1. Essi (non) vivono.
«Il consumismo come sistema di valori trionfante e unificante, fine a se stesso, trasforma l’umanità in una grande giostra pubblicitaria. La completa amnesia dei valori naturali porta l’uomo ad utilizzare il proprio corpo ed i propri sentimenti per rappresentare le mode e le necessità contingenti». Questa bella frase del collega Giorgio Michelangelo Fabbrucci (tratta dalla recensione di Garbageland) ricorda la visione del consumatore passata ai Raggi X nella sequenza finale della pellicola They Live (Essi vivono) di John Carpenter, allorquando il protagonista scopre che, in una società ridotta allo stato di povertà, le uniche persone benestanti non sono in realtà esseri umani, ma alieni simili a degli zombie che partecipano attivamente al bombardamento di messaggi pubblicitari subliminali, slogan e comandi atti all’obbedienza. Oltre che al mero consumismo, infatti, la popolazione viene spinta da una latente propaganda a tutta una serie di condotte codificate e paradigmatiche, quali sposarsi, fare figli, acquistare prodotti per la casa.
In ciò, non possono non venire in mente gli “studi motivazionali” dello psicanalista Ernst Dichter, che per lanciare la bambola Barbie sul mercato puntò il mirino sulla motivazione principale (appunto) delle donne della società americana degli anni Cinquanta: trovare marito. Ecco allora che una bambola come Barbie doveva contribuire a “fabbricare menti”, ovvero a mantenere forte questa motivazione anche nei decenni a venire; diventando effetto e insieme causa di un paradigma di vita prolungato, e mantenere così inalterato un siffatto stato di cose. E non è tutto: se il film di Carpenter è datato 1988, c’è da dire che esso si rifà al racconto di Ray Nelson Eight O’Clock in the Morning (Alle otto del mattino), che fu scritto nel 1963 e cioè in pieno boom di «mitologia pubblicitaria» e di «idolatria delle marche», per usare un lessico caro al Gruppo Marcuse. Ecco allora che le marche diventano dei vettori di identificazione, e la «gente alla moda» si lascia dominare con entusiasmo (cfr. Miseria umana della pubblicità. Il nostro stile di vita sta uccidendo il mondo, Elèuthera 2006).
Si aggiunga ora che, se i consumatori non vivono, in They Live non sono solo i ricchi ad essere degli alieni-zombie, perché lo sono anche gli agenti di polizia. Questa precisazione è importante perché apre il campo a delle considerazioni di Gilles Deleuze sul rapporto tra arte, informazione e pubblicità. Secondo il filosofo francese, l’informazione altro non è che il sistema controllato delle parole d’ordine che valgono in una determinata società e, dal momento che l’atto di informare equivale a quello di far circolare un ordine, le dichiarazioni della polizia sono chiamate giustamente “comunicati”. E, in tutto ciò, l’arte non è ovviamente contemplata, e a ragione: l’arte non ha nulla a che fare con l’informazione o con la comunicazione, dacché il suo linguaggio è anti-funzionalista. Di più: nella lettura di Deleuze, quando Paul Klee annunciava che «Il popolo manca», intendeva dire che non c’è opera d’arte che non faccia appello a un popolo che non esiste ancora (cfr. Che cos’è l’atto di creazione?, Cronopio 2003).
2. L’arte (non) muore.
Un popolo che non esiste ancora è innanzitutto un popolo che non ha aspettative e che non è atteso. È giustamente radicale, in ciò, Deleuze: «Quando i pubblicitari spiegano che la pubblicità è la poesia del mondo moderno, quest’affermazione sfrontata dimentica che non c’è arte che si proponga di comporre o di rivelare un prodotto che risponda all’attesa del pubblico. La pubblicità può anche scioccare o voler scioccare, ma risponde comunque a una presunta attesa. Un’arte produce invece necessariamente un che di inatteso, di non-riconosciuto, di non-riconoscibile. Non c’è arte commerciale, è un non-senso».
Si ritorna alla pubblicità dunque, la quale, quando si distacca dalla mera réclame, aspira ad innalzare i propri prodotti sino a trasformarli in totem o idoli. E, naturalmente, a fare del consumatore il membro di una tribù. Si tratta, in parole povere, della strategia del “branding”, altrimenti detta del “marketing clanico”, per la quale si recuperano i meccanismi operanti all’interno dei codici, dei rituali, del look e del linguaggio degli appartenenti a uno stesso gruppo tribale.
La differenza sta pertanto qui: l’arte si rivolge a un popolo che manca; la pubblicità a un popolo tribale che risponde meccanicamente, a mo’ di zombie, a dei comandi. Che il popolo manchi, si badi, non significa che l’arte sia morta. Lo sosterrà, con Gilles Deleuze, anche Hannah Arendt in alcune pagine di Vita activa. La condizione umana, quando attribuisce all’opera d’arte una serie di caratteristiche fondamentali, quali ad esempio: fare “resistenza”, non avere nulla a che fare con la comunicazione e con l’informazione (semmai, con la contro-informazione), avere un’esistenza indipendente e separata da chi l’ha prodotta, poter durare anche molto oltre la vita dell’autore e dei suoi contemporanei.
Ovvero, per dirla con André Malraux: «L’arte è la sola cosa che resiste alla morte».
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