Racconto scritto e proposto da Marco Loiodice
Dicono che io possa avere tra i quaranta e i quarantacinque, e che è necessario che mi amputi un piede, ma sono lenzuola pulite queste. Se ci sono finito in mezzo deve essere giunto il momento di riposare.
Sono nato in un quartiere piccolo di una città grande. La città era grande, molto grande, tanto che anche il quartiere dove sono nato, pur essendo piccolo rispetto alla città (per questo dicevo che era piccolo), era grande, molto grande, e ci viveva molta gente. Qualche volta, passando per una via qualsiasi, incontravi persone che non avevi mai incontrato prima, perché in ogni via abitavano centinaia di persone, e c’erano centinaia di case, una sopra all’altra, sghembe, senza i bagni e con i bagni rotti, senza letti, con un tavolo magari, ed erano case strette, tanto che credo che fu allora, quando avevo una casa, che mi abituai a stare in strada. Un giorno che già avrò avuto almeno più di dieci anni, decisi di lasciare casa. Tanto mia madre non mi chiamava mai con il mio nome, non mi faceva da mangiare come sapevo che facevano le madri di altri, e vivere per strada per vivere per strada, tanto valeva che me ne andassi a vedere com’è che era la città. Non che non avessi amici: c’erano gli zii, e c’era un cugino, e c’era tanta altra gente, e nel posto dove sono nato c’erano tanti altri bambini come me che correvano e gridavano e saltavano da un tetto all’altro e per le strade. Non era facile fermarci, e nessuno voleva fermarci, ma trovavamo sempre qualcuno che ci diceva come dovevamo comportarci: magari un motociclista di passaggio, qualche vecchio che passava le sue giornate sulla sedia a margine della strada, qualche barista, qualche negoziante, qualche bandito; e c’era sempre qualcuno che ci invitava a mangiare un piatto, e c’era anche qualcuno che voleva che andassimo a scuola. Ma non era facile fermarci. Ci fermavamo solo ai confini del nostro quartiere, che erano invalicabili. Erano confini ben delineati: chi ci abitava dentro non usciva mai, oppure usciva per andare a lavorare e vi rientrava puntuale alla fine del lavoro, con gli autobus e le metropolitane; chi abitava fuori non ci entrava mai, perché aveva paura, aveva paura di noi, e non voleva passare del tempo con noi. Quelli fuori pensavano che fossimo tutti ladri e assassini, ma non era così. Per questo quelli fuori ci disprezzavano e spesso anche noi disprezzavamo loro. Nella mia città c’era tanta gente che disprezzava tanta altra gente. Io non disprezzavo nessuno, ero solo molto curioso di sapere com’era fuori, e così, quando fui grande abbastanza, una notte dal cielo aperto, mi scelsi una stella, e le chiesi di promettermi che non mi avrebbe mai abbandonato, e con lei a farmi coraggio oltrepassai i confini del mio quartiere. Presi le scarpe, presi una sciarpa e un cappello, e seguii la mia stella, e andai fuori a vedere com’era la città di notte. Camminai, camminai, per ore, camminai, e venne il giorno, e camminai ancora, e tornò la notte, e quella stella continuava a brillare esattamente come quando mi ero fatto adottare da lei. Si trovava non troppo distante dalla Luna, ma brillava più di tutte le altre stelle, ed era sola, e non aveva bisogno di nessuno, ed era libera. Era libera e brillava tutte le notti per me.
Camminai per le strade, percorsi le discese e le salite, e mi ritrovai in quartieri che non erano il mio ma erano simili al mio. Non sapevo che ce ne fossero altri come il mio. Poi ce n’erano altri diversi, ce n’erano altri nei quali la gente non camminava per strada ma si spostava solo con le automobili, e tornava con le automobili ed entrava nel portone e scompariva. Indossavano camicie bianche, bianchissime: non avevo mai visto gente con le camicie bianche così. Poi c’erano quartieri con le fontane dove mi potevo fare il bagno e poi c’era il posto dove mi fermavo a dormire. Era fatto di pietra, stava in mezzo a un marciapiede rotondo attorno al quale giravano cento macchine tutti i giorni, e anche di più. Dovevo stare attento ad attraversare la strada per raggiungerlo, ma una volta raggiunto ero a casa. Aveva le pareti e il tetto di pietra e la pietra era tutta verde di rampicanti e grigia di muffa. Entravi da una crepa per evitare le sbarre che cingevano l’ingresso principale che tanto era sempre chiuso, e man mano che ti insinuavi in quel cunicolo si faceva sempre più buio, ed era come girovagare in una caverna immensa. Per dormire mi sono scelto un angolo da dove si sentivano scorrere fonti d’acqua. Mi piaceva vivere nella casa di pietra perché era riparata e non la conosceva nessuno, e il fruscio dell’acqua distante mi faceva svanire i pensieri cupi e mi sognare e mi faceva sentire che tutto sarebbe andato bene. E poi, lo sapevo, che sopra al tetto di pietra, silenziosa, continuava a brillare la mia stella.
Poco più in là c’era un mercato grande dove prendevo quello che mi serviva per mangiare: prendevo le mele, e quando mi andava bene se ero abile, prendevo i salami. Bere, bevevo dalla fontana. Qualche volta venivo inseguito e stavo attento ad essere più veloce degli altri e a fuggire lontano dal posto dove dormivo. Una volta qualcuno mi raggiunse e mi fece male. Sanguinai e rimasi per terra per molto tempo perché le ossa mi facevano male e non riuscivo ad alzarmi. Si fece buio, venne il freddo. Poi una vecchia mi prese, mi sciacquò con l’acqua, mi aiutò ad alzarmi, mi diede da bere, le ferite si rimarginarono, il sangue si fermò e il dolore passò. A poco a poco passò. Solo di tanto in tanto il dolore torna alle dita, che non sono mai tornate come prima. La vecchia fu gentile ma un giorno decise di non ricordarsi più di me. Mi cacciò via, mi gridò, mi spintonò, mi disse che puzzavo, che ero brutto, che mia madre avrebbe dovuto uccidermi quando ero nato. Allora presi una pietra e gliela lanciai sulla testa. La testa sanguinò e lei fece silenzio. Ripresi a camminare e non doveva essere successo niente di male perché la mia stella continuava a brillare esattamente dove era stata fin dall’inizio. Solo quando pioveva non potevo vederla, ma sapevo che era là, dietro le nuvole, e quando il cielo si apriva tornava a brillare per me. Una volta, mi ricordo, il cielo era diventato blu, del blu più intenso che avessi mai visto. Camminavo per le strade, piano, molto piano, perché adesso il mio corpo era diventato pesante, molto pesante, e le gambe andavano piano, e dovevo stare attento a non rovinare le scarpe, e i capelli si erano fatti lunghi, molto lunghi, e grigi, e qualche volta mi si infilavano negli occhi e mi oscuravano la vista. Così camminavo piano, un passo alla volta, appoggiandomi al muro, e la gente si teneva distante e mi guardava male, e io continuavo a camminare, piano, anche perché non avevo fretta, e stavo con la testa rivolta al cielo più blu che avessi mai visto, e svoltai un angolo, e la vista del cielo fu interrotta da una punta di cemento grigia, alta, altissima. Scesi con lo sguardo, seguii la punta, che si allargava scendendo, e finiva in una parete grigia e bianca, misteriosa, frastagliata di figure che si contorcevano l’una nell’altra e che diventavano mostri dalle teste di cani feroci, e uomini e donne inginocchiate e frati con l’aureola. Era la chiesa di quella piazza che mi piaceva tanto, Piazzetta dell’Infinito. Ero arrivato fin qua, quel giorno. Una piazza piccola, una Piazzetta, dentro a una città immensa, ed è per questo, secondo me, che era stata chiamata Piazzetta dell’Infinito. Era come tornare nel mio quartiere, un quartiere grande che in una città molto grande diventava molto piccolo.
Ci tornai spesso, nella Piazzetta dell’Infinito, e qualche volta entrai nella chiesa. Mi sedevo in un angolo dove nessuno poteva vedermi e mi fermavo a guardare le signore dalle gobbe nere che accendevano una candela e consegnavano alle statue doni, dolci, giocattoli e vestiti, e stavano davanti alle candele a pregare, credo, e il loro viso si scorgeva appena nella penombra, e qualche volta piangevano. Quando entravo nella chiesa a guardare le vecchie nere mi passavano per la testa pensieri che di solito non mi venivano. Una volta mi ricordai di quando – e avrò avuto già vent’anni – mi chiedevo se sarei diventato come lo zio del quartiere dove abitavo da piccolo che faceva il conducente di autobus, o come quell’altro zio, che faceva il muratore e lavorava alle opere in strada e si lamentava che aveva la schiena rotta e, per sentire meno il dolore, beveva bicchieri rossi, che erano così rossi che rossi restavano anche dopo che aveva finito di bere; o se fossi diventato come quel cugino piccolo che girava con la mitraglia a tracolla ed era riverito da tutti. Mio cugino era piccolo, ma quando indossava la mitraglia diventava enorme. Io non fui niente di tutto ciò, perché avevo deciso di uscire dai confini del mio quartiere, e mi ero messo a camminare, e la mia stella mi aveva portato lontano da dove ero nato. Una volta, un signore elegante, con la giacca, quando ancora camminavo bene e correvo, mi fermò in strada e mi disse che mi aveva osservato, che mi conosceva, e mi chiese se avevo qualcuno o non avevo nessuno, e mi chiese se volevo soldi, e io dissi di sì, perché no, e lui me li diede e in cambio mi chiese di portare un pacchetto da un suo amico che stava dall’altra parte della città. Camminai, portai quel pacchetto, e quando tornai incontrai di nuovo il signore con la giaca, che mi diede ancora un po’ di soldi, e portai per lui un altro pacchetto e mi diede altri soldi ancora. Usai i soldi per mangiare e bere più del solito. Mi piaceva bere il vino e pensai che quel bicchiere rosso che beveva mio zio doveva essere vino. Mi sentii tornare bambino, quando stavo vicino a lui e lui si prendeva gioco di me. Sì, doveva essere proprio così: mi piaceva bere il vino perché mi ricordava mio zio. Solo che mi faceva scordare altre cose, così una volta mi dimenticai di portare un pacchetto dove dovevo portarlo e quella fu la seconda volta che sentii il sapore metallico del sangue scivolarmi in bocca, e non mi chiesero mai più di portare pacchetti. Ripresi a camminare, e mentre camminavo, di tanto in tanto, voltavo la testa al cielo, e la mia stella era ancora dove l’avevo lasciata: brillava per me come sempre.
Il mio corpo cambiava, i miei capelli e la mia barba crescevano, e il piede faceva male, pulsava e si irrigidiva. Quanti anni sono passati. Mi hanno raccolto sul pavimento della Chiesa di Piazzetta dell’Infinito che il mio piede non lo sentivo più, e mi hanno detto che devono essere passati quarant’anni da quando sono nato, e forse anche di più, e che mi devono amputare un piede. So che non lo faranno perché è qui, tra queste lenzuola pulite, che voglio andarmene, e sono felice. Non sono mai stato come nessuno dei miei zii, e nemmeno come mio cugino. Ho passeggiato per tutte le strade della città, e la mia stella, ogni volta che il cielo si è aperto, era là a salutarmi, e non mi ha mai lasciato solo.