Racconto breve proposto da Agostino Buzzetti
E quindi esco a rivedere il giorno, ma ho solo due ore di permesso.
Ore 8.00, ore 10.00.
Deve arrivare questo cazzo di autobus e devo fare tutto in tempo.
Non è la mia città quindi non conosco le strade, ma il giro l’ho già fatto con uno del posto. Ecco il bus. Salgo senza timbrare e appoggio il sacro contenitore di me stesso al vetro vibrante per ricordarmi ancora che sono vivo, che ho ancora voglia di provare qualcosa.
Questa testa piena di farmaci e quei suoi su e giù come la strada di questa collina che però, nonostante tutto, scende verso il grado zero.
Mi guardo le scarpe cui hanno tolto i legacci e non provo assolutamente nulla se non un po’ di commiserazione verso chi valuta queste decisioni. Niente legacci alle scarpe, niente cintura, niente accendino, però poi ti accendono la sigaretta.
Paura del diverso paura dell’essere umano che si muta temporaneamente in crisalide per fallire la rinascita in farfalla e per ritornare al disagio quotidiano. E penso quelli che dai e dai lo hanno fatto davvero, si sono sgarrati le vene, buttati da rupi, impiccati in spazi angusti. Un pensiero che va’ e subito rimbalza perché non è la soluzione, bensì un palliativo. La rivoluzione delle formiche.
Ecco che scendo alle 8.15 da questo bus scassone. Sigarette, caffè, panino e gelato, a strafogarmi quei dieci euro che l’infermiere mi ha dato prima di uscire, attingendo dalla mia riserva sotto controllo.
Un giro veloce, una boccata d’aria ipocrita come le ferie d’agosto dopo un anno di lavoro. E la testa che pesa e ronza indecisa fra up and down.
Ne ho viste di tutti i colori, gente legata, gente che urla di notte, gente che si butta in terra e piange, gente catatonica che invecchia senza motivo e io qui a ripetermi: “Fino qui tutto bene”.
Questa è una foto che non ha più grana, siamo nell’era del digitale, correre scattare senza più assaporare. E mi vergogno del mio romanticismo adolescenziale.
Due parole con il tizio del Blu Bar che fa un buon caffè e veste total black come me, uno sguardo di intesa, uno spiraglio. E mi sbilancio: “Siamo calcoli nelle budella di un grande cane”. Non so nemmeno se mi ha sentito ma accenna con il capo mentre lava le tazzine.
Passeggio lungo il fiume sotto il sole estivo che scalda le lucertole dell’argine e smuove i miasmi della sabbia e dall’acqua ferma della riva. Turisti ovunque.
Poi risalgo per le stradette e d’improvviso la paura che sia tardi. Un guizzo, uno scopo, un fine. Arrivo alla fermata del bus e poi su per i colli che non saranno mai miei in questa pausa dalla società di un paio di mesi.
Ed ecco che arrivo alla grande cancellata psichiatrica, con l’affanno e ovviamente con venti minuti di anticipo.
Agostino Buzzetti