# Con John Smith strinse una sincera amicizia. I loro incontri non si basavano semplicemente nell’esercitarsi con l’inglese, dato che Fernando lo parlava senza più alcuna indecisione. Addirittura, certe volte, si sorprendeva a pensare in quell’idioma. Col passare dei mesi scoprirono di avere molti interessi in comune. Miles Davis, la Terra, il tabacco, la letteratura per ragazzi, e le belle donne. Anche le impressioni, i pensieri e le calunnie sulla Villa erano argomenti molto gettonati.
Per discutere si sceglievano la panchina più appartata, con le doghe arrugginite, sotto la grande quercia secolare. In genere, mentre le mani di Johnny rollavano la prima sigaretta, con la disinvoltura del fumatore accanito, giungeva puntuale Charlot chiedendo: «Me ne date una?»
Fernando, fremendo dalla voglia di fumare, si faceva posizionare dall’amico la sigaretta malfatta direttamente tra le labbra per non perdere tempo ad accendersela. Quando Charlot si metteva proprio di fronte a lui, con l’indice a mezz’aria, e sfoggiando un’espressione contrita, carica di pietà, Fernando faceva un breve gioco stringendo la cicca con i denti e le labbra e fingeva di ignorarlo.
Charlie veniva spesso a gironzolare tra gli alberi del giardino che Johnny e Fernando consideravano l’angolo più suggestivo della Villa. C’erano degli alberi altissimi, di cui ignoravano il nome, che saresti stato lì a guardarli per ore e ore senza stancarti mai. Era un uomo sui cinquant’anni, di corporatura media, con l’aria di uno poco sveglio. Quasi nessuno lì, tra i pazienti conosceva il suo vero nome. Qualcuno l’aveva battezzato Charlot per via della camminata scomoda alla Charlie Chaplin. Anche quel tizio sfortunato forse considerava, a modo suo, gli alberi delle specie di divinità se veniva così spesso a guardarli. O, molto più probabilmente, era solo interessato alla generosità di John e Fernando. «Me ne date una?» ripeté. «Una e basta».
Dopo che ebbe rollato e acceso la sua di sigaretta, Johnny gli disse: «Charlie, ne hai avuta una appena mezz’ora fa, in corridoio».
«Ma era mezz’ora fa» borbottò lui facendo schioccare le labbra. «Ora è ora. Mezz’ora fa era mezz’ora fa».
«E domani è domani» convenne Fernando con una risata.
«E dopodomani è dopodomani». Anche Johnny rise sonoramente e diede una pacca sulla spalla dell’amico. «Facciamo così. Tu ci fai vedere come cammina Charlie Chaplin e io te ne do un’altra. Ma bada bene… È l’ultima!»
Charlot s’imbronciò e disse: «No, siete due bastardi».
«E va bene» disse Johnny, «mi hai proprio convinto. Non ti costringerò a fare Chaplin». Gli allungò la sigaretta, l’uomo la raccolse e sparì in mezzo agli alberi imitando involontariamente la camminata del suo famoso omologo.
Fernando e Johnny si abbandonarono a un’altra rumorosa risata.
Poi Johnny si fece serio e commentò: «Poverino, mi fa pena».
«Già, dev’essere un’autentica sfortuna non avere nessuna possibilità di ricordare cosa sei stato nella vita passata». Fernando trasse una lunga boccata dalla sigaretta.
John scosse piano la testa e commentò a labbra strette: «Passerà tutta la sua esistenza qua senza alcuna speranza di andare via».
Dopo un po’, attaccarono a riflettere su l’ultimo pensiero prima di morire. Anche quello era un argomento parecchio gettonato. Anzi, più che un argomento, era una sfida, un modo disperato di voler cogliere la realtà. Ferdinando ci aveva riflettuto per mesi e mesi senza mai riuscire ad afferrarlo. Ricordava, parecchio vagamente, un lungo viaggio in automobile, in maniera del tutto frammentaria. Un’orribile stridore, all’interno di se stesso; come se milioni di sbarre di ferro avessero deciso di mettersi a ricamare, tutte nello stesso momento, dentro la tua pelle. Poi, c’erano queste vaghe luci elettriche in lontananza: un blu pallido, un grigio mescolato al bianco, un giallo opprimente. Poi, il bianco prendeva il sopravvento su tutti i colori. E, alla fine, più nulla. Soltanto frammenti che scomparivano velocemente. Nel momento in cui era spirato, il bianco l’aveva aspirato come fumo. Dopo di che s’era risvegliato in una stanza con piccole mattonelle bianche, dove il dottor Yamada gli stringeva un braccio assicurandogli che tutto andava bene. Questo.
Johnny, invece, diceva di non ricordare nulla. Nessuna luce, nessun tempo, nessuna sensazione. Per quel motivo era relegato nella Villa da più di tre anni. «La seconda fase è quella più ostica» amava spiegare. Sembrava quasi un monito per se stesso. «Non sei più nulla. Sei aria. Hai soltanto un grappolo di coscienza che circola attorno a un’impressione di corpo. Sei un fantasma». Ripeteva il concetto espresso dal dottor Yamada durante una delle tante sedute. In realtà, lui non ricordava nulla. «Per questo è difficile rammentare. Ciò che eri veramente, torni ad esserlo qua».
«Com’è strana l’esistenza» convenne Fernando accorciando all’inverosimile la sua sigaretta. «Strana, davvero».
«Quand’è che parti?» chiese John cambiando argomento con un piglio nostalgico. «Ho saputo in giro che i tuoi vecchi ricordi sono a buon punto».
«Sì, la mia testa è diventata in breve un fiume in piena. E lo devo anche a te, se sono qua».
Johnny sorrise e disse: «Ma va’, tu esageri».
«Sono stato molto fortunato, davvero. Vado via tra tre giorni» spiegò Fernando. «Il dottore è molto soddisfatto di me e ha già inviato a sbobinare il mio dittafono».
«Splendido, amico» sentenziò l’altro. «È splendido, ma sento già che mi mancherai». Schiccherarono contemporaneamente le sigarette consunte sul selciato di sassolini bianchi. Aggiunse soltanto: «Dio solo sa se mi mancherai».
# Si erano sistemati dinnanzi il portale di trasporto dopo una breve preparazione. Fernando si abbandonò a una occhiata prolungata pensando e ripensando alla nuova dimensione. Dal grosso oblò scorse il lungo corridoio che conduceva alla piccola piattaforma di metallo. Sopra una base di titanio, una bandiera bianca e blu, sballottava violentemente sotto l’influenza del vento. Provò un brivido lungo la colonna vertebrale. L’immagine gli rimandava in modo bizzarro alla mente una vecchia copertina di un romanzo di Ballard che poi non aveva più letto. Sorrise all’idea di aver ricordato un paio di nuove cose da non essere più destinate al dittafono.
«Ha fatto un lavoro straordinario, mio caro Fernando». Il dottor Yamada tradì un debole sorriso nel mentre Fernando si voltava nella sua direzione. «Un lavoro eccezionale, davvero». Strinse con sincerità la mano all’ex paziente.
«Non l’ho fatto soltanto io. Il merito è soprattutto suo, dottore» disse lui sempre più che terrorizzato all’idea di dover raggiungere la Valle del Vento tra pochi istanti; aveva sentito dire che il punto nevralgico in cui le correnti dimensionali raccoglievano il corpo per spingerlo nella fase successiva, stava poco oltre quella bandiera. «Non speravo di fare tanto in fretta. Le confesso di avere un po’ paura di ciò che mi aspetterà da ora in poi».
Yamada scosse più volte la testa. Sorrise un po’ di più, infilò con gentilezza una mano in una tasca del camice e spiegò: «Non deve. Nella maniera più assoluta. Dall’altra parte sanno, e molto meglio di noi, cosa fare. Sono professionisti di un livello superiore al nostro. Tenga soltanto a bada le sue registrazioni. Non perda il duro lavoro di mesi!»
Per rassicurare il medico (e per prendere altro tempo) Fernando aprì un’altra volta la giacca a vento e mostrò la tasca della camicia in cui aveva rinchiuso la scheda riprodotta. «Non si preoccupi, dottore. È al sicuro».
Il dottore fece un cenno con la testa. Attese che Fernando si riabbottonasse il giubbotto e chiese: «È pronto?»
Col volto indurito dall’angoscia anche Fernando fece un cenno molto simile con la testa. Il medico girò il pomello della porta e gli disse: «Addio e buona fortuna.»
«Addio, dottor Yamada.»
Quest’ultimo chiuse di nuovo la porta e osservò il suo ex paziente dal vetro dell’oblò. Lo scrutò lungo tutto il percorso del corridoio, ancora quando Fernando giunse sulla piattaforma, e ancora, poco oltre la bandiera, soltanto per una manciata di secondi, quando il Vento lo raccolse con una zampata invisibile, risucchiandolo sino a un punto in cui mai anima viva era tornata indietro per descriverlo.
Fine.