# Nei mesi seguenti ci fu un margine di miglioramento; man mano che affioravano, Ferdinando elargiva nuovi ricordi al dottore; diversi altri –quando oramai Fernando pensava di non averne più – vennero a galla direttamente durante le sedute di terapia del ricordo (come amava definirle Manobu Yamama), spinti fuori a forza da dentro la testa da precedenti pensieri. Reminescenze di poco conto. Ricordi legati, ad esempio, alla sua mano destra: chiusa in un pugno per inveire contro un dobermann che abbaiava in un giardino, nel mentre stringeva un mazzo di chiavi e dava un paio di mandate a una porta, oppure nell’atto di accarezzare una guancia o, ancora, mentre si radeva (a questo punto riusciva a vedere persino sé stesso riflesso nello specchio).
Tutto ciò lo spaventava e lo rincuorava in egual misura; lo rincuorava perché rinvangava costantemente eventi legati all’esistenza di un altro Ferdinando Del Rio, abbastanza distante o molto più giovane, audace, imperterrito, un prodotto alterato della sua lontana esperienza sulla Terra; lo spaventava, al contrario, perché non riusciva a cogliere la passata esistenza nella sua totalità.
«Non deve preoccuparsi di questo» continuava a ripetergli Yamada. «È di fatto impossibile ricordare ogni singolo giorno della sua passata esistenza. La vita di un uomo è lunga e complicata. Un insieme di eventi retti sulla linea immaginaria del tempo. Deve credermi quando dico che se non rammenta un fatto, un avvenimento o un dato giorno, allora vuol dire che non erano poi così importanti per lei. E c’è da considerare un altro importante fattore: lei è riuscito agevolmente a trovare un punto di contatto tra un ricordo e l’altro».
Intendeva riferirsi al principio base della terapia. La prima regola dettava di partire da un’immagine, un avvenimento o anche un semplice dato in modo da collegarsi a diversi altri elementi. Ad esempio, se il ricordo era legato a un luogo specifico, Ferdinando doveva cercare di collegare a quel luogo quante più cose possibili: una casa, un rumore particolare, una voce; se, al contrario, non riusciva a connettere nulla, forse, voleva dire che quel ricordo non era stato poi troppo importante nella precedente esistenza ed era meglio passare ad altro.
Il dottor Yamada gli diede altri suggerimenti preziosi: «Studi. Legga. Alleni costantemente il cervello. Cerchi di stimolarlo. Soltanto così aiuterà la sua mente ad aprirsi. Immagini il suo cervello come un coacervo di lampadine da accendere. Se ne accende poche, ricorderà un numero limitato di eventi; se, invece, ne accende molte, le probabilità di avere una visione d’insieme saranno maggiori».
Così, Fernando, un paio di volte a settimana, si recava nella biblioteca della Villa. Un’enorme stanza con quattro scaffali di legno carichi di tascabili dalle pagine ingiallite, libri illustrati per bambini, e una ricca sezione di manualistica; nel mezzo della stanza c’era una scrivania di legno con a lato due sedie imbottite.
Anche se, di primo acchito, quel luogo gli infuse la soggezione provata dal profano dinnanzi un’opera d’arte moderna, nell’arco di diversi mesi lesse parecchio. Anzi, sarebbe meglio dire che imparò a nutrirsi di libri. L’inizio, come il principio di ogni cosa, fu ostico. Leggeva molto lentamente, ogni frase sembrava una montagna da scalare, e spesso doveva tornare da capo per tentare di dare un senso a ciò che aveva letto sino a quel punto. Più di una volta confessò al dottore le sue perplessità. «Il suo suggerimento, con me non vale, probabilmente» spiegò gettando con disprezzo un volume di Faulkner sulla scrivania del medico. “La mia mente non solo non è stimolata, ma dopo aver letto appena una pagina pensa seriamente di gettare la spugna».
Il secondo suggerimento del dottore fu pragmatico: «Non si butti subito sulle cose difficili. Faulkner è ostico. È come tentare di mangiare un’ostrica senza levarle il guscio. Cominci con qualcosa di meno complicato. Dei romanzi per ragazzi, ad esempio. Conosce Salgari o Verne?»
Fernando seguì l’ennesimo suggerimento. Nell’arco di due mesi, lesse gran parte della serie dei Viaggi straordinari, un po’ di Dumas e amò alla follia Emilio Salgari. Poi, quando si sentì abbastanza maturo, a livello psicologico, passò ai classici del ‘900 e quindi a volumi di saggistica. A quel punto la sua mente era divenuta un piccolo fiume. Infine, attaccò con l’inglese, quando abbracciò la convinzione che a Villa Paradiso fosse l’unico ad esprimersi ancora in maniera troppo selvaggia; con il dottor Yamada parlava in spagnolo, ma con gli altri comunicava con gesti brancicanti delle mani oppure disegnando sul terreno, con la punta della scarpa, i concetti più difficili da comunicare. A dire la verità, non lo trovava giusto. In base a quale criterio si era stabilito che la lingua ufficiale dell’altro mondo fosse proprio l’inglese? Comunque, se voleva sopravvivere, avrebbe dovuto adattarsi. Così, pigramente, imparò un limitato numero di termini grazie ad un frasario, ma la concreta applicazione era un altro paio di maniche. Quando si rivolgeva a qualcuno, dopo essersi scervellato nella costruzione di frasi semplici, improbabili e quasi del tutto sgrammaticate, tornava ai gesti e se l’altro non capiva, lasciava cadere la conversazione, mandandolo a quel paese.
Anche il terzo consiglio del dottor Yamada fu pragmatico. «Si eserciti con un madrelingua. Magari ha la pazienza e il buonsenso di guidarla nel migliore dei modi».
Così una sera Fernando fece capire a Johnny Smith la sua urgenza di dover conversare solo in inglese. L’altro gli promise d’insegnargli quanto gli sarebbe stato possibile. Si esercitavano soprattutto il pomeriggio o la sera, dopo cena, poco prima di andare a letto. John era un madrelingua navigato, imperfetto e parecchio paziente; parlava in modo eccessivamente fluido – limitandosi a sorridere in maniera beffarda se e quando Ferdinando gli chiedeva di ripetere – mangiandosi più di una lettera e strascicando la maggior parte delle parole (proprio per questa ragione era spesso del tutto incomprensibile).
Yamada, in ogni modo, aveva avuto ragione: l’esercizio continuo aiutò il suo paziente a concludere celermente il percorso terapeutico. L’inglese aveva stimolato molto la mente di Fernando nella ricerca di immagini nuove. In breve tempo mise insieme un mucchio di vicende trascorse: in vita era stato un manovale, non si era mai sposato e aveva sempre vissuto con sua madre Ramona. Ricordò persino il volto olivastro di quella donna di media altezza e dall’infinita bontà d’animo che l’aveva messo al mondo. Quindi, con l’aiuto di Yamada ricostruì buona parte del periodo dell’infanzia, la sua triste adolescenza, gli avvenimenti più importanti della vita adulta sino all’ultimissimo periodo trascorso sulla Terra.
Una sera rammentò persino il suo indirizzo di casa: Cornelio Saavedra 17, Santa Fe, Rosario, Argentina. E il modo in cui era morto: era caduto da un’impalcatura durante la ristrutturazione di un edificio a Godoy.
«È arrivato a buon punto, Signor Del Rio. Mi congratulo vivamente con lei» disse Yamada sorridendogli mestamente. Quindi gli promise: «Quando comincerà a tornare a ciclo continuo su questi stessi avvenimenti, cioè quando sarà evidente di non essere più in grado di arricchire il suo repertorio con una casistica nuova, archivierò la sua pratica.»
«Che cosa significa archiviare la pratica?» domandò Ferdinando con un piglio di curiosità, dopo aver a lungo osservato la pelle delle scarpe sempre più sdrucita.
«Vuol dire che avremo finalmente terminato» spiegò Yamada sfilandosi la montatura d’osso dalla faccia e osservando in controluce diverse macchie di ditate sul vetro delle lenti. Ci soffiò sopra un paio di volte, mentre continuava a spiegare: «Possiamo finalmente unire gli elementi raccolti, montarli in modo da dargli il senso di una storia: la storia della sua vita precedente. Quindi, potrà conservarla per sempre nel dittafono personale». Il dottore sollevò con un gesto soddisfatto il piccolo registratore d’acciaio dal ripiano della scrivania. «Che diverrà il suo biglietto da visita per la fase successiva».
continua…