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Dark Explorer :: prima parte

Un racconto scritto e proposto da Stefano Cortese

To W.H.H.,
we will see in
the Dark…

1

La nave

Il buio stava maturando. Ce ne accorgevamo giorno dopo giorno: presto la luce non sarebbe più riuscita a penetrare le tenebre.
Calcolavamo il tempo secondo l’orologio e il calendario che si aggiornavano automaticamente nel database del computer di bordo e avevamo constatato che nel volgere di due mesi la capacità di penetrazione dei fari s’era ridotta del 15%: questo significava che ci restavano poco più di due anni di visibilità.
La cosa impensierì il capitano. Rifece i calcoli, ma non poteva sbagliarsi. Cosa sarebbe accaduto quando l’oscurità sarebbe diventata impenetrabile? Questo era uno dei quesiti che ci assillavano di più.

Eppure, i fari erano potentissimi. Nei giorni migliori avevano illuminato un raggio che si estendeva per quasi tre chilometri e mezzo.
Una volta, durante un turno di manutenzione, un tecnico era uscito a riparare un guasto verificatosi alla centralina delle luci ausiliarie che circondavano la piramide di prua che, disgraziatamente, si trovava fuori della nave. Non si sa bene se per errore umano o tecnico, ma, mentre quel disgraziato era abbarbicato sul pensile per riparare il guasto, i fari si accesero all’improvviso. Chi lo vide, disse che fu come guardare un fiammifero che, sfregato, prendesse fuoco. Lo sciagurato bruciò in una sfolgorante vampa, emettendo un grido acuto e violento. Sbilanciandosi, cascò dal pensile e si vide questa cosa infuocata fendere il buio e precipitare chissà dove, finché il bagliore del suo corpo in fiamme non fu inghiottito dalle tenebre insieme alle sue grida.
Da quell’incidente in poi, ogni volta che un guasto interessava le paratie esterne della nave, il sistema elettrico centrale era disattivato e si accendevano soltanto le luci di emergenza e la nave cadeva nell’oscurità totale.

A volte, durante i turni al timone, restavo ad osservare attentamente le luci dei fari, per indovinare il movimento contrario del buio, così lento, costante, ineluttabile, ma era impossibile per i miei sensi accorgermene. La singolarità di ciò che stava accadendo mi riempiva d’un muto terrore, ma anche d’una profonda curiosità: mentre ero abituato a guardare la luce fendere l’oscurità, diradarla, ora stava lentamente accadendo il contrario: erano le tenebre che diradavano la luce.
Ogni giorno facevamo le dovute misurazioni da quando avevamo scoperto il fenomeno ed ogni giorno i dati raccolti testimoniavano un calo impercettibile della potenzialità dei fari. Nel giro di poco più di due anni, avremmo vagato alla cieca, correndo il rischio gravissimo di schiantarci contro qualsiasi ostacolo si fosse frapposto alla nostra rotta, scatenando così un’ultima, immensa, luminosa esplosione nella landa silenziosa dell’oscurità perenne. Tuttavia, non era proprio questo il pensiero più angosciante. Pensavamo ad un altro tipo di pericolo per la nave, un tipo meno prevedibile, o forse meno concepibile di quello d’una collisione: il pericolo d’essere fagocitati dal buio. La consistenza delle tenebre stava cambiando, evolveva verso qualcosa di nuovo, lo testimoniavano i dati raccolti. Tuttavia, se comprendevamo che esisteva una mutazione in atto, non ne riuscivamo a congetturare l’esito. Cosa sarebbe diventata l’oscurità? Tutto quello che eravamo riusciti ad intuire era che, probabilmente, si sarebbe massificata. Cosa sarebbe accaduto quando la massa del buio avesse incontrato e collimato con la massa della nave? Era possibile che la massa delle tenebre, ad un certo punto della sua evoluzione, si sarebbe nutrita della massa della nave, assimilandola così alla sua consistenza? Questo era un cruccio ben più spaventoso d’una collisione: essere disciolti nelle tenebre. Che sensazione potrebbe essere? Che dolore potrebbe arrecare? Quale manifestazione potrebbe verificarsi nei corpi una volta che essi si fossero fusi alle tenebre? Erano queste le domande che ci ponevamo e alle quali davamo in risposta un sempre più irresoluto silenzio.

Tuttavia, protendevamo a non pensarci. Ci sarebbero voluti ancora due anni a che si verificassero quelle singolari e funeste condizioni e il capitano Landolfi ci imponeva di dimettere quei frustranti pensieri in vece del lavoro da svolgere.
La nave procedeva assai lentamente nelle tenebre. Non superavamo i trecento chilometri orari. Il capitano aveva ridotto la velocità proprio a causa dell’addensarsi delle tenebre e, sebbene gli ostacoli incontrati durante l’intero tragitto in venticinque anni di navigazione fossero stati ben pochi, il capitano non voleva correre rischi inutili e, soprattutto, non vedeva la necessità di muoversi ad una velocità elevata vista l’incertezza della meta.
Io non ho mai visto la nave all’esterno. Sono nato qui, tra queste paratie gigantesche, poco dopo l’inizio del viaggio e non sono mai uscito fuori. Conosco la forma della nave soltanto da alcuni prospetti e da certe antiquate piante. Chiunque avesse intenzione di immaginarsela, sappia che essa ha la forma d’un prisma retto che termina in cima con una piramide regolare. È lunga trecentosessantacinque metri dalla punta della piramide, a prua, alla base del prisma, a poppa; è alta cinquantacinque metri e larga centoventicinque, per un peso di duemiladuecentoventicinque tonnellate. È consta di diciotto ponti e poteva un tempo ospitare oltre duemila membri d’equipaggio.

All’inizio del viaggio l’equipaggio era consto di centocinquanta membri, tra i quali c’erano anche i miei genitori. Mia madre era una geologa e mio padre uno scotologo assai apprezzato, uno dei primi ad intuire (ma non poté mai verificare questa intuizione) che il buio tendesse ad evolversi verso uno stato solido. Morirono entrambi in un’epidemia, che uccise la maggior parte dell’equipaggio e la cui origine non si conobbe mai con certezza. Si manifestò come un’infezione batterica e il reparto scientifico riuscì anche ad isolare quelli che avevano tutto l’aspetto di vibrioni, ma contro i quali gli antibiotici che avevamo a disposizione non poterono niente. Coloro che venivano infettati dai batteri morivano di emorragia interna in poco più di dieci giorni, ma alcuni di noi sopravvissero all’infezione, come me ad esempio. Si suppose che l’origine dei batteri provenisse dal buio stesso e che, attraverso i condotti di raffreddamento, collegati al sistema idrico, i vibrioni fossero penetrati nell’acqua che bevevamo. La teoria, avanzata da alcuni biologi di bordo, non fu mai comprovata, altrimenti ci saremmo trovati davanti alla prima e, fino ad ora, unica forma di vita reperita nella vastità delle tenebre esplorate. L’infezione uccise centoventi persone ed erano trascorsi tredici anni dall’inizio del viaggio. Poi l’infezione scomparve e non si ripresentò mai più.
Rimasi orfano, e fui allevato dal capitano Land

olfi (che al tempo non era ancora il comandante) e da sua moglie, che morì anch’essa qualche anno dopo, di cancro.
L’equipaggio attuale è di soli tre membri: il capitano Landolfi, io e Jessop. Tutti gli altri sono morti in vario modo durante i successivi dodici anni dall’epidemia. A chi risultasse singolare l’alto livello di mortalità, non saprei cosa rispondere. Si sono verificati numerosi suicidi su questa nave, a causa della tensione, della frustrazione, del pensiero della totalità impenetrabile delle tenebre là fuori, appena oltre le paratie, che hanno causato manifestazioni di stati d’ansia, depressione, psicosi in molti membri dell’equipaggio che, finalmente, hanno optato per la dipartita.

Dacché siamo rimasti soltanto in tre, il 90% della nave è pressoché abbandonato. Manuteniamo soltanto la sala comandi, i nostri alloggi, la cambusa e la sala macchine e un piccolo laboratorio attrezzato nella sala comandi stessa. Il resto, questo titanico prisma di metallo, è un rudere cavo e in decadenza. Ci sono mesi, ad esempio, in cui non ci avventuriamo mai a poppa, finché i sistemi non ci segnalano che qualcosa in sala macchine non va per il verso giusto e allora tocca andare laggiù, a piedi, poiché i trasporti elettrici sono tutti fuori uso, e verificare di persona qual è il problema. Attraversiamo il ponte centrale, che collega direttamente la sala comandi alla poppa, e ci sembra sempre che nuova polvere, nuova ruggine, nuova rovina si sia accumulata in quei corridoi. Alcuni ponti non li visitiamo da anni e non oso immaginare quale grado di sfacelo si celi da quelle parti, come, ad esempio, i ponti più sopraelevati a tribordo, dove si concentravano le stazioni di ricerca, ormai dimenticati come se non fossero mai esistiti.

A Jessop fa effetto camminare nei lunghi corridoi che conducono alla sala macchine. È sempre guardingo, inquieto, teso quando attraversiamo insieme quei luoghi, soprattutto quando arriviamo al centro della nave e si apre sopra di noi l’immensa volta degli archi delle paratie, che si perdono nell’oscurità, e dove il silenzio è rotto soltanto dal rumore dei nostri passi e dal ronzio dei motori a poppa. Credo che Jessop tema che ci siano i fantasmi sulla nave, i fantasmi dei morti d’epidemia o dei suicidi. Io lo prendo in giro e mi ci diverto, facendo cascare di proposito qualcosa a terra quando passiamo di lì e godendomi il suo sgomento mentre l’eco del tonfo rimbomba su di noi e si perde nel vuoto. Allora lo chiamo “Cacasotto” e lui ci resta male. Credo che lui, come è accaduto a molti altri, non riesca a sopportare l’idea di qualcosa di incontenibile, data la sua mole, che lo sovrasta, qualcosa di talmente sconfinato come appare a noi, piccoli esseri di carne, questa nave, così silenziosa, quieta, vuota, e spero che non gli venga mai in mente che la nave stessa è, in fin dei conti, in moto entro qualcosa che, in venticinque anni, non ha mai neanche accennato ai suoi confini.

Ciò che terrorizza il ragazzo è proprio la quiete, che a me, invece, non dispiace affatto. Sono nato su questa nave e non ho visto altro che i suoi ponti, le sue paratie, le sue strumentazioni e l’esterno buio oltre i suoi vetri. Questa è casa mia, anzi, è la mia patria. Anche Jessop è nato qui, ma non comprendo come lui non si sia mai abituato a questa quiete. Come me, egli non ha conosciuto nulla di diverso, quindi non potrebbe, o meglio non dovrebbe, desiderare nulla di diverso da quello che ha. Eppure, Jessop è spaventato… tende a riempire il silenzio della nave, la sua oscurità, l’immobilità della sua ontologia, di figure mostruose, aliene, terrorizzanti con le quali, a mio parere, prova a dare una smossa alla calma sovrana. Per me è diverso. Non sono soltanto abituato a questo silenzio. In un certo senso, io lo amo.
Ho sempre trovato un tantino troppo altisonante il nome della nave: Dark Explorer. Mi sembra un avventatezza poter attribuire ad un oggetto umano la capacità di esplorare le tenebre. Fu il primo capitano (ne abbiamo avuti tre) a ribattezzare in tal modo la nave, all’inizio del viaggio, quando la speranza di trovare un confine alla tenebra collimava con l’ardimento e la curiosità d’esplorarne i segreti. Allo stato attuale, credo sia stato un battesimo infelice. Il viaggio d’esplorazione sarebbe dovuto durare, teoricamente, circa nove anni. Era stato stimato, al limite delle supposizioni, che i “confini” (erano stati così definiti non tanto i limiti delle tenebre, quanto la constatazione che qualcosa esistesse effettivamente in quell’oscurità), che i confini fossero da stimarsi in un raggio tale da permettere alla nave di raggiungerli in quattro anni e mezzo. Ora, la stima, così come il nome della nave, era stata azzardata e quello che sarebbe dovuto essere un viaggio d’andata e ritorno di nove anni, era diventato un viaggio di sola andata duratone venticinque.

Le scorte di propellente e di viveri erano state l’unico atto di lungimiranza della compagnia armatrice, ed era caratteristica di quasi tutte le grandi navi da esplorazione armate a quel tempo: ammontavano ad un quantitativo tale da poter esser sufficiente per addirittura cinquant’anni! I serbatoi di propellente sono collocati al di sotto della stiva e si estendono lungo l’intera area della nave. Le scorte di viveri, disidratati, allo stato attuale, potrebbero sfamare una piccola città. Non finiremo mai tutto il cibo che questa nave contiene prima che il buio si stringa su di noi.
Mia madre mi raccontava che dopo che furono trascorsi i famosi quattro anni e mezzo dall’inizio del nostro viaggio senza raggiungere i confini, si tenne un consiglio d’equipaggio per decidere se fosse meglio tornare indietro o procedere ancora nell’esplorazione. La quasi unanimità dell’equipaggio decise di continuare, così la nave proseguì ancora per due anni, poi ancora per tre, finché le comunicazioni con la base non s’interruppero e la nave fu costretta a avanzare lungo la sua rotta, col suo equipaggio confortato soltanto dalla scorta ingente di carburante e di viveri e la speranza, di anno in anno disattesa, che, prima o poi, il buio iniziasse a diradarsi e i suoi confini fossero rivelati.
Durante questi venticinque anni di navigazione la Dark Explorer, invero, ha scoperto ben poco. Ricordo che durante l’ottavo anno d’esplorazione fu avvistata una falesia rocciosa, ma non si riuscì a stabilire se appartenesse ad una catena oppure ad una cima isolata. La sommità della montagna era invisibile, così come le pendici: sparivano entrambe al di sopra e al di sotto, nelle tenebre. Le strumentazioni non riuscirono a stabilire quale fosse la sua altezza. Furono prelevati dei campioni di roccia dal picco e gli esami riscontarono un’altissima concentrazione di silicio.
Durante il decimo anno, invece, fu scoperto uno specchio d’acqua, concentrato in una depressione tra una catena di monti monolitici. Il lago, ma sarebbe meglio dire il mare, data la sua vastità, era un’immobile lamina oblunga che rifletteva le luci della nave, che, sebbene la loro potenza, non erano in grado di illuminarne il fondale. Fu gettato uno scandaglio per assodare quale fosse la profondità di quel mare, ma lo scandaglio non arrivò mai a fondo sebbene fosse stato calato per la sua intera lunghezza di millequattrocento metri. Gli esami dell’acqua non riscontrarono nulla d’anormale.

Non fu scoperto altro dalla Dark Explorer. I radar e i sonar non rivelarono mai nessuna novità, tranne, qualche volta, ancora uno o due picchi dalle cime invisibili. La nave procedette per anni, a volte, senza individuare niente altro che tenebre. Allora l’equipaggio comprese poco a poco il suo destino: la loro non era un’esplorazione, ma un’odissea.

Continua…

Author: Alieni Metropolitani

Gli Alieni Metropolitani non cercano soluzioni. A volte ne trovano… é irrilevante. Appartengono alla Società e con sguardo consapevole ne colgono l’inconsistenza. Non sono accomunati da ideologia, religione o stile di vita ma da una medesima percezione del mondo. Accettano i riti della vita, riuscendone a provare imbarazzo. Scrivere! Una reazione creativa alla sterile inconsistenza del mondo.

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