Racconto scritto e proposto da Francesco Paolo Colucci
Ormai avevo perso ogni capacità cognitiva. Non riuscivo più a concentrarmi, la mia soglia dell’attenzione era diventata bassissima.
Ero sordo ad ogni stimolo esterno: nelle mie orecchie risuonavano soltanto il rumore della manovella ad ogni nuova giocata ed il tintinnio fallace delle monete ad ogni sordida vincita.
Ero schiavo delle slots e non riuscivo più a venirne fuori. Leggevo la realtà come un’unica grande ruota di simboli e icone; una ruota da girare all’infinito, nell’infinita corsa alla vittoria.
Vittorie di Pirro, ovviamente, perché nel gioco d’azzardo ogni successo prelude all’inizio di un nuovo baratro. E così consumavo tutte le sostanze dei miei genitori, così dilapidavo il mio esiguo stipendio da cassiere della Coop a metà-tempo. Forse lì erano cominciate le mie turbe sui soldi, sul loro conteggio, sui simboli numerici, simboli da me ritenuti responsabili della mia dipendenza.
La sensazione più eccitante, quella più accattivante e coinvolgente che mi spingeva ogni volta verso il mio maledetto vizio, era l’introduzione delle monete all’inizio di ogni nuova impresa.
Un atto penetrativo dal sapore quasi erotico, che faceva di quel ludico meccanismo l’insano strumento d’appagamento di ogni mia pulsione. Ed ogni giorno, così, si consumava la mia esistenza, si distruggeva la mia dignità, nascosto com’ero in qualche angolo di un bar, o in qualche retrobottega degli svariati centri scommesse della città, divorato da quelle sadiche creature: luminose e ammiccanti attiravano le povere vittime così come dei giocattoli natalizi seducevano i bambini assiepati a rimirare le vetrine addobbate.
Nessuna calorosa madre accoglieva, però, le mie, anzi, le nostre lamentele, ma solo uno stanco esercente, consapevole di lucrare sulle nostre disgrazie. Tutti in fila per l’agognato, agonistico ed infine agonizzante jackpot!
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«Liscio e busso, voglio la migliore!»
«Il tre e si ritorna, piombo a un palo!»
«Se si può, mi faccio la solissima!»
Le chiamate canoniche di una delle varianti del più famoso gioco di carte napoletane, il Tressette, erano divenute le colonne sonore delle mie giornate. Dopo aver perso il lavoro, tra i tanti ad essere licenziati dopo il fallimento dell’Ipermercato dove quasi l’intero paese trovava collocazione, mi ritrovai senza più terra sotto ai piedi.
A trent’anni, senza uno specifico titolo di studio ed una strutturata carriera professionale, ero carne da macello. Fortuna voleva, però, che le agiate condizioni economiche di famiglia non mi procurassero la preoccupazione imminente del vitto e dell’alloggio. Ma come impegnare il tempo, come occupare la mia giornata, come dare un senso alle ore della mia esistenza, rappresentava un problema forse ancora più gravoso ed alienante.
Ed allora è stato facile farsi trascinare dalle vecchie amicizie di prima gioventù, quelli che non si erano applicati né allo studio nè all’apprendimento di un mestiere. Quelli che non cercavano lavoro ma si guadagnavano da vivere con mille stratagemmi, più o meno leciti.
Quando li rincontrai deluso com’ero dalla mia condizione, pensai che forse avevano avuto ragione loro. Ma era tardi per la vita di strada e non ne avevo in realtà neanche il bisogno. L’esigenza di uno scopo, invece, era pressante, e quando mi offersero di sostituire un giocatore per il Tressette nella sala da carte del bar dove ormai trascorrevo il mio “libero tempo”, non potetti che accettare.
Quel gioco mi ricordava l’infanzia e la prima adolescenza, i tornei natalizi e pasquali con i nonni e gli zii. È vero, spesso i nostri carnefici si presentano con abiti accomodanti e accoglienti. Oppure fui io a travestire quegli uomini con il costume dei miei vecchi punti di riferimento? Novello Pinocchio cedetti alle lusinghe dei Gatti e delle Volpi di quartiere. Ed il problema più cogente, quello che mi fece sprofondare per davvero nell’abisso della dipendenza fu soltanto uno in realtà: che ero un campione a quel dannato gioco!
Così ben presto anche giocatori fuori sede, per così dire, giungevano “Da zio Luigi” per sfidare quel prodigio della carta che ero io. Non potevo più tornare indietro, la mia vita era legata a quei simboli del mio passato. Il Re di Danaro così come l’Asso di Coppe. Ed il piattino tintinnante e sempre pieno, le urla dei compagni di gioco, il livore dell’avversario. Quanta adrenalina!
Schiavo e felice, attendevo, però, un deus ex machina che mi venisse a salvare da quel tormento, magari un De Niro come nel film Il Cacciatore. Ma non ero il Walken da Oscar di Cimino! Qualcuno venne, infine, a liberarmi da quel giogo: fu uno dei frequentatori più assidui del locale, che stanco di perdere (sperperava la pensione della nonna ogni mese), mi infilò per bene con un coltello a serramanico, ponendo fine ad ogni mia sofferenza…
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Avevo bisogno di soldi. Dovevo pagarmi le ultime tasse universitarie prima di conseguire la laurea in Filosofia. D’altronde con un titolo di studio così poco spendibile nel mondo del lavoro mi sa che avrei dovuto abituarmi presto ad ogni tipo di offerta professionale.
Ma ai miei, soprattutto a mio padre, non andava certo giù che la sua unica figlia lavorasse in uno dei centri scommesse della città. Come biasimarlo! Lui stesso li frequentava abitualmente e certamente non erano dei luoghi propriamente adatti ad una giovane e bella donna di 26 anni. E poi bisognava ammettere che l’ipertrofica proliferazione dei punti gioco rendeva tale professione la più ricercata sul mercato.
«Over Napoli Cagliari. Under Milan-Juventus. Gol Torino-Genoa…»
«Cinquanta euro sul 2-1 della Samp!»
«Venti sul cavallo Ruben della corsa 5»
Fu durissima all’inizio abituarmi ai ritmi forsennati degli orari di punta, soprattutto del sabato e della domenica, fare il callo alla calca numerosa e non di certo acculturata che di sovente frequentava il locale.
Ma ancora più difficile fu il rendermi avvezza ai continui sguardi e alle continue avances che tale platea composta per la maggior parte da uomini (ripeto di basso lignaggio) mi rivolgeva quotidianamente.
E il titolare pretendeva, da me e dalle altre colleghe, una mise piuttosto scollacciata e provocante, per attirare maggiore clientela.
Quella ingrata collocazione fu anche un’occasione, per me che avevo fatto della speculazione filosofica una ragione di vita, di approfondimento e di studio del complesso e controverso fenomeno chiamato gioco d’azzardo.
Cosa spingeva costoro a consumare tutto quel tempo e quel denaro in quei perfidi ludi?
La voglia di arricchirsi ? La noia? La sfida impossibile alla probabilità e alla casistica?
Forse era la volontà, o meglio il perverso desiderio di sfuggire al quotidiano svolgersi degli eventi. Insomma, la vita di ciascuno di noi si svolgeva secondo una sua propria regolarità; ogni comune esistenza era scandita da lassi di tempo, da campiture di spazio spesso iterate e ripetute con ieratica continuità. Fino all’annullamento di noi stessi, senza alcun potere sul concatenarsi delle umane vicende.
Ecco il gioco d’azzardo probabilmente era una via di fuga a tutto questo: i soldi, magari guadagnati con il proprio onesto e inappagante lavoro, si rischiavano per altro danaro, in barba a regole morali di ogni sorta. Soprattutto si rischiavano, e qui forse la maggior eccitazione, tutte le ore, le settimane, magari anche i mesi impiegati nel comun profitto, in uno spazio di tempo minuscolo, infinitesimale. L’attimo di una puntata, di una slot tirata con rabbia, di una bolletta compilata di gran fretta.
Il problema era sempre lo stesso, quello di ogni uomo di ogni epoca. Nessuno voleva sottostare a quelle assurde regole del game della vita.
Nessuno tollerava di essere sottoposto alle angherie dei Demiurghi e delle Divinità di turno, fossero essi frutto di speculazioni filosofiche o di complesse dottrine religiose. In realtà, quegli uomini bruti (non tutti erano di bassa estrazione, per carità, ma il mio era un paese di estrema provincia) non facevano altro che riappropriarsi di un diritto negato, di una pulsione castrata.
Anche loro volevano essere padroni, per un attimo, di determinare le regole del gioco, di vincere l’inerzia dello spazio-tempo. Come antichi stregoni alle prese con arcane simbologie, quella folla scalmanata si sottraeva alla morte giocandosi il proprio destino. E si ribellava, al contempo, ad un’altra tara, ad un’altra condanna ineluttabile dell’umana storia: il potere del denaro, anzi il potere di chi stabiliva quanti soldi ogni uomo avrebbe dovuto percepire per ogni specifica attività all’incrocio minuto-metro.
Infatti, ogni giocatore cercava il guadagno immediato, magari riscuotendo in un minuto, in un’ora, quanto incassato in un anno.
In questo modo si sottraeva alla costante storica del lavoro sottopagato e soprattutto risparmiava l’energia-tempo (questo era il fattore più importante) impiegato nel percepire la propria paga. Certo, anche i benestanti, direte, giocavano d’azzardo! Si pensi ai casinò, per esempio. In quel caso, a mio avviso, “coefficiente demiurgico a parte”, i grandi investitori ludici, quasi oltraggiavano il dio denaro, risicandolo di volta in volta in giocate esorbitanti. Era una sorta di dileggio al proprio stesso potere: voglio dire, che se un milione di euro era frutto del lavoro di chissà quanti uomini in chissà quanto tempo e spazio, in quelle folli puntate, i ricconi di turno si giocavano fette di intero universo. Magari ad un giro di roulette, in una mano di blackjack.
Anche se mi sentivo quasi soffocata dalla cavillosità di tali ragionamenti, spesso condotti per intere giornate mentre svolgevo la mia meccanica mansione, avvertivo sempre più fortemente la sensazione di essere in qualche modo come loro, come i miei avventori Anzi, ero molto di più. Perché io avevo compreso le motivazioni di quell’insana follia che in realtà altro non era che una violenta quanto inconsapevole forma di ribellione.
Avevo deciso, non volevo più essere succube del “cielo stellato sopra di me”.
Andai a casa, decisa, sicura, determinata. Volevo giocarmi il tutto per tutto. I miei non c’erano a casa, quel week-end, ed in luogo del solito festino droga-sesso tra amici, trovai il modo per accedere al conto in banca di mio padre per ritirare quanto più denaro possibile. Vendetti i gioielli, tutti i beni preziosi di casa, il televisore al plasma, il nuovo pc, etc…
Raccolsi la somma e mi vendetti l’anima al diavolo della possibilità, della cabala, dell’imprevisto. Giocai a scaglioni l’ingente importo nei vari punti-scommesse della città, tutte le puntate sullo stesso risultato.
Ed è l’ultima cosa che coscientemente ricordo di quei lucidi attimi di pazzia.
Quando ripresi conoscenza, mi ritrovai in una clinica psichiatrica privata, dove i miei genitori mi avevano rinchiusa. Il denaro perso nella mia insana scommessa (avevo messo tutto sull’improbabile vittoria dell’ultima del campionato sulla prima in classifica) per fortuna ci erano stati restituiti.
I miei avevano fatto addirittura appello al Presidente della Repubblica per il nostro caso. Ero famosa. Su tutti i giornali campeggiava in prima pagina la storia della famiglia rovinata dall’ingrata figlia scommettitrice.
Papà e mamma divennero, in seguito, testimonial di dure campagne contro il gioco d’azzardo, si fecero promotori di nuove legislazioni al riguardo.
Ed io guardavo il soffitto della mia nuova galera. Soltanto un flash-back, improvviso, dopo una visita dei miei parenti, mi riportò a quegli infausti attimi. Al momento della sconfitta, urlante fuori al centro scommesse: «Perché non sono come Dio, perché non sono come Dio, perché….»