«I miracoli veri sono quando si moltiplicano pani e pesci e la gente mangia gratis tutta insieme»
Sono tanti anni ormai che scrivo per Alieni Metropolitani e, che si trattasse di un’opera di Kafka o Ionesco, di Philip Dick o di William Faulkner, di Calvino o Beckett, di Svevo o Joyce, ne ho sempre analizzato le peculiarità a partire da un senso di disorientamento e di mancanza, con un particolare riguardo a tutti quei temi e motivi affini allo straniamento (sia esso relativo alla vita sociale, sentimentale, o professionale). Ebbene, per l’articolo di questo mese ho scelto un titolo estremamente metropolita(lie)no, un romanzo italiano del 1962 reso ancor più celebre, all’epoca, dalla trasposizione cinematografica di Carlo Lizzani con Ugo Tognazzi.
Narrata in prima persona, La vita agra è la storia di un intellettuale di provincia che si trasferisce dalla Maremma a Milano con il proposito far saltare in aria un grattacielo che ospita, ai piani alti, la ditta chimico-mineraria responsabile della morte di quarantatre minatori. Nonostante un incipit drammatico e una vis polemica che aumenta di pagina in pagina, i capitoli del romanzo sono al contempo intrisi di un ironia molto sottile, figlia dello scetticismo nei confronti di quel tanto osannato “miracolo italiano”. A parlarne oggi, di questo romanzo colpisce anzitutto l’attualità. È incredibile come, in pieno “boom economico”, Bianciardi già intravedesse i segni della crisi sociale, culturale e morale dei giorni nostri.
In questo senso, La vita agra si fa portatrice di un avvertimento. E Luciano Bianciardi, filosofo, ancor prima che traduttore e giornalista, si rifiutò di credere ai benefici di quel “miracolo” sbandierati con tanto superficiale ottimismo: suo proposito fu allora smascherarli, mostrandone gli aspetti negativi, più nascosti, su cui l’Italia non rifletteva. Si vedano, in proposito, la critica al materialismo, alla corsa al successo, all’egoismo: «Un ubriaco muore di sabato battendo la testa sul marciapiede e la gente che passa appena si scansa per non pestarlo. Il tuo prossimo ti cerca soltanto se e fino a quando hai qualcosa da pagare. Suonano alla porta e già sai che sono lì per chiedere, per togliere».
E si vedano anche le sentenze, come quella, dal retrogusto orwelliano, sulla politica («La politica, come tutti sanno, ha cessato da molto tempo di essere scienza del buon governo, ed è diventata invece arte della conquista e della conservazione del potere»), o lo stesso stile adoperato, e che a tratti ricorda Gadda. Il linguaggio di Bianciardi, infatti, è a sua volta agro, caotico e nevrotico, come le vite che egli racconta. E il plurilinguismo, col suo misto di espressioni colte e tecniche, di forme dialettali toscane e lombarde, cela in realtà (e in maniera neanche tanto velata) una vacuità di pensiero e una incomunicabilità di fondo.
Per attuare il suo piano, comunque, il nostro intellettuale si farà assumere proprio dalla ditta nemica. Lo scopo è, ovviamente, quello di studiare la struttura del grattacielo, simbolo di un mondo capovolto e disumano. Integratosi nel capoluogo lombardo con apparente facilità, il neoimpiegato farà poi la conoscenza di Anna, con la quale andrà a convivere. Senza rivelare la seconda parte della trama, aggiungo solo che il protagonista si imbatterà in una galleria di personaggi alquanto caricaturali e che affronterà una serie di avventure al limite del picaresco. E il tutto, naturalmente, è contornato da riflessioni amare. Ancorché lucide, come questa:
«È aumentata la produzione lorda e netta, la quantità delle auto in circolazione e degli elettrodomestici in funzione, la tariffa delle ragazze squillo, la paga oraria, il biglietto del tram e il totale dei circolanti su detto mezzo. Faranno insorgere bisogni mai sentiti prima. Chi non ha l’automobile l’avrà, e poi ne daremo due per famiglia, e poi una a testa, daremo anche un televisore a ciascuno, due televisori, due frigoriferi, due lavatrici automatiche, tre apparecchi radio, il rasoio elettrico e la bilancina da bagno. A tutti. Purché tutti siano pronti a scarpinare, a pestarsi i piedi, a tafanarsi l’un con l’altro dalla mattina alla sera.»
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