invia il tuo racconto inedito

Oppure, eppure.

Racconto scritto e proposto da Francesco Paolo Colucci

 

Mi trovavo in un parco giochi, assolato, isolato. Una visione mirabolante, fantasmagorica. Decine  e decine di macchine da divertimento di ogni sorta, varietà, dimensione. Un mondo caleidoscopico di colori, immagini, suoni, un riverberare sinestetico, un volo onirico, un. Il sogno dei bambini. Di ogni. Ad esserlo ancora.

Ma il luna park era vuoto, deserto. Silenzioso di uomini, dipinto a cipressi. C’ero soltanto io, o almeno credevo, ritenevo di esserci. Cioè immaginavo di sentire di esserci, eppure credevo di sentire la mia presenza fisica in quel luogo, mi emozionavo pensando di esserci, oppure.

Si! Il problema, mio e forse di tutti gli uomini, erano gli oppure. Opporsi, sempre, comunque, allo scorrere del tempo, alla sua continuità. Allora eccomi qui, fuori da ogni rigore, logica, consecuzione spazio-temporale. Il paradiso dei bimbi, senza un’infante per chilometri e senza esserlo più, io, un bambino: una beffa! Volevo giocare, però.

Quelle attrezzature funzionavano da sole, senza nessuno che le manovrasse, che ne garantisse l’apertura, la chiusura, nessuno. Anzi, appena io mi avvicinavo, il buio, il black-out. Tutto si spegneva. Il silenzio c’era sì, l’ho detto, ma perché non c’erano visitatori, utenti voglio dire, si trattava di un’assordante silenzio umano; ma le macchine parlavano, loro, stridevano con la propria ferraglia, i propri suoni, le proprie voci automatiche: “Prossima corsa sull’ottovolante alle ore 7, venite, accorrete nel castello del fantasma!”

Ma davanti a me tutto moriva. Ma. Troppi ne ho detti, di ma, troppe avversative, la mia prosa è contrastata, lo ammetto, combattuta. È che non me ne rendo conto. Uno aspetta una vita per avere il coraggio di andare al luna-park (per caso, mi ci trovo, ma comunque non scappo, come da piccolo) e che succede: niente!

Allora percorsi forsennatamente in lungo e in largo il parco, alla ricerca disperata di qualcuno che mi desse l’accesso a quei sospirati balocchi, mi ridonasse la speranza, un’opportunità per giocare di nuovo. Anzi, non l’avevo mai fatto. All’improvviso un bagliore: da lontano scorsi un uomo, un po’ tracagnotto, l’unica anima viva in quel luogo. Si trattava del responsabile del baraccone del tiro a segno. Ero sempre stato negato a quel gioco. Anzi, che dico, non l’avevo mai…

Gli chiesi un gettone. L’uomo mi rispose con una voce metallica: “Non sei un po’ attempato per il luna park?”

“In verità io sono piccolo dentro”, controbattei filosoficamente quanto banalmente, ma non mi sovvenne nulla di meglio, al momento, nella mia confusa mente.

“Se ti becca il Guardiano dei Sogni”… “Il Guardiano dei Sogni?” Domandai incredulo, rendendomi conto che più stavo in quel posto e più mi sembrava di regredire allo stato infantile. Poi aggiunsi: “Perché esistono anche dei guardiani per i sogni? Non sono liberi i sogni? E poi perché non c’è nessuno in questo posto? Perché lei è qui da solo?”

“Sono l’Ombra” mi rispose. “Sono solo l’Ombra. Il Guardiano custodisce i sogni per i bimbi, non vuole che si regalino agli adulti.”

“Ma non ce ne sono qui!” gli replicai, sempre più attonito, quasi spaventato.

“Perché non ci sono più sogni.” Affermò lapidario, con un groppo alla gola.

Quell’uomo senza volto era veramente un’ombra. Anzi, l’Ombra. Non aveva fisionomia, non aveva connotati, era una linea qualunque, in un volto qualunque. Però era, oppure.

“Eppure” seguitò a dire “eppure una volta questo posto era pieno di bimbi, di sogni”. Scoppiò a piangere.

Eppure -cominciai a ragionare tra me e me- quest’uomo ha detto eppure! Mi si confondeva il cervello sempre di più, come se non riuscissi più a distinguere il significato delle parole.

Lo strano personaggio smise di singhiozzare e, meravigliandomi, caricò un fucile e me lo porse. “Vedi in questa canna c’è un colpo solo. Quello che riesci a cogliere, quello vinci. È tutto gratis. Non costano nulla le attrazioni qui. Non sono mai costate nulla. Non hanno prezzo, come i sogni”.

Ero raggiante. Più passava il tempo, però, e più mi sentivo piccolo: piccolo nelle membra, nella voce, nel pensiero. Salii sul gradino del bancone. La mia immagine si rifletteva nello specchio di fronte. Non ero io, oggi, ma ero io più di vent’anni fa. Oppure.

“Eppure” esclamò sornione l’imbonitore “in tanti secoli, trascorsi qui, non ho mai visto nessuno così desideroso di venire a sparare qui da me.”

Secoli, pensai. Dopo la sua asserzione l’amorfo individuo premette un pulsante sul banco che fece aprire una sorta di lunga cassapanca ribaltabile, dove erano riposti gli oggetti da colpire. Erano tre volti, tre maschere di cera. Le mie. Tre ritratti, uno per ogni fase della mia vita, le Tre Età  di quell’uomo che ero io!

Ebbi un’improvvisa vertigine. “Ti capisco” disse il saltimbanco “Non è facile. Vedi, molti hanno scelto di tornare indietro, e sai com’è, a furia di rimpicciolirsi, non si son trovati più. E poi, detto tra noi, il passato non ha sogni. Altri, invece, hanno scelto il futuro precocemente per raggiungere subito le proprie chimere, senza aspettare il dovuto decorso dell’esistere. E son diventati talmente grandi che hanno oltrepassato il cielo, la dimensione fisica, e non si sa più dove siano andati a finire. C’è chi crede di poter manipolare il tempo, lo spazio. Però il corpo, poi, fa brutti scherzi: si allunga, si stringe. Queste cose non dovrei dirtele io, dovresti scegliere da solo. Intanto nella scelta, finchè stai qui, finché non decidi, il tuo organismo fa le beffe, in uno con la tua cervìce. Guardati: da un lato, cioè nelle dimensioni fisiche, nelle connessioni mentali, nell’espressione verbale, sei sempre più infantile, ma dall’altro, invece, stai diventando canuto, con la pelle raggrinzita, sdentato, proprio come un vecchio!”

Lo strambo oracolo terminò il proprio soliloquio. Era vero! Ero effettivamente mutato a quel modo. Un ibrido ero divenuto, per la mia insana follìa. Imbracciai il fucile, per indirizzarlo al centro, sul mio volto giovane, degli altri due ovviamente non volevo saperne niente. Un’ improvvisa raffica di  vento, quasi una tromba d’aria, m’impedì di prendere la corretta mira.

“Credevi fosse facile giocare con il tempo, così come si vuole e poi tornare sui propri passi?” sghignazzò il venditore che poi scomparve. Tutto scomparve. L’intera terra scomparve, la materia stessa, la luce. Rimasi solo, con la carabina, le tre teste da colpire. Il vento, i sogni.

Ma di oppure non ne era rimasta ombra alcuna e nemmeno di eppure: avevo la certezza del presente. Non sparai. Non potevo eliminare nessuna delle tre facce: era una trappola. Guardai solo i miei piedi, mi allungai per toccarne le punte, come per spiccare un tuffo da un trampolino. Mi ritrovai per strada, nel mio paese. All’angolo un vecchio signore che gestiva un chioschetto di fiori.

“Scusi” gli dissi. Si voltò ma non era lui. Poi con aria saccente questi sentenziò: “Non giocarteli mai i ricordi per i sogni.” Mi sorrise e mi allungò la mano. “Questo è tuo.” Era un gettone.

Francesco Paolo Colucci

 

Author: Alieni Metropolitani

Gli Alieni Metropolitani non cercano soluzioni. A volte ne trovano… é irrilevante. Appartengono alla Società e con sguardo consapevole ne colgono l’inconsistenza. Non sono accomunati da ideologia, religione o stile di vita ma da una medesima percezione del mondo. Accettano i riti della vita, riuscendone a provare imbarazzo. Scrivere! Una reazione creativa alla sterile inconsistenza del mondo.

Share This Post On
  • Google

Submit a Comment

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *