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Dark Explorer :: Quarta Parte

Un racconto scritto e proposto da Stefano Cortese

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Resti

«Prima di quella della Dark Explorer, ci sono state altre esplorazioni, capitano?»
«No. La prima spedizione è stata la nostra. Nessuna nave è partita prima.»
«Allora è possibile che altre navi siano state inviate in esplorazione dopo la Dark Explorer? Se mai dopo che i contatti con la base erano cessati, per venirci a trarre in salvo?»
«È probabile, ma non ne abbiamo mai avuta certezza. Le navi sono dotate di un sistema di localizzazione a lungo raggio, e se una nave si fosse trovata anche a svariati chilometri da noi, il sistema l’avrebbe rivelato. Se avessero tentato di seguirci, magari attraverso un’altra rotta, prima o poi li avremmo localizzati.»
«Ne è sicuro?»
«Certo che ne sono sicuro! Li avremmo localizzati senz’altro, ma in venticinque anni non abbiamo ricevuto alcuna segnalazione. Niente. Evidentemente non hanno voluto rischiare di perdere un altro equipaggio e, soprattutto, un’altra nave.»
«Quindi, capitano, lei sostiene che non potrebbero essere stati i nostri a scolpire quella…»
«Impossibile. Come avrebbero fatto? Ti sei fatto un’idea di quant’era grande quella cosa? Ci sarebbero voluti anni, in condizioni favorevoli, e nelle condizioni in cui ci troviamo… Impossibile, ripeto. E poi per quale motivo? Quel ragione avrebbe dovuto spingere un equipaggio d’una nave da esplorazione a scolpire una testa colossale nella roccia?»
«Allora chi è stato?»
A quella mia domanda il capitano ha taciuto e s’è fatto pensieroso. Era seduto alla poltrona di comando e guardava davanti a sé, mentre io attendevo una risposta.
«Potrebbe essere antica.»
«Antica?»
«Sì, antica. Risalente a un periodo assai remoto. Forse a un’epoca di luce, quando questi luoghi erano abitati. Potrebbe essere stata scolpita a scopo rituale, per esempio.»
«Un oggetto sacro, insomma.»
«Proprio così. Una rappresentazione liturgica di…»
«Di un dio?»
«Può darsi. Forse questo canyon era un luogo sacro un tempo, un luogo di pellegrinaggio, magari. Tuttavia non mi spiego come abbiano fatto a scolpire una testa in una parete di roccia di ventimila metri! E va’ a sapere quanti altri ne hanno dovuti scalare per raggiungere la vetta.»
«Se non fosse umana?»
«In che senso?»
«Nel senso che… Se non fosse opera umana? Se appartenesse, non so, ad un’altra… civiltà? Se l’avessero realizzata esseri provvisti di tecnologie più avanzate delle nostre?»
«Come sarebbero arrivati qui giù?»
«Come abbiamo fatto noi.»
«Da dove secondo te?»
«Da quando» ho mormorato.
«Cosa?»
«Niente. Non lo so. Da lontano. Lo spazio qui è enorme. Venticinque anni non sono bastati a contenerlo. Potrebbero essere venuti da un’altra regione ancora inesplorata e aver scelto, magari, questo canyon come luogo di culto, scolpendo la testa come un totem.»
«Può darsi, tutto è possibile.»
Mentre io e il capitano discutevamo, Jessop ci ha ascoltati in silenzio, ma attentamente, con gli occhi puntanti sull’uno e sull’altro. Era nervoso, turbato e sperava che uno dei due addivenisse a una conclusione. Erano le incognite a turbarlo, come al solito.
Ma quale conclusione avremmo mai potuto assicurargli? Come spiegare ciò che esula perfino dalle possibilità di razionalizzazione più raffinata e rigorosa? Jessop voleva una risposta, ma non si accorgeva di averne già una: il silenzio. Delle tante voci, dei tanti rumori e brusii che si provano di spiegare la realtà, almeno questa realtà, il silenzio è la più efficace ed esaustiva. Spesso non ci accorgiamo che la voce è l’alternativa a un mondo che, in realtà, è muto. Questa nostra inclinazione a subissare di frastuono ciò che riteniamo inascoltabile proprio perché ci palesa i contorni d’una dimensione per la quale siamo indifferenti, è la nostra più grave condanna. Come impareremo ad affrontare il silenzio insito nella nostra stessa natura se non avremo imparato a tacere?
Quella cosa là fuori meritava silenzio. Non c’erano spiegazioni di sorta che potessero dar ragione, nella nostra scarsa intelligenza, della sua ontologia. La sua natura c’era preclusa, e non perché non fossimo in grado di congetturare e trarre conclusioni adeguate, ma perché il nostro intelletto si dimostrava incapace di trascendere la possibilità d’arrivare a preporre l’ignoto. Siamo incapaci d’accettare l’evenienza onnipresente dell’ignoto.
E se quella cosa fosse venuta dal buio? Senza artieri, scultori o faticanti di sorta, ma realizzatasi per accumulazione e sottrazione di tenebre in miliardi di anni? Perché imputare a mano umana la realizzazione di tratti sostanzialmente naturali?
Mi sono ben guardato da esporre questa possibilità al capitano, che avrebbe tirato in ballo altre e più intime intuizioni, di quelle che voglio tenere ben celate ai miei colleghi.
L’unica conclusione certa è che, dopo essere stata illuminata dai fari della nave, forse per la prima volta nella sua storia, la testa monolitica è tornata nelle tenebre.
Per sei giorni abbiamo attraversato il canyon, non avvistando altro che l’uniformità delle pareti rocciose.
La nave era al sicuro, perché la distanza tra la roccia, da entrambi i lati era di poco più che un chilometro. Naturalmente, in quei sei giorni, ci alternammo di vedetta, facendo attenzione anche alla più piccola perturbazione.
All’inizio del settimo giorno, durante il turno di vedetta di Jessop e quello del capitano al timone, io ero nei miei alloggi e stavo riposando per dare il cambio al ragazzo.
A un tratto l’altoparlante della stanza ha iniziato a gracchiare, svegliandomi da un sonno profondo, poi ho sentito la voce del capitano che mi chiamava in sala controllo. Mi sono destato, ho indossato i calzoni, la giacca dell’uniforme, gli stivali e sono uscito.
Una volta sul ponte, credendo di dover dare il cambio a Jessop, mi sono accorto che mancavano altre due ore al mio turno. Ho compreso, allora, che ci dovesse essere qualcosa di nuovo. Era così, infatti.
Il canyon sopra di noi non era più sgombero. Mentre prima le pareti rocciose si levavano, da entrambi i lati, così in alto da non vederne la cima, ora le vette erano ben visibili, come se le pareti del canyon si fossero abbassate. Tuttavia, correndo da un lato all’altro, il canyon era sormontato da una serie di archi che l’attraversavano per la sua intera lunghezza, ch’era rimasta invariata e si ripetevano a intervalli brevi gli uni dagli altri. Vedevamo distintamente il culmine degli archi, a un altro chilometro sopra di noi, facilmente illuminato dai fari. La larghezza di ciascun arco era poco più piccola della nave e il capitano mi ha riferito che ne avevamo già sorpassati otto prima che io mi svegliassi. In alcuni punti, al culmine tra due archi, ho notato che essi erano congiunti da lembi spessi di roccia.
Ho guardato il capitano, ma questi mi ha restituito null’altro che il medesimo dubbio che avevo.
«Li ha avvistati Jessop. È quasi un’ora che si ripetono a intervalli regolari» ha detto.
Mi sono allora avvicinato al ragazzo, che stava accanto al vetro di tribordo e insieme abbiamo guardato fuori. Gli archi avevano un colore diverso da quello della roccia. Mentre questa era scura e, come ho detto, a causa del silicio rifletteva la luce dei fari, gli archi sembravano costituiti d’un materiale assai più chiaro, poroso, opaco. Siamo rimasti in silenzio a fissare le costruzioni vertiginose che spaziavano in lungo e in largo, finché ad un tratto non ho capito. «Oh, Dio… Jessop, non è roccia… Sono ossa.»
Jessop mi ha guardato sbalordito, poi ha rivolto un paio d’occhi terrorizzati al capitano, sperando smentisse quell’affermazione, ma il capitano è restato impassibile nel suo cruccio: anch’egli l’aveva intuito.
Sopra di noi si erano succedute una serie di mastodontiche costole. Da oltre un’ora stavamo attraversando i resti d’un essere titanico, un leviatano del buio, che confermò in un istante la presenza di forme di vita in quelle lande desolate.
Le ossa sembravano fossilizzate, ma non così tanto da essere assimilate alla roccia. Dovevano essere lì immobili da millenni e forse anche di più. Le costole si ripetevano ancora regolari e compresi, allora, che quei tratti, che io avevo supposto roccia, che collegavano le arcate, erano in realtà vertebre.
Jessop continuò a fissare terrorizzato l’esterno, e ho letto chiaramente sul suo volto quale fosse il dubbio suo più assillante: «Se ce ne fosse uno vivo?»
Il capitano teneva il timone saldamente, ma anch’egli era invaso di terrore. Era pallido, rigido come quelle ossa là fuori.
Ero spaventato anch’io, ma, più per quel che vedevo, era per quel che comprendevo: il buio non era vuoto o meglio, non lo era ancora. Quelle ossa all’esterno sembravano essere state consumate dalle tenebre, come se i millenni e l’azione del buio le avessero dilavate fino a scarnificarle del tutto. Dove viveva quella cosa? Ce n’erano altre? Erano i dubbi che m’assillavano, ma una sorta d’arcano conforto mi dava il buio stesso e l’antichità di quei resti: essi appartenevano a un’epoca che non c’era dato conoscere, qualsiasi cosa fosse vissuta a quel tempo il buio, alla fine, l’aveva fatta propria, l’aveva assimilata alla sua entità emendandola dal dubbio della vita. Questo pensiero m’incoraggiò molto: qualsiasi pericolo immediato doveva essere passato da millenni.
Abbiamo proceduto un’altra ora sotto le volte di quelle costole e questo ci ha dato idea della vastità di quell’essere, i cui resti, per due ore intere, non avevano ancora avuto fine.
Poi, in una depressione ancor più marcata delle pareti del canyon, scorgemmo quella che doveva essere stata la testa dell’essere.
Davanti a noi si aprivano due arcuature dall’angolo acuto, una in alto e una in basso, adagiate sulla roccia scoscesa: erano le fauci dell’essere. La testa, da quanto c’è stato dato vedere, aveva una forma oblunga e affusolata, le orbite erano ampie cavità in un cranio tutto sommato compatto e solido. Lungo entrambe le arcuature della mandibola e della mascella, correvano una serie ordinata di denti conici, lunghi non meno di centocinquanta metri.
Abbiamo attraversato il cranio della creatura uscendo dalle sue fauci spalancate. Ora, da entrambi i lati, il canyon tornava ad essere sgombero e anche questa volta, ho notato, non c’eravamo fermati a prendere campioni dell’esemplare. La nostra spedizione era ormai un naufragio e niente di più.
Jessop era spossato, così come il capitano. Erano rimasti avviliti da quella vista, così come dai dubbi feroci che li assillavano. «Va’ a dormire un poco Jessop» ho detto, e il ragazzo non se l’è fatto ripetere due volte.
Mi sono messo di vedetta io, mentre il capitano continuava a restare al timone. Siamo rimasti in silenzio per diverse ore, finché Jessop non è ritornato, il capitano è andato a riposare ed io ho preso il suo posto al timone.
Sono passato davanti all’alloggio del capitano stamattina e c’era la porta aperta e la luce accesa. Lui era seduto sulla branda, a testa bassa, con le mani conserte in grembo. Era immobile e respirava lentamente. Non credo mi avesse visto. Sono restato alcuni istanti a fissarlo, per capire cosa stesse facendo. Non si è mosso, non ha emesso un singulto, né una voce. Fissava da qualche parte a terra e a stento ho potuto constatare che sbattesse le palpebre. Quell’uomo mi ha fatto da padre sin da quando ho perduto i miei genitori, ma per me è come un estraneo in questo periodo di dubbi, un estraneo e un confidente poco idoneo. Non so quanto possa reggere a questa tensione, né credo di potergli essere davvero d’aiuto, almeno finché non deciderà da solo di accettare la realtà in cui vive e di farsene una ragione.
Sono passato oltre e ho raggiunto il mio alloggio, dove posso stare da solo, buttare giù due righe e allontanarmi da questa afflizione che, francamente, m’è divenuta insopportabile.
Da quando abbiamo avvistato lo scheletro, il capitano è come se avesse ceduto ad un peso. È fiacco, silenzioso, tetro. Io e Jessop non sappiamo come prenderlo. Se si ammalasse, se dovesse accadergli qualcosa, il comando spetterebbe a me. Dovrei condurre io, solo con Jessop, la Dark Explorer nel buio. È un compito grande, troppo, che mi pende come una spada di Damocle sul capo. Non so cosa accadrà, non so quando accadrà.
Erano trascorsi due mesi dall’avvistamento dello scheletro. Il canyon si estendeva ancora senza interruzioni ad ambo i lati della nave.
Il capitano ci aveva domandato solo raramente in quei mesi cosa pensassimo del nuovo avvistamento e, francamente, vedendolo in quelle condizioni, mi sono limitato a farfugliare qualcosa sui fossili che avevo letto una volta nella biblioteca della nave (uno dei pochi ambienti che tenevamo ancora in piedi, ho scordato di menzionarlo).
Jessop la pensava diversamente, ma anche lui non ne faceva parola col capitano. «Credo ce ne siano altri là fuori» commentava il ragazzo preoccupato, temendo di veder spuntare dal buio le fauci sproporzionate di uno di quegli esseri vivi. Era estremamente convinto di questa sua supposizione. I suoi turni di vedetta diventavano deliranti. Stava lì, con gli occhi spalancati, la bocca serrata, teso e immobile a scrutare il buio da ogni lato. A volte penso che lo voglia vedere veramente uno di quegli esseri in vita, almeno per rompere la monotonia di quelle vedette senza mutamenti.
Io credo che qualsiasi cosa sia esistita in questa tenebra ora è estinta. Quel leviatano là fuori ne è l’esempio. Come ho già detto, il tempo delle cose vive di questa oscurità è trascorso. È il domani delle tenebre che noi stiamo esplorando, non il passato in cui questi esseri mastodontici e le civiltà scultrici hanno vissuto. Tutto ciò che avremmo potuto temere è passato. Non rimangono che memorie incomprensibili di quelle epoche. Tutto qui.
Continua…

Author: Alieni Metropolitani

Gli Alieni Metropolitani non cercano soluzioni. A volte ne trovano… é irrilevante. Appartengono alla Società e con sguardo consapevole ne colgono l’inconsistenza. Non sono accomunati da ideologia, religione o stile di vita ma da una medesima percezione del mondo. Accettano i riti della vita, riuscendone a provare imbarazzo. Scrivere! Una reazione creativa alla sterile inconsistenza del mondo.

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