Un racconto scritto e proposto da Stefano Cortese
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Il buio
Chi volesse immaginare l’oscurità perenne che la Dark Explorer attraversa da ormai venticinque anni, dovrebbe recarsi nel luogo più remoto che conosca, lontano da centri abitati, sui picchi d’un alto monte magari, e in una notte senza luna. Si confini in casa, spenga tutte le luci, abbia cura di sbarrare ogni porta, ogni finestra, ogni anfratto da cui potrebbe trapelare anche il bagliore più impalpabile delle remote stelle. Chiuda gli occhi, metta la testa sotto spesse coperte e rimanga in silenzio, poi riapra gli occhi: quello che vedrà non sarà che l’infima parte dell’oscurità di questo mondo.
Il buio che io ho imparato a conoscere nella mia vita non è un buio al quale gli occhi si abituino. Il curioso, che avrà sperimentato ciò che ho prescritto, ad un tratto, sotto quella pesante coperta, riuscirà, poco a poco, a distinguere la sua medesima figura, i contorni delle pieghe della coperta stessa, riuscirà, insomma, a vedere sebbene nessuna luce trapeli nel suo intimo confino. Questo buio, queste tenebre che avvolgono la nave, ebbene esse sono così assolute e impenetrabili da rendere impossibile qualsiasi immaginazione a coloro i quali non le abbiano viste coi propri occhi.
Io le ho sempre immaginate come un’immersione in un bagno di peci fredde, entro le quali poter aprire gli occhi senza ch’essi siano sconvolti e annichiliti dalla nera materia. Come guardare immunemente nella pece, senza poter scorgere null’altro che il perdurare d’un medesimo, sconfinato orizzonte, privo di variazioni, metamorfosi o sconvolgimenti di sorta.
Esse non hanno un’altezza, né una profondità. Esse non hanno un inizio, né hanno una fine. Non posseggono latitudini, poiché si estendono omogenee dappertutto. La nave le attraversa impunemente e senza attriti di sorta, anzi, essa è leggera nella loro compagine, i suoi quattro motori la sospingono senza fatica entro il loro abisso.
A volte, nel mio alloggio, nelle ore di riposo, spengo ogni luce e mi affaccio all’oblò e osservo l’oscurità. Essa è infranta (ma lo sarà ancora per poco) dalla lucivia della carena ma, oltre quel bagliore infimo, si estende la loro totalità senza dimensione. A volte apro addirittura l’oblò (il capitano ce l’ha proibito, ma lui non vede in quei casi) e respiro l’aria umida che vi penetra attraverso, per sentire l’odore delle tenebre. Sporgo la testa attraverso l’oblò, perché i miei occhi umani possano rendersi edotti, essi che ne sono bramosi, del fatto che non esista dimensione alcuna in quel buio. Fa così male ai miei sensi quella constatazione, quell’incapacità non tanto di vedere, quanto di non notare limitazioni, che devo ritrarre la testa inorridito e chiudere l’oblò.
Allora resto in silenzio e guardo e osservo il buio, così familiare, così vasto, così incomprensibile. Non posso non guardare, con occhi pieni sempre d’estatica meraviglia, la bellezza della tenebra, che più di questo baluardo di metallo in cui sono confinato m’è sempre stata intima e schietta. A volte penso che questo avamposto, che questo ultimo bastione contro il di fuori che è la nave, non sia un “a parte” del male presunto, ma sia esso stesso il male, da cui la pace infrangibile di quell’oscurità esterna tenta, con le sue sublimi malie, di sottrarmi.
Il capitano e Jessop non condividono questa mia attrazione ed io tengo questi pensieri soltanto per me. Le poche volte che ho espresso la mia opinione, essi m’hanno sempre risposto sgarbatamente e allora ho deciso di confinare in me stesso questo fascino suscitatomi dalla sublimità delle tenebre.
Credo che ne siano terrorizzati. Essi non possono quantificarlo, non riescono a vederne un limite e, soprattutto, quella dimensione, che spesso sconvolge anche me. Questa impossibilità di quantificare ciò che ci circonda e ci contiene, li empie d’un terrore folle e indicibile, ch’essi tentano di razionalizzare disperatamente. È il medesimo motivo che ha spinto tutti quei membri dell’equipaggio a suicidarsi, credo. Il capitano e Jessop, tuttavia, tengono duro, si fanno forza congetturando intorno alla speranza d’avvistare qualcosa nel buio, che si palesino dei confini, che una luce, in fine, squarci per sempre la compagine di quelle tenebre maledette. Io nutro questa loro speranza, ma so di mentire. Mento per loro bene, perché non ho il diritto d’annichilire ciò che sostanzialmente li tiene in vita, ma non posso ingannare me stesso. Io so che queste tenebre non avranno mai fine, so che non esistono confini, so che nessuna luce trarrà la Dark Explorer in salvo dalla sua odissea. Lo so e, paradossalmente, è questa la mia speranza. Questo è il mio mondo, la mia realtà. Questo è il mio luogo. Io non ho paura. Il mio sgomento è dettato più dalla sublimità di questa sterminatezza, che dal terrore ch’essa possa condurci alla fine.
Cos’è la morte in confronto a questo? Potrebbe essere più scura, insondabile e assoluta? Io ne dubito… Il capitano e Jessop sono terrorizzati da una scomparsa entro la quale non si rendono conto d’essere già confinati e invece di liberarsi da timori che io ho l’impressione d’aver già acquartierato in me, essi vi si aggrappano, vi si stringono tipo remore, come se questi timori fossero l’unico segno tangibile della loro presenza. Io li lascio vivere in questa illusione, ne hanno bisogno ed io ho bisogno di loro. Non farò mai in modo di metterli di fronte all’evidenza. Ciascuno dovrà affrontare il fato a proprio modo e con le proprie armi. Io voglio vivere ben cosciente di questa estensione tenebrosa, a ché, alla fine, il passaggio da una oscurità ad un’altra non sia un trauma, ma, anzi, il naturale esito d’un processo, come attraversare una porta oltre la quale non esista che sonno. Io non voglio guardare oltre i vetri di questa nave e posare gli occhi su un’inimicizia: io voglio vedere una speranza.
La riduzione alla fisicità del buio è un processo che, come ho già accennato, mio padre aveva intuito. Aveva ipotizzato, infatti, che l’oscurità tendesse poco a poco a collassare su se stessa e che porzioni sempre più vaste della sua estensione si sommassero, come strati di vernice passati gli uni sugli altri, più volte. Tuttavia, mio padre morì prima di poter verificare questa sua ipotesi e sono dovuti trascorrere dodici anni affinché il fenomeno da lui supposto divenisse sensibilmente osservabile. I fari squarciano la tenebra come una lama che penetra l’aria. Poi la lama penetrerà un liquido, poi una sostanza intermedia, sempre più spessa, finché non si troverà davanti un solido e, alla fine, vi si infrangerà. Quale sia la natura di tale solidità ci è, per ora, precluso. Io ho delle mie ipotesi, che mi guardo bene da esporre ai miei colleghi. Credo che il consolidarsi delle tenebre non sarà il pervenire ad uno stato solido tale, quale noi potremmo concepirlo. Non avrà la consistenza d’una pietra, ad esempio, d’un metallo o di un corpo di carne. Sarà qualcosa entro cui il fluire sarà diverso, ma altrettanto intenso e continuo. La tenebra contiene delle cose o le ha contenute. Queste cose sono esistite nel suo abisso, si sono verificate e materializzate, come le incommensurabili vette che abbiamo scoperto. Tutte queste cose entreranno a far parte di essa, verranno assimilate, contribuendo ad essere altra oscurità, altra vastità, altra infinità, altro eterno. Saranno disciolte in essa e questo accadrà anche alla Dark Explorer e al suo equipaggio. Il capitano e Jessop l’hanno intuito, come dimostrato dai discorsi che abbiamo fatto tante volte e durante i quali congetturavamo questa possibilità, ma non vogliono ammetterlo. Sperano sempre che prima di questa eventualità arrivi una luce dall’alto a salvarli. Ma da quale alto potrebbero essere tratti in salvo in un mondo privo di dimensioni?
Ricordo che, una volta, un ufficiale disse: “Noi siamo perduti dentro Dio”, e quella frase mi fece trasalire. Se fosse vero che noi siamo confinati nel luogo della creazione e dove tutta la creazione ritorna? Come potremmo, allora, pensare di uscire? Se quella luce, che il capitano e Jessop sperano tanto, fosse in realtà un’apocalisse? “Perduti dentro Dio”, diceva quell’ufficiale…
Tutti questi pensieri non ho modo di condividerli con nessuno e perciò li scrivo qui, affinché non restino confinati dentro di me, nel buio delle mie ossa.
Credo che il capitano e Jessop, in fine, temano più il buio che hanno dentro che quello che sta là fuori. Sono convinto che siano sgomenti più del buio contenibile delle loro viscere, che di quello sconfinato dell’esterno. Non hanno capito, come credo d’aver capito io, che la nostra è un’attesa breve affinché quelle due oscurità si ricongiungano, finalmente. In fondo, il terrore dell’ignoto non nasce forse dall’impossibilità di non conoscere non tanto ciò che ci circonda, quanto ciò che abbiamo dentro e constatare la nostra inadeguatezza nell’affrontare l’esterno? E la nostra esistenza non è, forse, interamente volta a preservarci intatti dal momento in cui questa cesura che è la nostra vita verrà dimessa per sempre?
Il capitano e Jessop temono, purtroppo, di accettare il fatto che, alla fine, siamo veramente arrivati a destinazione.
Continua…
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