# Il dottore spinse il tasto rosso sul dittafono, poggiandolo al centro della scrivania e con voce asciutta chiese: «C’è qualche altro ricordo che le sia venuto in mente nelle ultime ventiquattr’ore?»
Fernando Del Rio emise un sospiro carico di nostalgia. Incrociò le gambe e guardò per qualche istante una scarpa. Dopo una lunga pausa, rispose: «Beh, a dire la verità ho avuto modo di ricordarmi di una data. Il 26 aprile del 1994. Era un martedì. Delle condizioni climatiche ho ricordi nebulosi, ma ricordo perfettamente la pendenza della sala e la stoffa rossa delle poltrone. Ero andato al cinema con una mia compagna di classe. Vanessa Saez: il suo nome lo ricordo ancora chiaramente. Davano l’ultimo film di Ken Loach. Lo conosce? Un regista inglese. Molto bravo. Il film era Ladybird ladybird. La critica ne parlava bene… Lo ha mai visto, lei?»
Il dottor Yamada scosse lentamente la testa, sistemandosi rapidamente col pollice e l’indice la montatura degli occhiali d’osso di tartaruga. Quindi, s’apprestò a scrivere qualcosa sul taccuino; qualche altro appunto utile per la terapia. «Continui pure» disse rivolto al paziente. «L’ascolto».
«Beh, proprio ora che ci penso… mi pare di ricordare che fosse una giornata tiepida. La tipica giornata primaverile. Quando uscimmo dalla sala c’era un sole caldo, e nell’aria un vago odore di caffè proveniente da un bar. Vanessa, stuzzicata dall’odore, mi propose un espresso. Entrammo e ci sedemmo a un tavolo, in fondo al locale. Siccome il film le era piaciuto parecchio, si mise a commentare ogni scena con tono concitato. La voce di Vanessa rimbombava sulle pareti del bar come una palla di gomma… ha presente?». Fernando si mise a tormentare la punta della scarpa destra col tacco della sinistra nell’assurda convinzione che potesse rimediare in qualche maniera all’usura. Da venti giorni continuava a rovinare i mocassini sulla ghiaia del sentiero che portava al giardino. Il tentativo durò poco; sollevò la testa e continuò a spiegare: «A dire la verità del film non mi importava molto. Certo, lo avevo trovato interessante, ma niente di memorabile. Anzi, durante la proiezione, sono state più le volte che mi sono voltato verso di lei per spiarla che in direzione dello schermo. Se avevo accettato quell’invito era stato solo perché speravo di cogliere la palla al balzo e dichiararmi a Vanessa».
Manobu Yamada smise per un attimo di prendere appunti e chiese: «Se non ho capito male, lei era innamorato di questa ragazza».
Fernando fece di sì con la testa.
«E come andò a finire?» il giovane medico giapponese era vivamente interessato al racconto. «Lei espresse i suoi sentimenti alla ragazza?»
«Sì, le feci una specie di dichiarazione. Non so nemmeno io da dove avessi preso il coraggio. Credo si tratti di una di quelle cose in cui ci si butta a capofitto senza nemmeno riflettere. Le scrissi un breve messaggio, lasciandoglielo nella buca della posta; una cosa del tipo: A volte la vita ti mette alla prova. Senza nemmeno accorgertene, ti ritrovi accanto persone speciali e in breve tempo ti scopri innamorato… Quella persona speciale sei tu, Vanessa…»
Dopo pranzo Ferdinando passeggiò per circa mezz’ora nel vasto giardino di fronte l’entrata di Villa Paradiso. Scambiò diversi commenti con Johnny Smith fumando una sigaretta, rigirandosela continuamente tra le dita, e sedendo sulla spalliera di una panchina in ferro battuto. Fu un colloquio breve, fatto soprattutto di gesti. Quando schiccherò via il mozzicone salutò l’amico sputando l’ultima nuvola di fumo. In camera sua si liberò di scarpe e pantaloni, si distese sul letto e provò a chiudere gli occhi sentendo ancora l’acre sapore del tabacco sotto la lingua. La sua mente andò ancora per diversi attimi a Vanessa Saez; la cercò con forza, quasi con disperazione, come un affamato in cerca di cibo; fece un grosso sforzo per ricordare il colore degli occhi, dei capelli. Probabilmente erano neri entrambi o forse no. Vanessa era una ragazza smilza, con le spalle larghe da nuotatrice (anche se fosse quasi sicuro che non avesse mai praticato alcuno sport a livello agonistico), e capelli lunghi sino alle spalle, mossi come un mare notturno in tempesta. 26 aprile 1994. Non sapeva perché gli fosse venuta in mente quella data. Probabilmente, quel giorno riposava da tempo sul fondo del suo subconscio, e attendeva il momento buono per risalire a galla come un vecchio relitto arrugginito. La terapia del dottore era davvero utile e di una semplicità disarmante. Quando trovava difficoltà a richiamare alla mente qualche immagine, il giovane uomo gli consigliava sempre: «Non abbia fretta, Fernando. Si prenda tutto il tempo necessario. Faccia un respiro profondo, si concentri al massimo, e si ancori forte alla prima immagine che riesce a catturare. La fissi bene in mente. La assorba».
Fernando aveva fatto proprio così. Sul principio il volto di Vanessa era stata un’immagine molto sbiadita, ma lui era riuscito ad afferrarla forte – se si poteva usare un’espressione simile per una faccia – finendo per fissarla in mente. L’aveva dipinta, giorno dopo giorno, una zona per volta, come una tela. Erano incredibili le potenzialità della mente umana. Nei primi tempi era consapevole di possedere solo un involucro vuoto; ma, esercitandosi, quel contenitore si era riempito man mano di nozioni tipiche della sua condizione di sopravvissuto. Dopo averla fissata bene in mente, come un ferro attaccato alla calamita, collocò la faccia in un contesto. In principio era stato l’unico su cui poter contare. L’angolino di un bar anonimo, dotato di un tavolino di ferro rotondo e delle tazzine bianche piene di caffè fumante. Il locale non aveva pareti, né un pavimento di qualsiasi tipo o un’uscita attraverso cui i suoi ricordi rischiassero di scappare via di nuovo. Era tutto lì, in pochi punti fermi; e gli erano costati una fatica spossante. In seguito, venne tutto il resto. Il cinema, il titolo del film, i commenti appassionati di Vanessa. Bar unito al cinema, cinema unito a due persone innamorate senza nemmeno saperlo. Fernando e Vanessa.
La sua mente finalmente aveva rotto gli argini, ma la cura non fu breve. Manobu Yamada incise tutto su nastro in vista della ricompensa finale.
E i passi successivi furono quelli più ardui.
Il terapista, in un assolato pomeriggio di inizio marzo, svelò per l’ennesima volta: «La Villa è un luogo di mero passaggio. Come lo è stato, in fondo, la Terra o… qualunque altro posto da cui qualcun altro proviene».
Fernando dondolava nervosamente la punta della scarpa, fissando lo statico panorama fuori della finestra. I suoi ricordi, da circa un mese, arrancavano sulle medesime immagini.
«Ma per passare a una fase successiva bisogna esercitare la mente sino alla nausea.»
«Nausea!» fece eco Fernando. Adesso si era accigliato, continuando a fissare fuori e aggiunse: «Ha detto proprio bene. Nausea. Sono mesi che continuo a vivere sempre la medesima esperienza: il bar, Vanessa, il cinema e i suoi maledetti commenti.»
«Non deve perdere la pazienza. Fa parte della cura. Ricordare troppo velocemente può comportare dei rischi: come sovraccaricare la memoria. Deve limitarsi a compiere un passettino dopo l’altro, senza limiti di tempo e senza forzare le cose. Rischierebbe di far scoppiare un incendio nella sua testa e far precipitare ogni suo ricordo» Yamada si abbandonò a un sorriso compiaciuto, amaro, dovuto forse all’ultimo commento fatto.
Fernando non colse il paragone e si strinse nelle spalle.
Come se fosse riuscito a leggere nella mente dell’altro, il medico chiarì: «Le ho mai raccontato di Dieter Salminen? No? Era uno scrittore finlandese che ho tenuto in cura diversi anni fa. Ebbene. Lui per quattro anni non riuscì a figurarsi una sola immagine della sua vita trascorsa. Non ascoltò nemmeno uno dei miei consigli. Non leggeva e non studiava. Si crucciava sull’assenza dei ricordi. Poi, un bel giorno, irrompe qui, in questo stesso studio, e urla che la Supo è sulle sue tracce per via di un suo racconto che inneggiava al terrorismo. I suoi continui sforzi di sinapsi gli avevano fatto affiorare i ricordi tutti in una volta e questo l’aveva portato alla pazzia».
Fernando ascoltava il medico senza staccare gli occhi dalla finestra. Un’oscura nuvola grigia, in lontananza, minacciava pioggia. Commentò qualcosa a mezza bocca ed emise un sospiro carico di noia.
Il dottor Yamada gli fece eco con un lamento di rassegnazione e spronò l’altro a non arrendersi: «La sua mente è stimolata. Adesso la deve semplicemente sfruttare fino in fondo per richiamare ulteriori induzioni». Si sfilò gli occhiali e li pulì velocemente sul risvolto del camice. «Mi rendo conto che è un lavoro arduo, ma i suoi ricordi, una volta fissati interamente nel dittafono, diverranno il biglietto di presentazione nella fase successiva della sua esistenza». Nascere e morire, per rinascere e ricordare. Una specie di principio del mandala buddhista. Questo concetto il medico lo tenne solo per sé, per non rischiare di urtare ulteriormente l’altro.
Fernando finalmente si voltò brusco verso il medico. «E poi quando andrò nell’altro mondo, mi pare di capire, ricomincerò tutto daccapo: di nuovo una terapia come questa, poi morirò ancora una volta e mi reincarnerò di nuovo. E così via e così via…» concluse quasi scimmiottando il modo di esprimersi del medico.
Yamada fece finta di non averci fatto caso e con un cenno convinto col capo disse: «È così, Fernando. È proprio così». Si risistemò gli occhiali sulla punta del naso per poi spingerli all’indietro. «Vivere, morire e poi rinascere. La vita è questa. Un giorno sei un bambino, un altro sei morto. L’unica cosa che ti resta sono i ricordi della vita precedente che ti accompagnano lungo il cammino. Se ci pensa, è questa la sola cosa meravigliosa di un essere umano: ricordare una città, una casa uguale a tante altre case, una strada, o il luccichio del sole nello sguardo di una persona cara». Finalmente riusciva a mettere fuori quel concetto.
Fernando riprese a far oscillare la punta della scarpa e fissare il panorama fuori della finestra. Nemmeno quest’oscura promessa lo indusse ad accettare quella condizione.
continua…