Racconto scritto e proposto da Francesco Paolo Colucci
Era da ben cinque ore che correvo forsennatamente sul mio velocipede. Non da un’ora, né da tre e neanche da sette, che ne so da undici. Ma da cinque, come le dita delle mie consunte mani, gli arti superiori con i quali stringevo istericamente i manicotti del mio veicolo. Ero in ritardo, come sempre. Rispetto a cosa, poi?
Fin da bambino, fin dai tempi della coercitiva educazione scolastica, la mia sveglia suonava puntualmente alle ore 6:30. E puntualmente, o meglio obbligatoriamente, dovevo presentarmi a scuola per occupare il mio angusto banchetto all’ottava ora del giorno. È stato durante quell’ora e mezza di quotidiana traslazione che appresi il duro concetto di fuga e ritardo. Da uno spazio all’altro in un tempo ristretto. E la paura del tardi.
Ma ne erano trascorsi di anni da quei giorni. Ora, paradossalmente, il mio lavoro consisteva proprio in una continua sfida al disco orario. Consegnavo, cronologico pony-express, sveglie, orologi et similia in giro per la mia citade. Ed erano strumenti all’antica, sovente per stravaganti collezionisti, misuratori di tempo caratterizzati da una discreta, per non dire invadente presenza acustica.
Che romantico, immaginatemi! Dieci sveglie alle ore otto, dodici orologi alle ore undici e così via. Eccomi così sferragliare con il mio antiquato mezzo di locomozione per le trafficate e caotiche vie della mia metropoli con uno snervante ticchettio temporale a fare da colonna sonora a codeste imprese.
Il velocipede stesso, poi, era una sorta di orologio marciante: la ruota anteriore, quella di maggior dimensione, segnava le ore; la posteriore, la più piccola, indicava i minuti. Bella sorte per chi, come me, non aveva mai gradito svegliarsi la mattina al canto del gallo per ottemperare agli scolastici adempimenti!
Ma quel giorno, alle ore 12 del 12 dicembre del 2012 decisi di sottrarmi, almeno per una volta, alla cronometrante tirannia. Avevo montato al lavoro alle sette e dopo i primi trecento minuti di fatica decisi di ribellarmi.
Scaricai dalla mia antidiluviana bicicletta la merce ancora da consegnare e lasciai, anzi, abbandonai il mio infausto carnefice sul primo tram di passaggio: «Ecco a voi, lorsignori, il vostro nuovo compagno di viaggio!». E dissi definitivamente addio al fidato seppur odiato partner di tante corse all’ultimo minuto.
Poi presi ad uno ad uno gli ingrati meccanismi marca-tempo, sfoderandoli con cura dalla propria custodia e collocandoli, con un rituale ieratico, uno ad uno nei vari cestini e bidoni della spazzatura della città. Una sorta di topo-cronografia dell’Urbe, o meglio ancora una mappa “per quartiere” della mia azione eversiva della catena oppressiva del dio Kronos.
E mentre, libero e leggero, vagavo fischiettando per le strade, potevo osservare curioso e divertito il singolare fenomeno da me stesso innescato. La sinfonia dei ricusati oggetti aveva richiamato tutti i passanti, inducendoli ad assieparsi nei pressi dei vari contenitori dei rifiuti per svelare l’arcano di quell’insolita musica; o meglio dell’inconsueta origine di un rumore in realtà familiare a chiunque.
Il meccanico tam-tam aveva inconsapevolmente creato un enorme serpentone umano: la maledizione del tempo era veramente diabolica.
Tutti sembravano come ipnotizzati dall’ancestrale richiamo, ogni abitante si dimostrava solerte, quel giorno, nell’ossequiosa riverenza ai temporali cassonetti. Potevo festeggiare il successo della mia rivoluzionaria azione. Il meccanismo sociale si era grottescamente arrestato grazie alla collettiva prostrazione nei confronti dell’elemento base della propria organizzazione: la scansione e misura del tempo.
Ma io, pensavo ad alta voce, ormai mi ero affrancato da tale schiavitù e potevo camminare a testa alta senza preoccuparmi delle ossessive lancette. Continuai la mia “promenade” vittoriosa e spensierata infilandomi baldanzosamente le mani in tasca. Ed inorridii quando, cercando un fazzoletto in quella di destra, al mio tatto percepii il freddo alito dell’acciaio. Era un vecchio orologio da tasca, tipo alla Sherlock Holmes per intenderci; fermo, ovviamente, alle ore 12. L’aggeggio andava ricaricato a mano, come previsto da quei vetusti modelli. «Cosa fare?» mi domandai, «ritornare di nuovo in quella trappola di esistenza, scandito ad ogni passo dal tormento dei secondi?». Ero in panne. Ma quando alzai il capo per guardarmi attorno mi accorsi che quella momentanea sospensione del flusso orario aveva inesorabilmente arrestato anche lo scorrere della vitale energia. La narcotizzata fiumana di uomini, l’amebico formicaio che si asserragliava decerebrato attorno ai loculi dell’Ora non attendeva altro che di ritornare alla propria vita.
Allora mi feci coraggio e con la mano sinistra ridiedi respiro al mio occasionale cronocratore.
E tutti ricominciammo dal primo minuto dopo la dodicesima lancetta.
Francesco Paolo Colucci