Racconto scritto e proposto da Jan Mattassi
Tre
La luce del tardo pomeriggio filtra dallo spazio fra le persiane illuminando le particelle di polvere sospese nell’aria. Otto ne osserva il moto. Gli ricorda il mare e la pace delle sue profondità.
Due
Con il palmo della mano, Otto constata per l’ennesima volta, e con lo stesso discreto piacere, la consistenza dell’interruttore a leva montato alla parete. Lo stringe con convinzione, pronto ad azionarlo. Una mosca pensa bene di atterrare sull’apice della leva. Otto la soffia via: l’attimo esige rispetto.
Uno
Otto raccoglie le forze, il gracile avambraccio gli si gonfia appena. È solo questione di pochi secondi, poi tutto sarà finito. Dietro la parete, un corpo inspira. Non può riempire i polmoni del tutto.
Zero
Giù tutto, circuito chiuso, tensione attiva. Otto ne percepisce il delicato ronzio elettrico a una manciata di centimetri dalla propria mano, dentro la parete. Così pacifica è l’ira del Signore che scorre in sicurezza, incanalata nei meandri di un’infrastruttura immaginata, progettata e generata dall’uomo. Da questo lato del muro è fisica. Dall’altro, è morte.
Dopo colazione, Otto Yasey esce di casa alle 7:35, e comunque sempre prima delle 7:40. L’esperienza gli ha rivelato che quello è l’orario migliore per immettersi sulla tangenziale e recarsi sul posto di lavoro. Sembra inspiegabile, ma quei 5 minuti gli permettono di abbattere il tragitto a 20 contro una percorrenza media di 35 minuti. Circola rispettando i limiti di velocità, un’abitudine sulla quale ha costruito una vita, e viaggia sulla corsia di destra per star fuori dai piedi. Altra abitudine fondante.
Arriva alle 8 alla pasticceria della signora Mann, dove siede per la seconda colazione: una deliziosa fetta di torta appena fatta, accompagnata da un bicchiere di latte. Tutto un pretesto, perché la signora Mann ha una seconda qualità che Otto apprezza più della torta: il seno. È un’enorme terrazza di carne tremula che danza al rallentatore. Gli basta captarne la presenza con la coda dell’occhio. Gli ricorda l’oceano. Lo sfondo irraggiungibile di un ricordo d’infanzia.
Non ha mai scambiato tante parole con la pasticcera e non lo trova giusto. È una donna sposata, di mezza età. Lui, per quanto scapolo, è un uomo rispettoso e cauto. Gli basta passare di lì, impiegare i sensi come meglio riesce, e andarsene.
Gli ultimi cinque minuti di macchina li percorre con una certa soddisfazione intima e sognante. Cinque minuti di pura avventura. Non uno di più, per la giornata.
Nulla lo avrebbe fatto ritardare. Il cartellino sarebbe stato timbrato alle 8:30 puntuali. Come ogni giorno.
L’ufficio di Otto si trova al secondo piano del palazzo che ospita l’Ente Federale per la Razionalizzazione, un ciclopico stabile ocra invaso da imperativi scritti in Comic Sans. L’uso di quel carattere in particolare era stato deliberato dalla direzione (su suggerimento di un sindacalista del reparto grafico) per stimolare la disciplina attraverso l’allegria. Non si seppe mai se il l’aumento di allegria fosse dovuto al cambio di tono nelle informative, o se fosse una conseguenza diretta di un’evoluzione dei costumi dei dipendenti stessi. Se all’epoca dell’assunzione di Otto i colori degli abiti dei colleghi sembravano campionati dal palazzo stesso, oggi si lavora con maggiore informalità. Più colore e più individualismo. Da lì, forse, il Comic Sans. O dal Comic Sans il colore?
In 19 anni all’Ente, la carriera di Otto era passata dalla redazione dei leggendari KPF-27 ai PIPU-A/M, R11-2bis, fino a diventare Responsabile Parallelo di Terzo Segmento del circuito APAM. Lo entusiasma? Non lo sa. È un lavoro per una persona poco incline alle relazioni umane o alla lotta per la sopravvivenza. Soprattutto è un lavoro sicuro per chi non si tira mai indietro dal fare anche quello degli altri. In fondo è facile, e Otto fa ormai parte di quella routine. Non si lamenta e lavora mentre i colleghi scherzano fra loro nei corridoi e davanti ai distributori automatici, vanno a bere l’ennesimo caffè, a fare la spesa, a un appuntamento, o solo a mantenere in opera la propria sedia guardando video sugli animali domestici e leggendo articoli complottisti. Per poi dichiarare di essere troppo occupati per chiudere un R12, come è solito fare Dominguez.
L’unico neo si era rivelato essere l’arrivo della nuova paracapufficio, la dottoressa Zenaikis. Era della stessa razza degli altri, con una spruzzatina di potere. Quando aveva voglia di riprendere un sottoposto, lo faceva, e ogni volta che poteva, lo umiliava pubblicamente. Otto era diventato presto il nuovo passatempo della donna, perché non era il tipo da rispondere, imporsi o da stare al gioco vanificando l’effetto aggressivo. Peggio ancora: dall’atteggiamento della Zenaikis, che a ogni insulto scansionava la sala con gli occhi alla ricerca di approvazione da parte dei colleghi, emergeva l’isitutuzionalizzazione del disprezzo a cui Otto era sottoposto. Ma Otto tirava dritto. Non aveva mai reagito. Né sul lavoro, né durante gli anni più feroci della scuola.
L’educazione che aveva ricevuto si poteva riassumere nel motto di sua madre: un passo indietro è un passo saggio. La cosa decente da fare, dicevano i suoi genitori, è evitare ai figli le delusioni del fallimento. Le difficoltà vanno evitate, non affrontate. Perché ad affrontarle spesso ci si dispiace e il dispiacere non serve a nulla. L’uomo deve cercare la sua felicità, o comunque una sua approssimazione. Costi quel che costi. Anche il periodo in cui Otto era preso di mira per la forma della sua faccia, un principio di schisi mal ridimensionato, non era tema da affrontare ma da ignorare. Abbi pazienza, dicevano. Aspetta. La vita va avanti e le cose cambiano.
Il mondo è diverso oggi, e più complesso. Se pensi in grande cadi alla grande, dicevano, e avevano ragione. Otto oggi ha il suo posto sicuro all’Ente. Una strada possibile verso l’assenza di dispiacere. Anche se quel posto brulica di bastardi impuniti.
La salvezza arriva di sera, dopo il lavoro, quando Otto si reca nella prigione di Homell per azionare la leva. Ormai poteva chiamarla casa. A Homell si sente davvero al sicuro, con tutti quegli oggetti e gli angoli così familiari. A Homell può decidere anche per gli altri. Entrare e uscire quando vuole. Mangiare. Anche dormirci ogni volta che lo vuole. Sopra ogni cosa, però, Otto ci va per azionare la leva. Non saluta nessuno e non parla con nessuno, Otto. Solo la leva.
Quando arriva, Otto si dirige subito nel suo ufficio. Si cambia la giacca che usa all’Ente con quella di ordinanza e consulta la lista delle esecuzioni che trova sul tavolino. È lì che lo aspetta. Un elenco quasi vivo, ogni volta diverso, più dinamico e colorito di tante esistenze.
Di solito i condannati sono due o tre, raramente più di cinque e quasi tutte le volte la sua frustrazione coincide col numero di individui da spedire all’altro mondo.
Una volta pronto, Otto passa al disimpegno e poi alla sala di comando, dove controlla il disordinato quadro di circuiti e si assicura che ogni componente lavori a dovere. Non si può rischiare un’esecuzione pasticciata. Una cosa deve fare Otto, e al suo secondo lavoro tiene tanto anche se non è retribuito. Datemi una leva e solleverò il mondo, diceva Archimede? Datemi una leva e vi libererò da esso, pensava Otto. Professionalmente.
Le ricorda tutte, le sue vittime. Erano tante. Si ricorda le esecuzioni andate bene e quelle andate male. Come quella volta che la scarica uscì tutta d’un colpo e fece letteralmente esplodere la bocca del signor Wylkes. Il vecchio bastardo iniziò a sbrodolare una melma simile al cioccolato che puzzava di carogna e scintille. Morì lo stesso, è chiaro, ma non fu un bel vedere. Anche raccogliere la mandibola fu piuttosto spiacevole.
Oppure ci fu quella volta che il signor Dominguez implorò di non farlo, chiamando Otto per nome. Per nome! Doveva essere un errore, pensò Otto mentre azionava istintivamente la leva, spedendo ogni risposta nel regno dell’irrilevanza.
Episodio strano, notò Otto, perché quasi nessuno combatte per la vita quando un intero apparato ce l’ha con te e decide che devi morire. Nessuna resistenza. Nessuna violenza o difficoltà esecutiva. Sembra quasi che l’imputato non capisca. Comprensibile. In fondo, è difficile immaginare l’attimo della propria morte. Fatto sta che dare la morte è molto più semplice che dare la vita. Una madre lotta e sa che dovrà soffrire, è pronta a giocarsi tutto. Un neonato si batte per vivere. Un figlio è un inno alla volontà e alla combattività degli umani. Un’esecuzione istituzionalizzata è un gran lavoro di scartoffie di dipendenti pubblici, relegati in uffici irraggiungibili, che culmina nell’azionamento di una leva da parte di un uomo, magari terrorizzato dalla vita stessa.
Che è così l’unico che ci gode.
Oggi la vittima è la dottoressa Zenaikis, del blocco femminile. Le pareti che la circondano sembrano tessute nella notte. Ad esse sono aggettati e illuminati dall’alto i nasi e le visiere dei secondini. Silenziosi e immobili nel buio, come le statue che ogni luogo di culto richiede. La dottoressa, completamente legata, tiene il capo lievemente rivolto verso il basso, come se leggesse un testo sacro scritto sul pavimento nonostante il telo che le copre il viso. Le dita delle sue mani si aggrappano alla sedia. Come su un veicolo sul quale partire, ma sarà solo lei a partire. Solo lei.
La scarica la trafigge inarcandole la schiena e il collo all’indietro. Le mani si stringono a pugno, i polpacci si tendono sollevandole le piante dei piedi dalla struttura di sostegno del suo trono. Rimane in quella posizione per tutto il tempo in cui la scarica la attraversa, vibrando. Non emette versi.
Otto la fissa con un’emozione che traspare solo dalle sue labbra, serrate come a voler trattenere una minuscola ma combattiva preda. La leva è ancora a tre quarti del tragitto, e Otto procede. Il ronzio si fa più forte e dalle maniche della Zenaikis si libera un fumo denso il cui colore bianco si staglia sul nero che la circonda.
Basta, pensa Otto, sollevando la leva.
Il corpo si sgonfia dalla posa inflitta dall’elettricità tornando nella posizione iniziale, sostenuta com’era dalle cinghie e dal casco.
Otto prova un senso di liberazione e di calore che lo invade dalla nuca fino ai genitali per poi raggiungere le estremità. Quasi sorride. Lascia la presa e si dirige verso il corpo esanime. Osserva l’orologio per constatare l’ora della morte quando un brivido lo immobilizza: è tardi e il supermercato chiuderà in meno di mezz’ora. Questo non doveva succedere. Con tre falcate, Otto cammina attraverso la sedia e il cadavere ancora fumante mentre il patibolo perde forma e colore rivelando la cucina a vista della piccola villetta a schiera ereditata dai genitori. Si ferma dentro l’agente di guardia, apre il cassetto della credenza dove aveva lasciato le chiavi della macchina e si affretta verso il corridoio. Attraverso la finestrella della porta d’ingresso nota il tetto della sua auto e una porzione del cortile sempre curato degli Wylkes. Vecchio bastardo. Gli occupanti della sala delle esecuzioni si dissolvono come fumo di una sigaretta leggera esalato da una bocca invisibile, rivelando un soggiorno arredato qualche decennio fa. Casa Yasey.
Speriamo che non mi chiuda o domani niente latte, bofonchia Otto, la bocca tesa.
È importante che certe cose non succedano, se poi ti fanno dispiacere.
Jan Mattassi