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Lo sguardo obliquo di Gianmarco De Chiara

Un saggio breve di Andrea Corona

Nel corso di un’intervista rilasciata all’ex aliena metropolitana Carlotta Susca, Vittorio Giacopini ha dichiarato: «Critici e giornalisti pretendono il romanzo (o il racconto o dio sa cosa) che illumini il presente, la realtà, ma sotto sotto vogliono un articolo di giornale in bello stile spacciato per illuminata visione delle cose che ci circondano. Alla fine, lo scrittore in questa ottica è un rimasticatore di prose scontate e prevedibili, spacciate per chissà quale ispirato punto di vista su quanto è ciò sotto gli occhi di tutti ma dentro il linguaggio dei Media, della Comunicazione. Bisognerebbe ricordarsi sempre di una battuta di Orwell – un grande maestro – che diceva che niente è così difficile come vedere ciò che sta in front of your nose, cioè proprio sotto il nostro naso. Insomma, quel che credo è che la presunta realtà sia già replicata da troppi e troppi specchi (media, tv ecc. ecc.) e che per dire qualcosa di autentico, sentito, interessante, sia il caso di lavorare su un piano diverso, un piano sfalsato. Il realismo (vecchio o nuovo che sia) è sconfessato proprio da questa dinamica».

Prendo a prestito queste parole per introdurre Dove stanno le lucertole, romanzo che ho letto un anno fa, ma di cui parlo solo ora, perché gli spunti che mi ha offerto si sono rivelati tanti e tali che trarne una recensione “da blog” sarebbe risultato quanto mai riduttivo. E, dal momento che a colpirmi in particolar modo è stato proprio lo sguardo di Gianmarco De Chiara – uno sguardo decisamente obliquo – ho rimandato la stesura della recensione fino a maturare l’idea di scriverci un’altra cosa, un saggio critico.

Ora, se pensiamo che, sulla stessa falsariga di Giacopini, il filosofo Giorgio Agamben ha scritto che «per capire il proprio tempo occorre porsi in un’ottica sfalsata rispetto ad esso», resta da capire quale sia, e come sia fatto, il tempo delle lucertole in cui agiscono i personaggi di De Chiara. Ebbene, si cominci col dire che si tratta del tempo dell’infanzia. Ma si aggiunga, poi, che questo tempo viene ripetuto tre volte.

Anno Uno”, “Anno Due”, “Anno Tre” sono infatti i titoli delle tre parti che compongono questo romanzo, che ripercorre tre estati di due bambini di Napoli, Aristide e Giosuè, che trascorrono le vacanze a Giungano, nel Cilento. Ma il tempo dei bambini, in questo caso più che mai, è scandito dallo sguardo. Del resto, si sa, i bambini guardano. Ma cosa guardano? Beh, innanzitutto guardano i grandi, il mondo dei grandi. Siamo però in estate, ovvero in quel limbo di sospensione e spoliazione dai soliti ruoli, in cui gli scolari non sono più tali e lo stesso vale per gli adulti, maestri o commercianti che siano. Ecco allora che i due cuginetti, autentici scugnizzi che passano le giornate a scherzare, sfottere e spiare, fanno esperienza del mondo a partire da uno sguardo ancora più intimo e intimista. E inoltre, come naturalmente avviene durante la crescita dei fanciulli, allo sguardo rivolto ai genitori si accompagnano poi le esperienze – certamente graduali, ma inevitabili – della separazione e dell’esplorazione, della scoperta di sé e dei propri limiti. Ed ecco allora, fra prepotenze e titubanze, le arrampicate, le corse a perdifiato, le avventure spericolate e le irruzioni nelle case abbandonate:

Fuori, legato con una catena, un cane simile a un Husky, che doveva essere in punto di morte, vecchio quasi quanto l’albero, anche lui sporco di polvere, sporco di fango e con dei moscerini che gli ballavano intorno al naso insanguinato. Aristide e Giosuè lo fissarono. Il cane li fissò e poi cominciò ad abbaiare, emettendo anche dei latrati abbastanza stonati. Aristide diede una pacca sulla spalla del cugino.

«Ti sei incantato a guardà il cane?»

«Hai visto quanto è vecchio?»

A questo presagio di morte farà seguito, non a caso, un incontro ancora più emblematico con un secondo cane, che:

[…] aveva attraversato metà boschetto, si era collocato sopra una radura e guardava fisso fisso verso le colline lontane di fronte a lui.

«Che stai a guardare?» chiese Aristide.

«Guarda verso le colline».

«Caspita, come s’è fatto serio tutto d’un botto!»

E mentre i due cercavano di capire cosa avesse attirato l’attenzione del cane, ecco che da dietro quelle colline lontane iniziò a salire una luna tonda e luminosa.

«Ahò». Giosuè diede una gomitata al cugino.

«Ecco che stavi aspettando!»

E quella luna grossa e splendente fece luce sulla radura, illuminando i due cugini e quel povero cane […]. E d’un tratto, quando l’istante sembrava così magico, il cane cadde in avanti emettendo un tonfo sordo […]. Il cane restò sulla radura, la testa poggiata sull’erba, il cuore scoppiato e la luna riflessa negli occhi sbarrati.

E veniamo così al tema della ripetizione. Nei giochi infantili, come è noto, il godimento è proporzionale alla ripetizione all’infinito dello stesso gesto, alla coazione a ripetere, insomma. Tuttavia, come insegna provocatoriamente Jan Fabre allorquando mette in scena spettacoli di 8 ore o 24 ore basati sulla ripetizione, un gesto non può mai essere effettivamente ripetuto troppe volte, perché la condizione di chi lo compie (ad esempio di stanchezza o fatica) ne impedisce una vera replica. Ovvero: non si è mai gli stessi attori della volta precedente. Ed ecco l’importanza di quelle tre parti di cui si diceva, di quegli atti del libro e della vita dei ragazzi (non già più bambini, dunque?) intitolati “Anno Uno”, “Anno Due”, “Anno Tre”. Come a dire: la seconda estate non è come la prima, e la terza non sarà come la seconda.

Quell’anno Bernard non si era visto. Ivonne era stata poco bene ed erano rimasti in Francia. Aristide ne fu molto dispiaciuto; si era lamentato per tutta la prima settimana di vacanze.

Il rimpianto sta tutto nel mancato re-incontro con gli amichetti francesi in riferimento ai quali, nel corso della prima estate, si era creato, manco a dirlo, l’ennesimo gioco di sguardi:

«Ma dove sono le francesi?» chiese Giosuè.

«Quella è Claire» disse Aristide.

Giosuè la vide meglio. Caschetto biondo con un capello quasi di seta e due glaciali occhi azzurri. Sparì tra la folla. Aristide la seguì e Giosuè fece lo stesso»

A venire in mente, stavolta, è il Sarte de L’essere e il nulla. Nella misura in cui manca, nelle interazioni con le ragazze, un dialogo che sia propriamente tale, tutto è affidato allo sguardo o all’immaginazione (in ciò, basti pensare al “fidanzamento” e alla “rottura” fra Giosuè e Federica, che si articola interamente per mezzo di messaggini sms!). Riecheggiano allora, si diceva, le parole del filosofo parigino quando afferma che «L’amato è sguardo; ma con questo sguardo farei scomparire la soggettività dell’altro, che invece è proprio ciò che voglio assimilare». E inoltre a ritornare sarà anche, stavolta in maniera più consapevole, il rapporto con la natura:

Nel suo pattugliare, Giosuè si fermò più volte ad annusare certi fiori strani mai visti prima, a fissare il laborioso operato delle formiche […]. Aristide lo raggiunse di soppiatto.

«Che stai facendo?»

«Osservo la natura»

«Magica, vero?»

Da quella risposta Giosuè comprese che anche Aristide, come lui, riusciva a sentire la voce della natura.

In questo processo, che abbiamo indicato come un processo di crescita, si compie forse, a ben vedere, un circolo. Nelle prime pagine del romanzo, quelle relative alla prima estate, leggiamo che Giosuè si alzava presto, la mattina, per godere di una vista di cui, dalla casa di città, non poteva beneficiare. Una vista che apre lo spiraglio, però, a quella visione interiore, e a quella riflessione sulla temporalità, che solo una barriera esteriore più dischiudere:

Infatti, in città non aveva una vista sulla valle, ma sulla pigra signora della casa di fronte. Un’anziana che dopo ogni pasto non si faceva mai mancare le arance. Giosuè a lei pensava, mentre studiava la vallata, e rivedeva le sue mani secolari e nodose sbucciare con misurata pacatezza quelle arance. Indubbiamente la Contrada Difesella esercitava sul cuore del giovane inesperto un fascino atavico, quasi quanto la signora delle arance.

Con Dove stanno le lucertole, Gianmarco De Chiara offre una narrazione per immagini, naturali ma anche metafisiche, autobiografiche ma anche metastoriche, in grado di racchiudere elementi derivanti dalla letteratura come dal cinema, e dove si passa senza stacchi, semmai mediante dissolvenze, da Pasolini a John Fante, da Fellini alla siepe leopardiana. E oltre…

«Ci sono alieni fuori dal finestrino?»

«Non ne ho visti… solo quelle palle di fieno».

«Si nascondono lì, non lo sai?»

«Davvero?»

§§§

Un saggio breve di Andrea Corona

(*Dall’alto: Gianmarco De Chiara, fotografato da Davide Tartaglia; e la copertina del libro, edito da Homo Scrivens)

Author: Andrea Corona

Andrea Corona (Napoli 1982) lavora in campo editoriale. Saggista, è autore di scritti filosofici e letterari pubblicati in volume e su rivista. Per gli Alieni scrive racconti, recensioni e saggi brevi.

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