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Selfies

Un racconto scritto e proposto da Francesco Paolo Colucci

Si sta come d’estate

Sugli iPhones

I Selfies.

Li avevo comprati. Sì! Finalmente acquistati, dopo mille indecisioni, le solite, di fronte alle vetrine. Alle scelte della vita. Quante prove, tentennamenti, prima di trovare quelli giusti che si accomodassero al mio viso.

Ho sempre avuto difficoltà nell’acquisto degli occhiali da sole. Forse perché non mi piaceva nascondere il mio viso. Lo avevo già fatto altre volte, troppe, nel corso della mia esistenza e ne avevo paura. Avevo il timore di chiudermi in quel mondo di penombra, silenzio, falsi sguardi. Io le odiavo le persone che ti parlavano indossando gli occhiali da sole! Non li avevo mai tollerati.

Eppure avevo bisogno, anch’io, come gli altri, di quello schermo per pararmi dai raggi ultravioletti. Anch’io volevo «fingere gli sguardi non veduti», come chiamavo di sovente le occhiate date al prossimo attraverso quelle sofisticate protesi.

E poi stavo bene! Tutti siamo più seducenti, attraenti, più belli insomma, con indosso un paio di Ray-Ban, di Gucci. Grandi maestri, costoro, dell’umana dissimulazione. Tutti sui posti a sedere della Cumana, con le nostre rifrangenze solari sparate sulla fronte. Sorrisi smaglianti, come sui posters pubblicitari, sorrisi yankees, «Yes, we can!»

Volevo anch’io calarmi e celarmi in quel magico, orbo e sotterraneo mondo, magari per assoggettarmi al selfie di turno. E diuturno.

E fu proprio in uno di quei giorni infernali, quando il treno delle nove di sera era strapieno, che compii il mio gesto. Ormai si era giunti al più totale parossismo. Infatti, nonostante la tarda ora, tutti gli astanti indossavano i propri scudi solari. E tra le mani, tutti, proprio tutti, armeggiavano con i loro iPhones, Canon et similia, in preda ad un autentico raptus selfeggiante, nel quale ogni minimo particolare del reale veniva fotografato. Volti e cose. Oggetti e visi. E sugli schermi senza nome dei pendolari gli innumerevoli baluginii delle macchine riproduttive. Che triste destino, che infame sorte, per quei venusti prodotti d’artigianato industriale! Altro che protezione dai raggi solari, quei meschini strumenti erano divenuti una sorta di para-autoscatti dell’ultima ora…

E fu in quel momento, come vi dicevo, che all’apice della sopportazione, io che indossavo delle fiammeggianti Ray-Ban alla Cobra ma che non potevo con il mio Motorola da dieci euro comprato alla Duchesca. Io che non riuscivo, dicevo, a sottrarre il mio spento viso allo scorrere inesausto del tempo col mio arcano, anti-diluviano cellulare, impazzii. Sclerai, come si suol dire nello slang giovanile, uscii fuori dai gangheri: «AGHHHHHHHHHHHHHH!»

Un urlo bestiale, atavico, collerico, tellurico, ma al contempo un urlo munchiano, tanto violento da risultare soffocato, senza voce, afono. E mi chiedo, e lo chiedo anche a voi, se l’abbia fatto perché stremato dall’inanità di quel disumano meccanismo o perché geloso, invidioso, quasi impotente a non potervi partecipare completamente.

Comunque, al mio livoroso e squarciato grido, quell’insana catena di montaggio si arrestò. Tutti restarono come stoccafissi, immobili, raggelati nell’attimo estremo nel quale ciascuno stava soddisfacendo la propria folle, insensata mania. Sorriso sguaiato, dilatato, lenti paraculo e braccio destro alzato, ormai semi-paralizzato dalla continua e logorante attività selfante. Provai anche a toccarli quei feticci, quei simulacri, quei ieratici avanzi di uomo. Di primo acchito avrei voluto fare qualcosa di più per ridestarli, quei fantocci, quelle marionette tanto grottesche quanto tragicamente meschine. Ma a che pro? Per restituirli a quella meccanizzata ed alienante esistenza?

Ero stanco, disperato. Mi sentivo soffocato, schiacciato. Mi sembrava che il mondo esterno mi costringesse, li obbligasse, ci imponesse a tutti, di essere o macchine o soli. O solo macchine.

Allora premetti il tasto Esc. Tirai d’improvviso il freno d’emergenza del treno; scesi, lasciando alle mie spalle quell’assurdo ed ingrato teatro. Erano le dieci, ormai, e gli occhiali da sole non mi servivano più. Li lanciai più lontano che potetti, affinché scomparissero, per sempre, ingoiati dall’atro e silenzioso bosco dei Pisani.

E andai via.

Author: Alieni Metropolitani

Gli Alieni Metropolitani non cercano soluzioni. A volte ne trovano… é irrilevante. Appartengono alla Società e con sguardo consapevole ne colgono l’inconsistenza. Non sono accomunati da ideologia, religione o stile di vita ma da una medesima percezione del mondo. Accettano i riti della vita, riuscendone a provare imbarazzo. Scrivere! Una reazione creativa alla sterile inconsistenza del mondo.

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