Bussò delicatamente alla porta e dall’interno della stanza si udì una voce ovattata dire: “Entrate pure, Signorina.” Catherine spalancò la porta e penetrando nella camera arredata semplicemente disse a sua volta: “Buon pomeriggio Joseph”, prima di chiudersela alle spalle.
Joseph Kings, seduto scompostamente dietro la scrivania, le sorrise in maniera impacciata e indicò con un foglio di carta, sui cui stava scribacchiando alcuni versi, una sedia. “Buon pomeriggio a voi, Catherine”, replicò cambiando lentamente posizione sulla sedia.
Catherine prese la sedia, l’avvicinò a un lato della scrivania, e si accomodò guardandosi attorno. La stanza si sarebbe detta in ordine, se non fosse stato per le basse pile di libri messe in bella mostra in diversi angoli della camera e per quel vago odore rancido, che ristagnava un po’ ovunque, come se qualcuno avesse messo di bella posta uova marce in qualche punto ben nascosto.
“Eravate mai stata nella mia stanza?”, chiese il giovane provando di continuo a sistemarsi sulla sedia come se non riuscisse a trovare la giusta postura. Osservò Catherine sorridere timidamente e soltanto in quel momento si rese conto della superfluità della sua osservazione. Aggiunse: “Ho fatto una domanda pletorica, immagino.”
“Certo, che ci sono già stata.” Catherine, senza smettere di sorridere, si lisciò lentamente la lunga gonna sistemandosela sulle gambe e spiegò: “Prima che la occupavate voi, Joseph, qui venivo con mia sorella a leggere, a ricamare e a guardare l’aperta campagna al di fuori della finestra. Delle volte mi avvicinavo accanto ad essa per soffermarmi ad ascoltare il fruscio insistente dei fili d’erba accarezzati dal vento prima del temporale; ho sempre avuto l’impressione di assistere a una specie di concerto.”
Joseph rifletté sulla considerazione per un lungo momento, poi girò la testa in quella direzione e osservò, deformando dolcemente il volto, un punto imprecisato nel mezzo del verde. Un vento leggero scuoteva, in lontananza, la cima appuntita di alcuni abeti dandogli l’impressione che ad agire fosse la continua carezza di una invisibile mano gigante. Colto da un pensiero repentino, intinse la piuma nel calamaio e scribacchiò sul foglio qualche verso senza senso per poi subito tracciarlo con due linee parallele come colto da un improvviso ripensamento.
Catherine osservò silenziosamente ogni suo gesto, riflettendo nebulosamente su cosa potesse far leva la poesia nel cuore di un uomo; forse, era semplicemente un continuo elaborare con la mente e scrivere, per poi cassare tutto ciò che non dava appagamento. Era quello?
Proprio come fosse riuscito a leggerle nella mente, Joseph Kings le disse: “Lei è venuta qui perché vuole imparare cos’è la poesia. Non è così?” Una nuova domanda pletorica. Joseph richiamò alla mente la scena della sera precedente; Catherine e sua sorella Julie sedute di fronte a lui, nel mentre ondeggiavano quasi all’unisono le teste per sorseggiare il brodo, lasciando che le posate tintinnassero allegramente nelle ciotole di porcellana; la Signora Lewis, sedutagli accanto, ad un certo punto si passava il tovagliolo sulle labbra, sfoggiando un’espressione a metà strada tra lo scherno e l’interesse, e gli proponeva, per il dopo cena, di allietarle con un suo componimento. Lui aveva poggiato il cucchiaio nel piatto di ceramica finemente lavorata, e imitando la padrona di casa aveva raccolto il tovagliolo per passarselo lentamente sopra la bocca; poi, con un lungo cenno della testa, approvando la decisione, aveva affermato: “Tutto ciò che desidera, Signora Lewis.”
Dopo cena, dinnanzi a un fuoco che ardeva danzando violentemente nel camino, Joseph Kings declamò a voce alta, seduto sulla punta di una poltrona, nel silenzio generale della casa e nel rispetto profondo di tutti i componenti della famiglia, gli ultimi versi che aveva composto pensando alle lande grigi e tristi, spazzolate dal vento, e sferzate dalla fredda pioggia invernale dell’Humber.
La mattina seguente, di buon’ora, nel mentre si recava in cucina allo scopo di trangugiare una frugale colazione che l’avrebbe sorretto sino all’ora di pranzo, incrociò Catherine in corridoio. Senza sollevare lo sguardo dalla punta delle sue scarpe, la ragazza gli chiese se non fosse troppo sconveniente rivolgergli una domanda.
“Non temete di aprir bocca, signorina Catherine”, disse lui poggiando lo sguardo quasi nello stesso punto in cui la ragazza guardava, ma senza osservare veramente. “Vi posso assicurare che non c’è nulla di così sconveniente.”
Catherine sollevò a quel punto la testa e fece una piccola premessa: “La vostra poesia sull’Humber è stata magnifica, Signor Kings. Ho provato un’emozione profonda e intensa.”
“Vi ringrazio di vero cuore.” Joseph Kings fece un inchino profondo. “Il vostro complimento mi rivela che tutti i miei sforzi per comporre non sono mai del tutto vani.”
Quindi, la domanda imbarazzata della ragazza fu: “Potreste insegnarmi a scrivere una poesia?”
“Se così vi piace”, disse il giovane uomo sorridendo bonariamente, “posso insegnarvi l’arte di scrivere un componimento in versi.”
Catherine chiese ancora titubante: “È difficile scrivere una poesia?”
“Una poesia”, disse Kings e sollevò a mezz’aria la sua piuma d’uccello. “È lo strumento col quale lo scrittore libera le proprie emozioni. Esprime la sua anima in toto.”
Catherine lo osservava in silenzio, la bocca a formare una piccola o, con le mani intrecciate sopra la gonna, cercando di assorbire ogni singola parola che le labbra dell’uomo liberava.
Dopo una certa pausa, Kings posò la penna sulla scrivania e raccolse un bicchiere. Ci versò dentro dell’acqua da una brocca di terracotta e spiegò: “La differenza tra l’uomo comune e il poeta sta in questo semplice bicchiere d’acqua. Per l’uomo comune esso è soltanto un bicchiere che contiene acqua. Per il poeta, invece, è uno strumento di immensa gioia. Assapora l’acqua mentre gli scende giù per la gola e in quel momento pensa che non esiste una cosa migliore.”
Nel tardo pomeriggio, Joseph e Catherine, non appena avvertirono la stanchezza sciogliersi inesorabilmente nelle membra, si distesero sullo sporco tappeto di aghi morti, freddi e umidi. Camminavano, senza sosta, nel mezzo degli abeti, da diverse ore. Julie – che era molto più giovane di loro e non sembrava mai sul punto di spossarsi – si staccò di diversi metri e, chinandosi nel mezzo di un folto cespuglio, si munì della pazienza certosina tipica del suo carattere per raccogliere decine e decine di fiorellini rossi con l’intento di portarli alla madre.
Catherine, col vertice del naso rivolto in aria, puntò lo sguardo tra i rami degli alberi, nei punti in cui i raggi del sole si dibattevano per vincere le tenebre delle conifere. Accanto a lui, quasi nello stesso attimo, Joseph allungò un braccio e indicò silenziosamente un punto in cui il sole si frastagliava, mandando riverberi giallognoli, per poi sparire completamente alla vista per una manciata di secondi.
Era come se riuscisse a leggere perfettamente nell’anima della ragazza. Forse, non era solo un’impressione, e Catherine desiderava con tutto il cuore comprendere il modo in cui lui ci riuscisse.
Julie, dopo diversi minuti, li raggiunse correndo e gettò addosso a ciascuno un fiore, in un rito del tutto privato, in cui si ebbe la vaga impressione di una cerimonia compiaciuta di un allegro funerale.
Catherine, come riuscendo a cogliere quello strano rito, prese il fiore, si sollevò dal manto di aghi, sparpagliandone alcuni nell’aria, e girandosi verso Joseph chiese sorridendo: “Mi volete spiegare come ci riuscite?”
Anche Kings sorrise e si voltò verso la giovane ragazza senza comprendere la domanda.
Catherine s’affannò a spiegare: “Come fate a leggere nell’anima della gente?”
Il giovane raccolse il fiore rosso dal suo petto, lo fece girare velocemente tra le dita come una trottola molliccia, e infine fiutò un profumo di aria bagnata e subito asciugata dal sole. “Non mi credereste se ve lo dicessi”, disse lui accigliandosi.
Catherine sorrise più debolmente. “E perché non dovrei credervi?”
“Perché forse non sono colui che ho detto di essere”, disse enigmaticamente Kings.
“Siete un poeta. Lo sanno tutti in paese.” Catherine adesso aveva smesso di sorridere. “E tanto mi basta.”
“Le cose non stanno esattamente così.” Il giovane uomo si concesse una breve pausa. Chiese: “Sapete tenere un segreto?”
Il giorno dopo Catherine ritornò nella stanza del poeta. Erano bastate poche parole per farle sperimentare un insolito umore fosco e ricco di pessimismo; lo si poteva leggere chiaramente sul suo volto decadente e indisponibile. Si era addirittura disamorata del tutto del primitivo proposito di essere messa a parte dei segreti della poesia. Come se non bastasse, la notte precedente si era rigirata nel letto decine e decine di volte senza riuscire a chiudere occhio, se non alle prime luci dell’alba, sempre ripensando alle strane parole dell’uomo; difficili da interpretare come un testo scritto in aramaico. Adesso, analizzate a mente fredda, con una predisposizione maggiormente lucida, i dettagli del suo carattere, le strane abitudini e persino le pareti spoglie della sua stanza, riuscivano a darle una visione più chiara di Joseph Kings.
Era una domenica mattina molto luminosa. Al di fuori della finestra un paio di passerotti, simili a macchie appena abbozzate, crearono un arco veloce per poi sparire cinguettando sonoramente.
Si erano bloccati l’uno di fronte all’altra, per un buon minuto, senza profferire parola. Catherine, con la mente tempestata da decine di pensieri frastagliati, aveva lo sguardo abbassato sulla punta degli stivaletti color nocciola. Attese in quel modo fino a quando Joseph Kings mosse qualche passo nella sua direzione e allungò un braccio, tendendogli una mano affusolata ed estremamente pallida. In quel preciso momento, la ragazza capì che gliela doveva afferrare.
“Siete proprio sicura?”, le chiese. “Siete sempre in tempo per tornare sui vostri passi.”
La giovane sollevò la testa, e vincendo per una volta la timidezza, gli puntò lo sguardo dritto negli occhi. “La mia decisione resta questa.”
Joseph la tirò forte per il braccio e si avvicinò il corpo di Catherine. Se mai quello fosse stato un passo di danza sensuale, sarebbe rientrato tra quelli dotati di una forza inaudita. La strinse forte; come una tenaglia attorno a un pezzo di metallo. Addentò le sue labbra carnose come se s’apprestasse a mangiare un frutto proibito e cominciò ad aspirare violentemente da dentro la sua bocca. Catherine incominciò a dimenare braccia e gambe; lui dovette tenerla a sé ancora più forte. Strinse la sua lingua tra i denti e se la fece scivolare in bocca. Succhiò avidamente la saliva; l’assaporò e l’inghiottì. Aveva un sapore vagamente amaro dettato dalla paura. Catherine tentò ancora di scuotersi, ma alla fine, proprio quando stava per perdere i sensi, Joseph mollò la presa e la lasciò cadere a peso morto sul pavimento di legno.
Si spostò caracollando sull’impiantito, carponi come un vecchio bambino artritico, e con numerosi scatti imitò i movimenti di un ragno sul punto di attaccare; alla fine, quando l’effetto passò, si passò più volte, nervosamente, una mano sulla fronte sudata, e ansimando si avvicinò alla scrivania lasciandosi cadere sopra una sedia. Sbavava copiosamente come un mastino. Si ripassò la lingua sopra i denti, catturò brani di liquido salivare dagli angoli della bocca e l’ingoiò prima che perdessero i principi nutritivi di base. Prostrato, sentendo i sensi abbandonarlo pian piano, dedicò un’occhiata alla schiena lattiginosa di Catherine pensando al modo in cui aveva carpito la sua fiducia il giorno prima.
“Perché dovreste succhiare della saliva dalla bocca di una persona?”, domandò la ragazza con un certo stupore.
“Sono diventato schiavo di questa roba ai tempi in cui frequentavo le dispense”, spiegò Joseph.
“Voi, Signor Kings?”, chiese Catherine schermandosi la faccia con una mano come a impedire che anche la sua bocca potesse pronunciare una parola tanto ripugnante. “Voi…”
“Sì, io. Fui iniziato da un amico. Conoscete il drammaturgo Charles Robert Ward?”
La signorina Lewis scosse piano la testa. Non lo conosceva di certo. Continuava a guardare il Signor Kings con una mano dinnanzi la bocca sorprendendosi a chiedere per la prima volta cosa avesse trovato di tanto interessante in uomo del genere.
Joseph gettò nell’aria il fiore rosso che stringeva tra le dita e un colpo molto forte di vento lo fece schiantare fiaccamente contro un sottile fascio di erba gramigna. “Io nemmeno ci volevo andare in un posto simile. Il mio amico, al contrario, ci si recava spesso perché diceva che quello era un modo per raccogliere materiale per una commedia che aveva intenzione di scrivere. Forse era solo una banale scusa per giustificare la sua mania di secrezione salivare. Ma voi l’avete già capito, forse.” Si concesse una pausa osservando per qualche istante Julie nel mentre avvolgeva un mazzetto di fiorellini con un gambo di un fiore giallo. “Non mi interessava minimamente andare con quelle donne. Però, quella notte, mi capitò di fare la conoscenza di Virginia. Era un’abile sbavatrice di quindici anni; bassa, magra, con capelli dello stesso colore della canapa. Fu un’infatuazione istantanea, la mia. Continuai ad andare in quella Dispensa di saliva anche solo per ricevere un suo sguardo da lontano. Mi sedevo nella sala d’attesa – un atrio misterioso, ricco di luci e di ombre, puzzolente di umori rancidi – aspettavo paziente e me ne andavo soltanto quando riuscivo a incrociare il suo sguardo; me ne bastava uno soltanto. Dopo di che, quando tornavo nella mia stanza, come per magia, trovavo la giusta ispirazione per i miei componimenti.”
Il vento riprese a fischiare sonoramente intorno alle loro teste; alcuni uccelli sconosciuti emettevano richiami a cui altri uccelli sconosciuti, nascosti fra gli aghi, dopo qualche secondo, rispondevano cupamente. A tratti, il sole spariva dietro spessi banchi di nuvole, facendo apparire un’atmosfera bluastra che durava solo pochi istanti.
“Fu proprio lei a iniziarmi alla pratica dell’assorbire la saliva. Faceva questo gioco con le labbra. Stomachevole. Si raccoglieva uno sputo sulle labbra, sino a formare una tenue effervescenza e poi se la ingoiava di nuovo. Fu proprio la prima volta che venne a sedersi accanto a me, nella sala d’attesa, per sedurmi, che mi mostrò questo svago apparentemente senza senso. Era un pomeriggio di ottobre. Ricordo che pioveva come Dio la manda. Mi disse: – Joseph Kings, se sali nella mia stanza, ti mostro una cosa ancora più bella. Fu così che lei riuscì a inserirmi in bocca il suo veleno; m’insegnò come raccogliere la saliva dalla lingua e come ingurgitarla senza vomitare. Virginia era una vera e propria maestra dell’atto dell’accesso. Ed era leggera come una foglia morta. Dapprima s’arrampicava sopra una parete come un ragno ributtante. Si spostava a scatti. Verso il soffitto, attorno alla cornice della finestra e poi verso il letto dove ti imprigionava mani e piedi ai pomelli del letto. Ti legava con la saliva e divenivi la sua preda. Quindi s’apprestava a portare, in questo modo, la tua mente molto lontano: in mondi che non avresti mai immaginato di poter visitare un giorno. Aveva parecchia fantasia: quando non le andava semplicemente di succhiare saliva, ripiegava sul sudore e anche sul cerume delle orecchie. Assorbiva di tutto. A quel tempo, la sua dipendenza era ad un livello molto più avanzato del mio oggi. Non so che fine abbia fatto. Probabilmente, a quest’ora, vaga anche lei da una Dispensa all’altra per nutrirsi sempre di nuovi umori.”
Dopo un tempo lunghissimo Catherine tornò a domandare: “E, voi, Signor Kings, se ho capito bene, vorreste iniziare anche me a questa pratica?”
“Solo se volete”, spiegò lui. “Non siete mica costretta.”
Catherine Lewis si portò una mano al petto come se volesse testare se il suo cuore all’interno battesse ancora. “E dite, che dopo essere stata iniziata, la mia vita cambierà per sempre?”
“Non sarete mai più quella di prima”, ribadì ancora una volta Kings. “L’Aracnidismo rende imperituri.”
Catherine annuì senza riuscire a dissimulare un leggero imbarazzo dalle gote che le divennero paonazze. L’idea di vivere per sempre le sembrava una follia inaudita, impossibile da concepire per una mente in buona salute.
Joseph Kings aggiunse: “La vita dei comuni mortali è monotona. La monotonia porta alla ripetizione e al grigiore. Io vi do la possibilità di spezzare le sue catene. Di vivere per sempre un’esperienza nuova.”
Dopo un tempo lunghissimo Catherine aprì gli occhi sentendo un terribile cerchio alla testa e una penetrante pulsazione nelle tempie. La bocca era appiccicosa come se avesse mangiato un barile di colla. Si passò energicamente una mano sulle labbra per levare via quella brutta sensazione. Poi, sollevandosi da terra, deglutì sperimentando sulla lingua un sapore impiastricciato. Si guardò in giro finché i suoi occhi non caddero su Joseph addormentato profondamente sulla sedia. Le braccia penzoloni tentavano di sfiorare il pavimento e la testa incredibilmente inclinata di lato. Il suo corpo pareva imitare bizzarramente la forma di un triangolo scaleno. Come richiamato dal magnetismo dello sguardo della ragazza, l’uomo si svegliò quasi balzando dalla sedia. Poco dopo, pure lui si guardò attorno confusamente con gli occhi arrossati, mettendo poi a fuco lo sfiorito incantesimo che agitava convulsamente le braccia dinnanzi al corpo sottile: Catherine in preda alla prima rota.
“Non abbiate paura, Catherine”, disse lui strofinandosi nervosamente una mano sulla faccia. “Le troverò al più presto della saliva incontaminata.”
Joseph Kings viaggiava di villaggio in villaggio da circa due anni trascinandosi dietro una borsa di pelle con eleganti intarsiature sul ripiego, intorno al disegno di un grifone blasonato; a chi glielo chiedeva rispondeva trattarsi dello stemma della sua famiglia nobile. Non era vero: la borsa era stata misteriosamente abbandonata in una casa diroccata, e lui l’aveva raccolta una notte in cui era stato costretto a ripararsi durante un forte temporale. Curiosamente era in ottime condizioni e aprendola vi aveva scoperto all’interno quindici libri di poesie. Era nata in quel modo l’idea di spacciarsi per poeta. In maniera del tutto impensata. Per diversi mesi, aveva girato in lungo e largo il territorio dell’Humberside in cerca di donne vergini. Bridlington, Driffield, Beverley, Kingston-upon-Hull, Hessle: da nord a sud aveva toccato tutti i più grossi centri della contea. Si era spostato costantemente a piedi, con la pioggia, col vento e col sole, perché una carrozza sarebbe stata troppo onerosa per le sue modeste finanze.
Uno di questi pomeriggi la sua strada si incrociò con una vecchia locanda – la cui insegna in legno intarsiato all’esterno mostrava il disegno di un leone impavido che abbrancava una specie di araldo: The Leon Inn Hull. Chiese all’oste una birra e si andò a sedere all’estremità di un tavolo già occupato. Si sistemò la borsa accanto ai piedi e per un po’ studiò le facce della gente, sorseggiando pian piano. Un uomo di età indefinibile, seduto sulla sedia accanto alla sua, continuava a squadrare il suo boccale di birra, leccandosi le labbra. Quando fu sicuro di riuscir ad attaccar bottone, Joseph allungò un braccio e fece cenno all’oste; gli disse di portare un’altra birra, e quando il gestore della locanda la posò sul tavolo, Joseph l’allungò verso l’avventore di mezza età, dicendogli: “Vi posso fare qualche domanda?”
“Certo, buon uomo”, disse l’altro leccandosi ancora le labbra e agguantando il boccale con troppa foga proprio col batticuore di chi temesse che Joseph avesse potuto cambiare idea riguardo la sua offerta. “Mi può fare tutte le domande che vuole.”
Fatta la premessa di essere un poeta famoso, mostrandogli qualche verso stampato su uno dei libri (che l’uomo non era nemmeno in grado di leggere), e raccontandogli della sua discendenza nobile (ostentando il grifone sul risvolto), Joseph Kings chiese: “Sapete se nel villaggio non c’è qualche brava ragazza vergine?” L’uomo, dal volto paonazzo, i capelli completamente sporchi e uno sguardo totalmente sparuto, improvvisò una smorfia bizzarra per uno o due secondi, prima che il poeta potesse aggiungere: “Sapete, il mio è un lignaggio che permette un’unione matrimoniale con una donna dalla castità inoppugnabile.”
Dopo aver trangugiato molta birra con un solo sorso e averci riflettuto un altro po’, l’uomo fu in grado di dargli una risposta e in quel modo il destino di Joseph s’incrociò con le sorti della famiglia Lewis, presso cui il giovane prese in affitto una stanzetta (la donna locava alcune stanze nella sua grande casa da quando aveva perso suo marito per un attacco cardiaco) con il discutibile intento di buttare giù qualche verso per il suo prossimo libro di poesie.
La Signora Lewis, una donna d’età indefinibile – oscillante tra i trentacinque e i cinquant’anni – sfoggiava un costante sorriso amaro, che non riusciva a ingannare il triste presente di vedova, e due occhi di un verde brillante, perfettamente in grado di raccontare di un non troppo distante fascino da ammaliatrice. Qualche volta Joseph si era sorpreso a fare delle bizzarre associazioni tra la donna e una sirena abbandonata su una spiaggia solitaria di una costa scudisciata dalle onde fredde del mare.
Se fosse stato in grado per davvero di scrivere dei versi, senza alcun dubbio, le avrebbe dedicato qualche componimento.
Ma a chi avrebbe dedicato, senza ombra di dubbio, decine e decine di libri di poesia, era Catherine. La ragazza era la reincarnazione della Signora Lewis a diciott’anni: dalla madre aveva ereditato la sinistra luminescenza delle iridi e una vaga punta di nostalgia agli angoli della bocca ogni qual volta sorrideva.
Con la piccola famiglia, Joseph, naturalmente, aveva cambiato le carte in tavola; tacendo sul falso proposito di matrimonio, aveva narrato soltanto di essere alla ricerca di una profonda tranquillità per la sua ispirazione poetica e quella grande casa era il luogo adatto. Per settimane, come faceva praticamente da quando era entrato in possesso della borsa di pelle, aveva scribacchiato su diversi fogli di carta – per dare la parvenza di un lavoro di creazione estenuante – i versi saccheggiati dai libri di poesia. La sera, a tavola, appena qualcuno glielo chiedeva (e accadeva sovente che la Signora Lewis esprimesse un simile desiderio), lui tirava fuori da una tasca della giacca un foglietto in cui aveva mescolato ad arte versi di Wordsworth, Dryden, Aphra Behn, Gray, Herbert, Browning, spacciandoli per personali fatiche creative. E la Signora Lewis sembrava proprio appezzarle tanto, perché subito dopo ogni sua declamazione serale, batteva le mani e si complimentava di vero cuore, invitando le figlie a fare altrettanto. Così non fu troppo difficile per lui catturare l’indulgenza della donna quando sua figlia le chiese il permesso di recarsi, ogni pomeriggio, in camera sua per studiare i segreti della tecnica poetica.
Fuggirono di casa nottetempo. La prima rota che colpì Catherine era molto più grave di ciò che avesse immaginato. La sua prima crisi, Joseph Kings, la rammentava invece come un dolore agli occhi passeggero, curato con una lunga dormita mattutina e pomeridiana; solo che, allora, lui aveva potuto fare affidamento sulle secrezioni salivari di Virginia. Gli erano bastati due sputi in bocca per rianimarsi. Tentò di fare lo stesso con la signorina Lewis.
Erano giunti, dopo un paio di ore di cammino, al limitare di un vasto bosco di betulle.
“Credo di aver lasciato un volume di Shelley nella stanza”, commentò tra sé chiudendo il risvolto della borsa. Dedicò una lunga occhiata a Catherine distesa sotto il tronco di un albero con gli occhi chiusi e un braccio sulla fronte. “Come andiamo, Catherine?”
La ragazza sollevò il braccio e fece un gesto debole con la mano per dire: un po’ meglio. Poi, aggiunse con voce rauca: “Forse è meglio che voi continuiate senza di me, Joseph.”
“Raggiungeremo Kenworthy House. È una Dispensa a una manciata di chilometri da Georgian Chambers. Forse, lì dentro, qualcuno si ricorderà ancora di me. Non credo che faranno problemi per una donna. Ci aiuteranno, vedrete.”
Anche Joseph, poco dopo, si distese sotto l’albero, appoggiò la testa accanto a quella della giovane donna e si abbandonò a un sogno agitato e sufficientemente spaventoso da sembrare vero.
Nuotava in un’acqua salmastra, scura e fredda come il ghiaccio. Si spostava indolentemente flettendo le cosce e le mani in modo goffo, al punto che di tanto in tanto la sua testa affondava costringendolo a bere. Scopriva in quel modo che si trattava di un liquido viscoso. Invece di sputarlo di nuovo, lo ingoiava, sentendosi appagato. A tratti, smetteva di nuotare, allargava le braccia e tentava di stare a galla, ma la pressione non glielo consentiva. Dove mi trovo?, pensava a un certo momento; un’ondata violenta lo spingeva alla deriva, costringendolo di nuovo a numerose bracciate. Sguazzò gioioso finché la forza dei suoi arti glielo permisero, poi si lasciò affondare. Dopo una manciata di secondi, quando era sul punto di credere di morire, una testa gigantesca lo fece riemergere. Il capo titanico, simile a quello di una grossa statua di marmo, diceva: Mi hai raggiunto di nuovo, Joseph Kings. Puoi chiedermi tutto ciò che vuoi. Perché tu sei un mio iniziato. Ma non era una vera e propria voce, era piuttosto un’eco che Joseph sentiva rimbalzare sulle fiancate della propria mente come una palla impazzita, toccando le pareti dell’immaginazione più sfrenata. Joseph, come in trance, sbarrava gli occhi e guardando la testa capiva trattarsi di Virginia. La sua risonanza diceva ancora: Non devi nuotare in quest’acqua, Joseph Kings. Questo mare salmastro può nutrirti, se lo bevi. Lui non riusciva a rispondere nulla; a dire il vero, nemmeno ci provava a schiudere le labbra. Ma non appena lo fece iniziò a ingurgitare con brama tutta l’acqua che l’attorniava. A poco a poco, il livello scese, e sentì lo stomaco riempirsi come un otre nel mentre la testa gigantesca di Virginia lo salutava gridando: Addio, Joseph Kings. Per ora le nostre strade si dividono, ma un giorno, chissà, potremo incontrarci di nuovo…, librandosi in aria come uno strano uccello ingessato e lasciando cadere gocce di liquido colloso sulla testa di Joseph.
Si svegliò di soprassalto guardandosi intorno. Si passò una mano sulla faccia bagnata. Goccioloni grossi come monete cadevano giù dal cielo, colpendoli. Disse: “Dobbiamo metterci in cammino, Signorina Lewis”, mentre con un braccio scuoteva il suo corpo esile. Giunti alla Dispensa, Joseph fece sedere Catherine (pallida come un cencio e quasi sul punto di perdere i sensi) per terra, tirò fuori un libro dalle pagine tutte ingiallite dalla sua sacca di pelle e si mise a declamare a voce alta alcuni versi di Robert Burns dinnanzi il grosso portone di legno tarlato. Dopo un po’ si aprirono alcune finestre al primo piano dell’edificio e un paio di ragazze ben vestite, battendo le mani e gridando di giubilo, scesero per aprirgli la porta. Nella sala d’attesa, con un lungo giro di parole, Kings spiegò chi fosse la ragazza che lo accompagnava e per quale motivo chiedeva la loro assistenza igienica.
“Lo sappiamo benissimo, Signor Kings”, disse Elisabeth, la ragazza più simpatica di Kenworthy House. “Non deve spiegarci nulla. Noi siamo molto esperte delle sintomatologie.”
Due ragazze presero Catherine per sotto le ascelle e la trasportarono al piano di sopra.
A Joseph Kings fu preso un grosso telo di stoffa per farlo asciugare alla bell’e meglio; poi, fu invitato a riposare e a dormire, dopo un frugale pasto, in una stanzetta adibita per gli ospiti di passaggio. Accettò l’invito, ma questa volta dormì un sonno profondo privo di qualunque riferimento onirico.
Il giorno appresso, quando Catherine si svegliò facendo vagare spaventata lo sguardo attorno alla camera ben illuminata, chiese: “Dove sono? Cosa mi è capitato?” Lo chiese un paio di volte, toccandosi la fronte accaldata e passandosi un polso sulle labbra che avevano un vago inaridimento da mancanza di saliva. Chiese pure, con una voce stridula, diverse volte aiuto, ma nessuno sembrò sentirla.
Solo diverse ore dopo Elisabeth bussò lievemente alla porta della stanza, reggendo sgraziatamente un vassoio contenente una ciotola di latte e un pezzo di pane. Rispose a quasi tutte le domande della ragazza, e le spiegò che una giovane di nome Pilar le stava donando il suo frutto secreto per rimetterla in forze. Pilar era una vergine messicana di tredici anni.
Catherine trascorse così un’altra settimana a letto, riacquistando il colorito originario, nell’arco di molti giorni, e rimettendosi in forze. Un giorno chiese ad Elisabeth: “Come potrei ripagarvi per le cure che mi avete prestato?”
Elisabeth disse: “Un modo ci sarebbe.” E glielo disse. Ed era abbastanza ovvio, a pensarci.
Senza che nessuno glielo insegnasse, spostandosi a scatti, come un ragno orrido, ma senza la peluria schifosa tipica degli aracnidi, fece una rapida curva su una parete. Si sentiva più leggera di una foglia morta sul punto di staccarsi da un ramo secco. Voltandosi un paio di volte, gettò delle lunghe occhiate al cliente disteso sul letto come una specie di Cristo penitente; teneva le braccia allungate contro la testiera del letto e le gambe allargate. Si rigirò verso il muro, chiamandosi brevemente a raccolta; sbavò a lungo sulla superficie delle labbra, sputandosi sulla punta delle dita per controllare la viscosità del suo frutto. Poi, ridiscese velocemente il muro, attraversò un pezzetto di stanza e salendo sul letto disse al cliente, con una voce completamente distorta: “Ti esibirò una cosa molto bella. Di cui non potrai più fare a meno.”
E fu così che lei inserì, per la prima volta, in bocca a un uomo il suo amaro veleno.
immagine di copertina: Maman – Louise Bourgeois’ Giant Spider | by jordi.martorell