Un racconto scritto e proposto da Stefano Cortese
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Il crepuscolo degli dei
«Ancora Wagner» ha commentato Jessop alzando gli occhi agli altoparlanti e tendendo le orecchie.
Eravamo seduti, io e lui, a uno delle decine di tavoli della cambusa, stavamo pranzando, quando abbiamo sentito il preludio del Crepuscolo degli dei. Ora nella vasta stanza echeggiava quella musica potente, inconfondibile, abissale. Ci siamo guardati e abbiamo sorriso: il capitano non può fare a meno di Wagner.
È uno dei suoi svaghi. Collega il sistema fonico della sala controllo a quello dell’intera nave così che la musica si espanda nei suoi più remoti anfratti. La nave, allora, inizia ad empirsi del Crepuscolo. Immagino in quei luoghi abbandonati dei ponti alti, della stiva, delle paratie l’effetto che questa musica sublime suscita sul silenzio, sull’oscurità e sulla desolazione che vi regna.
Dopo aver finito di pranzare, io e Jessop abbiamo raggiunto il capitano in sala controllo e l’abbiamo trovato seduto al timone, con gli occhi chiusi, in estasi, mentre Wagner troneggiava sulle nostre teste e la nave affrontava il buio incolmabile dell’esterno, visibile attraverso i giganteschi vetri della piramide di prua.
«Le cose millenarie sono eterne» ha detto a un tratto il capitano, sibillino, accorgendosi della nostra presenza, ma senza aprire gli occhi e senza distrarsi da quella sua estasi.
Ogni volta che il Crepuscolo risuona nella nave, una marea di cose sotterranee sento evocate dal buio. È una musica antica, profonda, insinuante che mi pare sia stata evocata dalle medesime tenebre che ci circondano, come se Wagner fosse riuscito a intuire, in quel suo tempo remoto, le cose che ci sarebbero state rivelate oggi, in questa nostra odissea che ci conosce testimoni dell’abisso. A volte mi vien da pensare, quando ascolto questa musica, che Wagner abbia in qualche modo fatto esperienza delle nostre condizioni, ch’egli sia stato testimone di quelle stesse maree che, un giorno, la sua arte avrebbe evocato.
Ci siamo messi ai nostri posti, mentre la musica riverberava in tutto l’ambiente della sala, alta e potente. Non so per quanto tempo siamo restati in silenzio, ad ascoltare il preludio, finché l’allarme dei radar non ha iniziato a suonare. La musica si è interrotta automaticamente e nella sala è echeggiato al suo posto il cicalio d’allarme.
Il capitano, che stava quasi disteso sulla poltrona di timone, si è messo seduto con uno scatto e ha premuto l’interruttore d’allarme. I radar hanno continuato a vibrare. Il capitano ha controllato gli schermi, poi, con un sguardo serio, ha detto: «C’è qualcosa là fuori».
Allora ha alzato al massimo i fari, ma non scorgevamo niente. «Qual è la distanza, capitano?» ho chiesto.
«Circa tre chilometri a babordo.»
«Dovremmo già vedere qualcosa…»
«Lo so» ha risposto il capitano, laconico.
Siamo restati in silenzio per alcuni lunghi momenti, durante i quali non s’udiva altro che il bip del radar, con gli occhi fissi a babordo e il capitano avvinghiato al timone, pronto in caso di pericolo a virare.
«Ecco, là davanti» ho detto indicando ciò che vedevo: una parete rocciosa, alta e uniforme. «Le montagne di silicio» ha commentato il capitano, virando leggermente a tribordo, anche se la distanza tra la nave e la roccia era ragguardevole.
Non ricordavo le montagne. Le avevo viste una sola volta durante quei remoti avvistamenti del passato e non rammentavo quanto fossero immense. A babordo, per una distanza sterminata in tutte le direzioni, si estendeva una parete di roccia uniforme, scura, quasi liscia. La vetta, come le pendici di quel monte, o catena che fosse, si perdevano in altezza e in profondità nel buio. I fari illuminavano la parete ed essa brillava a causa del silicio che rifletteva la luce. Era uno spettacolo sconcertante. La nave pareva un granello di sabbia in un palmo di mano. I radar e le altre strumentazioni non riuscivano a darci, come era accaduto altre volte, misura di quelle cime.
Il capitano stava fermo davanti al timone e osservava attentamente la parete rocciosa. «Jessop, piazzati a tribordo, di vedetta, all’altezza dei fari, e guarda che non ci siano altri picchi da quella parte» ha ordinato il capitano, qualora i sensori non fossero riusciti a rilevare nulla.
La nave viaggiava parallelamente alla parete, e il capitavo aveva ridotto la velocità, per poter evitare qualsiasi contatto. «Quale sarà la loro origine, capitano?» ho chiesto, con un’ingenuità che mi ha fatto arrossire, mentre tenevo gli occhi puntati a quel prodigio uscito dal buio. «Non lo so, Hodgson. Non siamo mai riusciti a stabilirlo. Vallo a capire da dove si innalzano e dove arrivano. Quello che possiamo vedere sarà, al meno, ventimila metri d’altezza» rispose il capitano, con un tono di voce pacato, lento, quasi mormorante, come se non avesse voluto far sapere a quelle montagne che stavamo parlando di loro.
Viaggiammo per due ore fiancheggiando la parete rocciosa, sempre compatta e uniforme, estesa soltanto a babordo, ma furono due ore di tensione e di congetture disattese.
All’improvviso sentii la necessità d’andare al bagno e lasciai la sala di controllo. Mentre ero davanti al gabinetto, ho udito la voce del capitano che mi chiamava, riverberando dall’altoparlante: era agitato. Mi sono precipitato in sala controllo e ho trovato il capitano e Jessop fermi davanti alla vetrate di babordo, in piedi, in silenzio. «Che c’è?» ho gridato, e loro non hanno risposto, ma hanno continuato a fissare qualcosa oltre il vetro. Mi sono avvicinato e ho domandato ancora cosa ci fosse di nuovo. Entrambi erano pallidi e avevano gli occhi sgranati in un’espressione di sgomento. Ho guardato anche io fuori e allora l’ho vista e non ho potuto trattenere un involontario moto di terrore.
Proprio al centro della parete rocciosa, come fosse stata intagliata a bassorilievo nella roccia, c’era una testa colossale, una testa umana. Alla luce dei fari era luccicante come la roccia, alta poco meno dell’intera parete e larga la metà. Era il volto glabro d’un uomo, aveva la bocca chiusa, la fronte alta e calva e occhi vacui vasti e spalancati, in un’espressione di totale impassibilità.
Siamo restati in silenzio, avremmo dovuto provvedere a tentare di prendere campioni di quella scultura, ma eravamo pietrificati. Era così sproporzionata per la nostra concezione, da lasciarci inermi e atterriti, incapaci di prendere una qualsiasi risoluzione.
Chi o che cosa aveva scolpito quel volto nella roccia? Quando era stato scolpito? E perché? Queste domande, che ci leggevamo a vicenda negli occhi, e alle quali c’era impossibile dare una risposta anche minimamente convincente, c’avevano resi statue di sale, davanti alla devastazione che nel nostro animo aveva prodotto l’ignoto.
Pensando che qualcosa si dovesse fare, tentando di sottrarmi a quel sortilegio sotto il quale ero caduto, ho chiesto ordini in merito al capitano, ma non ho avuto risposta. I suoi occhi erano fissi alla testa, che ora stavamo superando, il suo volto era una maschera sgomenta di cieco terrore. Allora ho compreso che sarebbe stato meglio tacere.
A un tratto i sensori di tribordo hanno iniziato a suonare. Ci siamo voltati di scatto, atterriti. Il capitano s’è scosso ed è corso al timone: a tribordo era apparsa una guglia monolitica di roccia. Il capitano, per fortuna appena in tempo, s’è riappropriato del timone e ha virato a babordo. La nave ha iniziato ad addentrarsi in quello che aveva tutto l’aspetto di un canyon: ora le pareti rocciose si dilungavano a perdita d’occhio da entrambi i lati. «È una catena rocciosa, capitano» ho concluso ad alta voce e ho visto il capitano sudare copiosamente accanto al timone, mentre Jessop era tornato ad osservare la testa a babordo, che ci stavamo lasciando lentamente a poppa.
«Capitano, si sente bene?» ho domandato. Il capitano s’era seduto con un tonfo sulla poltrona di comando ed era impallidito ancor più che prima. Sudava e mi accorsi che stava pure tremando.
«Capitano…»
«Sì»
«Sta bene?»
«Sì… Sto bene. Abbiamo superato quella…?»
«Sì, capitano, l’abbiamo lasciata a poppa ormai.»
«Ho capito…»
«È sicuro di stare bene, capitano?»
«Sì, sono sicuro.»
Ho osservato Jessop, anch’egli terrorizzato, ma meno atterrito del capitano. Mi sono avvicinato al ragazzo: stava ancora scrutando fuori, in piedi, davanti al vetro.
«Da dove veniva, Hodgson? Chi ha scolpito quella cosa nelle tenebre?»
«Non lo so, Jessop. Non lo so.»
Continua…