«Che ne dice di parlarmi di un ricordo precoce della sua infanzia?» domanda il consulente psicologico, mentre studia il cliente che gli sta di fronte. Questi siede in atteggiamento amichevole e per nulla ostile, e sembra molto più a suo agio rispetto al precedente incontro. Tuttavia si muove a scatti, con gesti decisamente nervosi. Di tanto in tanto strofina le mani sulle gambe, per asciugare i palmi sudati. Ha gli occhi un po’ spenti e affaticati, e il colorito è pallido.
«Come no! Anche se, ad essere schietto, preferirei parlarle di un sogno che feci molti anni fa. Sa, mi è rimasto in mente in maniera così vivida che la sua valenza è pari a quella di un ricordo precoce. Posso?».
«Ma prego, la ascolto».
«Dunque, il fatto è questo: una volta sognai di arrampicarmi su una scala che si trovava in soffitta. Quando giunsi all’ultimo gradino, però, una scimmia saltò fuori all’improvviso da una scatola che si trovava lì, in soffitta, appunto. L’animale mi spaventò molto, ed io caddi dalla scala, precipitando giù». Il cliente conclude il suo racconto con un sorriso aperto e sincero, e il counselor vede già delinearsi un modello di personalità molto positivo. In sostanza, si direbbe un tipo decisamente simpatico, pronto ad ascoltare e a superare i problemi.
«Il sogno è molto interessante. Ora possiamo vedere con chiarezza alcuni tratti che le riassumerò brevemente. La volta scorsa abbiamo convenuto, se ricorda, che lei lavora con grande ansia, e che questa tensione nervosa interferisce con le sue possibilità creative. Abbiamo anche stabilito che questa enorme tensione è da ritenersi come l’espressione di un’ambizione esagerata. E il sogno che mi ha appena raccontato non fa che confermare le nostre ipotesi, perché lei saliva in cima a una scala e poi cadeva. Ora le chiedo, e mi aspetto una risposta sincera: ha sempre avuto paura di cadere? Oppure, piuttosto, si tratta della paura di fallire?».
«Sì, in realtà è proprio così. È come ha detto. Ho paura di fallire».
Il consulente capisce di trovarsi in presenza di una forma nevrotica sintomatica, che si accompagna a un generale senso di inferiorità compensato da un bisogno estremo di successo e ambizione. Ora che ha compreso questo, non gli resta che spingere più a fondo l’interpretazione.
«Perché teme il fallimento? Cosa rappresenta per lei?».
«Non lo so. Non ho mai fallito in nessuna cosa importante, ma ho sempre paura che succeda».
«Sembra che lei tema qualche catastrofe. La qual cosa, secondo la mia esperienza, deriva da una latente sfiducia nella vita e da fantasie inconsce di distruzione. Per questo ritiene che bisogna stare molto attenti e controllare sempre tutto, altrimenti succederà qualche disastro. È questo che prova, non è vero?».
«Sì» risponde il cliente, dopo una pausa durata qualche istante di troppo. «Solo che non ci ho mai pensato in questi termini. La mia mi sembra più una insicurezza di fondo, che mi spinge a compiere grandi sforzi per non sentirmi in colpa».
Bene, pensa il consulente. L’empatia si è instaurata con successo.
«Allora mi ascolti, e si fidi di me: vedrà che, se riesce ad allentare un po’ alla volta questo senso d’inferiorità, riuscirà a utilizzare tutte le sue potenzialità creative in maniera più proficua».
«Penso che lei abbia ragione. E allora che cosa devo fare?». A questa domanda, il cuore del counselor si gonfia di gioia. Si è infatti giunti a un punto cruciale, quello in cui il cliente chiede un consiglio. Ora non resta che mantenere il sangue freddo e non cedere alle implicite lusinghe, ma utilizzare la richiesta d’aiuto come mezzo per far accettare al cliente un maggior senso di responsabilità personale.
«Dovrebbe, tanto per cominciare, accettare il fatto che nessuno è perfetto. Vede, se esige sempre la perfezione, non riuscirà mai ad accettare se stesso. E sembra che lei, data la sua paura di fallire, abbia un gran desiderio di perfezione. Ed è questo il suo vero timore, quello di non essere perfetto».
«Sì, lo ammetto, ma non so davvero cosa fare per cambiare questo stato di cose».
«Allora consideri quanto sto per dirle: finché non accetta l’errore come possibilità, non riuscirà mai a salire quell’ultimo gradino della scala, per paura che qualche scimmia le cada addosso».
Sentendo queste parole, il cliente si rasserena di colpo. La conclusione del colloquio si sta avvicinando, e il counselor si rende conto che è venuto il momento di sfruttare il rapporto empatico che si è stabilito per aggiungere la sentenza finale: «Occorre avere il coraggio dell’imperfezione per vivere in maniera creativa. Lei potrà non essere perfetto, ma non è inferiore a nessuno: ha una buona posizione e certamente gode di una sicurezza maggiore di tanti altri. Perciò, non ha bisogno di lottare in modo così forsennato e disperato. Tutte queste paure, queste notti insonni e queste grandi tensioni non sono più necessarie. Ora può finalmente permettersi di fidarsi di più».
Consulente e cliente si guardano l’un l’altro in maniera diretta. Quest’ultimo riflette per un attimo ancora, mentre inizia a farsi consapevole delle nuove possibilità che gli si aprono davanti. Quando si alza per andarsene, esprime la propria gratitudine al counselor e dice, in piedi davanti alla porta: «Sa, in vita mia ho sempre avuto la tendenza a guardare tutto dall’alto in basso, a condannare l’uomo e a concludere che il mondo era cattivo e che la sola cosa da aspettarsi fosse la catastrofe. Ma ora, grazie a lei, ho compreso che questo atteggiamento si collega probabilmente con il mio pessimismo nei confronti della vita. Grazie ancora, le prometto che da oggi crederò con maggior fermezza in me stesso».
«Non volevo sentire altro» esulta il counselor, mentre gli stringe la mano non più sudata. «Perché, vede, è molto importante credere fermamente in Dio».