che non ho mai veduto, così come m’era stato raccontato con le favole al tempo della mia infanzia.

Il segnale era sempre più forte e questo mi rinfrancava molto. Ero sereno, devo ammetterlo. Non ero spaventato da quell’oscurità silenziosa che mi circondava e brandivo il fucile più come bastone d’appoggio che come arma di difesa. La serenità che m’istillava nell’animo quella pace infinita, quell’assenza perpetua che mi attorniava, era come un anticipo di beni maggiori, di coscienze pervenute, di esiti giunti: come avessi avuto finalmente certezza del domani e di un domani sincero e mite.

Il segnale divenne intenso e lo strumento iniziò a emettere anche un cicalio sommesso: la nave doveva essere nei paraggi. Mi son mosso lentamente, trovandomi ora in una gola di cui avevo individuato l’uscita oltre una spaccatura a V della roccia e facendomi strada anche con le mani, finché non sono uscito e mi sono trovato in una sorta di radura abbastanza ampia.

Non sapevo cosa il capitano e Jessop si aspettassero di trovare. Credo che il segnale di presenza di un’altra nave fosse sufficiente, per loro, a giustificare anche l’esistenza di un equipaggio e di qualsiasi cosa fosse ad esso vincolata. Si aspettavano di trovare persone vive, forse, uomini venuti a cercarci per trarci in salvo e condurci alla base. Erano stati eccitati da questa idea, senza accorgersi delle condizioni, senza voler constatare, ancora una volta, la realtà: stavamo cercando un relitto, non la salvezza.

È stato questo pensiero a cogliermi, come la verifica d’una supposizione, quando mi sono trovato davanti l’altra nave nella radura oltre quella gola: un rottame indistinto tra le rocce aguzze.

Il segnale era vibrante, così ho spento lo strumento e mi sono avviato verso il relitto. Non era tutta la nave: era un tronco, approssimativamente la parte che sta tra la piramide di prua e la zona carico. Un terzo d’un bastimento d’oltre trecentocinquanta metri.

Sopra di me si alzava la mole in metallo della nave, arrugginita da un tempo che, presumibilmente, doveva essere stato lungo. La piramide di prua era fracassata contro le rocce e la nave era spezzata a poco prima per mezzo, ma della poppa non c’era traccia alcuna. Era adagiata sul fianco di tribordo, incastrata nella roccia e questo mi fece intuire che si fosse schianta sulle rocce.

Il nome era invisibile, cancellato dalla ruggine o forse dalla devastazione che aveva inguaiato lo scafo. Ormai era un ammasso di metallo, un rudere più simile alla roccia di silicio che a qualcosa d’umano. Non ero sconcertato da quella vista, attendevo qualcosa del genere. Fui sollevato, tuttavia, dal fatto che al posto mio non ci fossero Jessop o il capitano, evitando così che davanti a quello spettacolo e col fucile imbracciato avessero idee malsane.

Finalmente, mi sono deciso a entrare. Sono asceso per una piccola erta attraverso la quale s’accedeva allo squarcio che aveva reciso la poppa e che sembrava una mastodontica bocca spalancata nel buio, irta di denti contorti. Mi sono issato con un piccolo sforzo, fino ad accedere oltre la paratia. I sensori di movimento dei fari erano restati immobili per tutto quel tempo e anche lì dentro erano fermi e riflettevano la luce su un degrado non meno diffuso che all’esterno.

Silenzio, buio, distruzione indistinguibile era tutto ciò che regnava in quella che un tempo, che oramai temevo remoto, era stata una nave da esplorazione. A giudicare dalle condizioni in cui versavano le paratie, i resti di alcuni strumenti e varie, altre, non identificabili cose, la nave doveva effettivamente essersi schiantata lì in un tempo remoto. Questo significava molte cose: che la base avesse inviato a nostra insaputa un’altra nave in esplorazione oppure che un’altra nave avesse tentato di raggiungerci per trarci in salvo, finendo essa stessa nei guai, oppure ancora che una nave si fosse messa in viaggio da un’altra base a noi sconosciuta. Tutto quello che potevo congetturare, tuttavia, osservando le condizioni del relitto, era che doveva essere stato un naufragio spaventoso.

Ho riacceso il segnalatore e mi sono avviato, facendo molta attenzione a dove mettessi i piedi, per non incappare in quei resti fossilizzati, verso quelli che dovevano essere i rottami della sala di controllo.

Ho notato allora una luce verde, del tutto identica a quella del segnalatore della Dark Explorer, che brillava sui frantumi del pannello di controllo. La luce lampeggiava debolmente, segno che una minima attività elettrica ancora sussisteva nella nave. C’era qualcosa di vagamente familiare nella nave ed io naturalmente conclusi che dovesse trattarsi di una nave gemella della Dark Explorer.

Mi sono guardato un po’ intorno, ma non vedendo che un’inutilità diffusa. Mi sono allora deciso a tornare indietro e comunicare a malincuore i risultati della scoperta, quando ho notato qualcosa riverso a terra, poco oltre il pannello di controllo. Mi sono avvicinato e ho puntato i fari verso quella cosa scomposta e con un moto di sgomento ho notato che si trattava di resti umani: uno scheletro bianco, nudo, consumato dalle tenebre.

Mi sono avvicinato a quelle ossa e mi sono chinato per osservarle meglio: era un corpo umano apparentemente integro, appartenente a qualcuno morto non in seguito all’incidente, ma per inedia. Conclusi che doveva essere sopravvissuto all’urto, per poi morire lentamente di stenti, avendo perduto nell’incidente le provviste.

Lo scheletro era riverso a terra, polveroso, scarno, liscio e ho notato che indossava un’uniforme del tutto uguale alle nostre. C’era qualcosa, tuttavia, in quello scheletro che accrebbe il senso di familiarità che m’aveva investito mentre attraversavo quei rottami. L’ho osservato più attentamente, avvicinandomi di molto, ma quelle orbite cave e nere non mi restituivano altro che un vago e incomprensibile senso di già visto. Allora ho deciso di controllare il nome ricamato sul petto dell’uniforme, logora e consunta, e un moto di terrore cieco m’ha attraversato l’anima, facendomi involontariamente emettere un grido che rimbombò nelle paratie schiantate e nelle tenebre. Istintivamente, ho letto il nome impresso sulla mia uniforme, per rileggere poi quello sull’uniforme dello scheletro: non c’erano dubbi, c’era scritto “Hodgson”.

Non volevo convincermi di quella scoperta sconcertante e spaventosa e così decisi di fare una controprova. La mia uniforme s’era strappata al gomito della manica destra una volta, ed io l’avevo rattoppata alla meglio, lasciando evidente la cucitura. Tesi la manica dell’uniforme dello scheletro e la cucitura era lì, coperta di polvere, ma evidente e chiara. Quella era la mia uniforme, quello era il mio scheletro. Allora ho compreso, mentre il cuore mi batteva violentemente nel torace, la mente s’affliggeva e la desolazione che avevo intorno si faceva viva e carnale, che quei rottami, quel relitto, che quella nave era la Dark Explorer.

Sono indietreggiato velocemente, nella prima intenzione di fuggire a quella vista spaventosa, ma poi sono inciampato e sono caduto a terra, rischiando di fracassare i fari: sarebbe finita per me. Non avevamo più radio funzionanti purtroppo e non mi sarebbe stato possibile domandare aiuto.

Mi son messo seduto e ho cercato di sedare il tremore che mi aveva colto, che mi faceva battere i denti e mi faceva ghignare nervosamente, ad imitazione e specchio di quello scheletro scarno. Ero caduto proprio davanti ad esso e lo osservai attentamente: mi restituiva uno sguardo vacuo, lontano e indifferente, sereno e infinito. Non lo sguardo di un morto, ma lo sguardo di qualcuno che si fosse disciolto e assimilato all’inesistente.

Era quello lo sguardo che avevo oltre la mia smorfia di carne? Era quello, dunque, il mio vero volto, emendato dalla menzogna della pelle e del pensiero? Ecco quegli occhi cavi, quelle orbite scure che non guardavano altro che l’oscurità che contenevano: piene di buio e rivolte al buio, primaziali, originali, scevre delle menzogne della vita. Quello era il mio volto, il volto vero che attendeva a manifestarsi e che sarebbe rimasto vigile nel buio, incosciente, disciolto, perduto e rilassato nell’ignoto.

Non so quanto tempo sia rimasto a contemplare me stesso nella mia vera forma, nella mia vera natura, adattata all’incontenibile tenebra, forse un’eternità.

Queste tenebre non contengono solo spazio, ma anche tempo, e non soltanto il tempo che noi viviamo o che abbiamo vissuto o che vivremo, ma anche tutto il tempo che noi avremmo potuto vivere. Mentre stavo seduto lì, circondato dalle luci dei fari, ad osservare il mio teschio scarno e inerme, qualcosa mi disse che, forse, ci trovavamo veramente perduti da qualche parte dentro Dio e che tutte le cose, tutti i destini che potrebbero accadere lì accadevano, in tempi e latitudini diverse. Il destino di quella Dark Explorer, entro la quale mi trovavo a contemplare null’altro che resti, era stato di schiantarsi sulle rocce e bruciare in quell’ultimo fuoco nel buio appiccato dalla sua esistenza. Il destino della nostra Dark Explorer, forse, era un altro e quello che più i miei compagni temevano: essere disciolta nel buio, assimilata all’abisso, digerita dall’eternità, col suo ignoto carico di sensazioni spaventose. In questo mondo di tenebra in cui tutti i destini esistono, sono esistiti o esisteranno, davanti ad un ghigno al contempo mio e non più mio, ho compreso allora, veramente, che tentar di venire alla luce non è che entrare nel buio per altra via. Niente altro.

Poi, quella serenità che avevo provato fuori m’ha avvinto ancora e ho fatto ciò che pochi istanti prima, atterrito da timori tutti umani, non avrei mai osato fare: spensi i fari. Mi son ritrovato immerso nel fato, nel domani, nel grande sonno, nel buio che ci attendeva alla fine del nostro viaggio. Non avevo bisogno di chiudere gli occhi per ritrovarmi cieco, anzi, i fosfeni avrebbero invalidato la visione. Mi trovai senza corpo, senza entità, un pensiero che vaga nelle tenebre, non immerso in una dimensione, né in un luogo né in un tempo, un sogno approssimato di coscienza che spazia in un tenebra infinita.

Sono restato lì molti momenti ancora a godermi quella serenità, quella pace, quell’assenza di terrore che doveva essere lo scopo del mio campare, finché non ho riacceso i fari e mi sono messo in cammino per tornare indietro.

Al mio ritorno ho raccontato della nave, ma non ho proferito parola a proposito di quel che avevo scoperto realmente.

Ho detto soltanto che si trattava d’una nave da esplorazione, probabilmente partita alla nostra ricerca, che si era schiantata sulle rocce e che non conteneva più niente di utile per noi.

Il capitano e Jessop hanno creduto alla mia versione, rimanendo assai delusi. Il capitano s’è fatto ancor più silenzioso e solitario, mentre Jessop ha iniziato a dare segni d’un più preoccupante squilibrio.

Ci siamo rimessi in viaggio dopo breve. Ora la catena montuosa è definitivamente sparita alla nostra vista e con essa l’ignoto che conteneva. Ci ritroviamo di nuovo al buio, che si chiude sempre più repentinamente su di noi, ma io non ho più alcun timore.

Ora preferisco tacere e smettere di sperare, così come ho imparato nella contemplazione della verità. Voglio restar qui a godermi il viaggio in questo ameno abisso eterno, senza inquinare il mio credo, le mie certezze, la mia mente con le menzogne con cui questa mia vita tenta di distrarmi dalla realtà, poiché io ho capito, finalmente, che domani, nel fondo delle tenebre, non c’attende la fine, ma l’infinito.

 

 

 

FINE

 

 

Author: Alieni Metropolitani

Gli Alieni Metropolitani non cercano soluzioni. A volte ne trovano… é irrilevante. Appartengono alla Società e con sguardo consapevole ne colgono l’inconsistenza. Non sono accomunati da ideologia, religione o stile di vita ma da una medesima percezione del mondo. Accettano i riti della vita, riuscendone a provare imbarazzo. Scrivere! Una reazione creativa alla sterile inconsistenza del mondo.

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