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L’Estranea

11179971_10204910633617963_8999069587955380943_n# Ero in attesa. Da qualche tempo, ero continuamente in attesa. Lo sguardo mi cadeva involontariamente sempre sullo stesso punto. A parte questo, la mia vita proseguiva come il solito. Studiavo abbastanza, leggevo i Marvel, ascoltavo metal degli anni ‘80, speravo costantemente di portarmi a letto qualche ragazza, facevo sogni agitati, ma soprattutto studiavo abbastanza. Ero in dirittura d’arrivo con la laurea. Così, almeno, mi ripetevo da un paio d’anni.
E poi, nel bel mezzo di questo guazzabuglio, c’era Quella lì.
Non esisteva un momento preciso in cui compariva, ma il più delle volte era di sera.
Poco prima dell’apparizione un silenzio profondo, irreale, sembrava avvolgere tutte le cose. Come nel preciso istante in cui perdi coscienza e cadi vittima del sonno. In quel frangente, le quattro pareti incominciavano a levitare e un odore di arance si espandeva rapidamente dalla finestra. Non saprei descriverlo meglio. Quando avevo la sensazione che il momento fosse vicino, sospendevo qualsiasi cosa stessi facendo e guardavo verso il fondo della stanza.
La parete in fondo alla camera era divenuta un riflesso incondizionato, la paura concentrata nel battito accelerato del cuore e delle tempie.
L’ultima volta, poco prima che La vedessi, ricordo di aver udito forti frenate sull’asfalto prodotte da diversi veicoli, un vociare confuso che si smorzò nell’arco di pochi secondi, un concitato frullo di ali in differenti punti del cielo, e fusti di alberi piegarsi sotto l’influsso del vento fino all’inverosimile.
L’intero mondo si chiamava a raccolta, di fronte al momento solenne.
Mi voltai, e La vidi.
Quella Donna con un mesto cuore incoronato di spine al centro del petto; ricoperta di oro e di una complicata organza in seta pura. Sembrava una sorta di sposa approntata per un funerale. Era un tuffo al cuore. Un fantasma diafano che assumeva via via solidità sullo sfondo della parete, quasi del tutto in penombra. Sollevata di alcuni centimetri sulla superficie del pavimento, teneva una mano lattiginosa a mezz’aria e il volto tirato in una smorfia di commiserazione.
Oscillava impercettibilmente – non capivo se in virtù di qualche inspiegabile effetto ottico – e mi dava la netta impressione di una figura digitalizzata.
In preda a un sentimento a metà tra paura ed estrema eccitazione, scattai all’indietro come se potessi in qualche modo proteggermi dalla apparizione. Sotto certi aspetti era di una normalità disarmante. Né bella, né brutta, né affascinante; se non fosse stata racchiusa nella Visione, non avrei mai provato alcuna forma di interesse per una donna del genere. La tipica persona scialba che ti passa davanti per strada e non la degni nemmeno di uno sguardo. Però, la complicata aureola dorata, fatta di spessi raggi kitsch, e il velo dietro la testa riuscivano alla perfezione nel tentativo di darle un’aria austera.
“Chi sei?”, chiesi con una punta d’imbarazzo.
Senza badare minimamente alla domanda, l’ologramma disse: “Devi convertirti. Devi pregare e aprire il tuo cuore a Dio. Lasciare per sempre i peccati e accettare in toto la parola di Nostro Signore.” Aveva una voce esangue, che sembrava provenire da chilometri di distanza.
Rimasi per un bel pezzo a guardarla, con le labbra serrate. Mi sentivo la faccia di fuoco e il furore strisciare veementemente dietro il collo per essere stato coinvolto in quella faccenda. Non riuscivo a prestare attenzione nemmeno alla metà delle sue parole. Ero abbagliato dalla Sua Immagine. Deglutivo a fatica una saliva dal sapore sgradevole, un movimento incontrollato in una delle palpebre tentava inutilmente di scuotermi e il cuore mi pompava tanto velocemente da sentirlo sulla bocca dello stomaco. Poi mi decisi a sollevare un braccio, muovendo lentamente una mano come se volessi salutare qualcuno. Le riuscii in qualche modo a domandare di nuovo: “Ma chi sei?”
“Sono la Vergine Maria”, spiegò finalmente. “Sono qui per un’opera di conversione.”
“La Vergine Maria. E… perché dovrei convertirmi?”
L’estranea era sempre nello stesso punto della parete, oscillava come un’onda ipnotica, lievissimamente, dal basso verso l’alto e sembrava non doversi saziare mai dei suoi moniti. Mi disse: “Il mondo è sull’orlo della distruzione a causa delle guerre. Io sono la Regina della Pace e vengo qui sulla Terra per pregare, per cercare di impedire tutte le violenze future.”
Finalmente riuscii a staccarmi dalla spalliera della sedia, mi alzai e mossi qualche passo nella sua direzione. Volevo provare a vedere cosa sarebbe successo a toccarla; ma con mia sgradita sorpresa vidi che la figura si spostava allontanandosi in altri punti del muro senza lasciarsi toccare. Tornai a sedere e cogliendo un pensiero, poco prima che venisse risucchiato sul fondo della mente, dissi: “Ma sei proprio sicura che è da me che vuoi venire? Non è che per caso ti sei sbagliata? Magari dovevi apparire in un altro posto… Qualche porta più avanti c’è una vecchia che va tutte le domeniche a messa. È facilissimo sbagliarsi, sai… Il condominio è molto grande. Ci sono centinaia di appartamenti. E, poi, detto per inciso io non so di nessuna guerra, non seguo molti telegiornali e, punto fondamentale di tutta la questione, non sono nemmeno credente. Quindi ti ripeto: sono proprio io la persona a cui sei venuta a fare visita?” Non riuscivo a scacciare dalla mente il pensiero di un tiro mancino di qualche amico. Ma chi era in grado di fare ciò? E per quale motivo poi?
Dopo un nuovo impercettibile oscillare, la donna disse: “Io non mi sbaglio mai perché rappresento l’intercessione di Nostro Signore. È proprio da te che volevo venire.”
“Comunque non aspettarti che mi metta in ginocchio a pregare dinnanzi a te o cose del genere. Non sono il tipo di persona che si lascia impressionare tanto facilmente. E poi, se permetti, avrei parecchio da fare”, dissi indicando verso la scrivania la piccola pila di libri che ancora dovevo aprire. “Sai, dovrei laurearmi. E, se mi lasci studiare, te ne sarei grato.”
Nel momento in cui alzai di nuovo lo sguardo verso la parete, scoprii che l’immagine non c’era più. A passi rapidi mi avvicinai nel punto esatto dell’apparizione, ma a parte il battiscopa di marmo attaccato al fondo del muro, non vi trovai nulla di strano. Non c’era alcun marchingegno per gli ologrammi o qualcosa del genere come avevo pensato. Tirai un profondo sospiro di sollievo, mi abbandonai sul letto e chiusi gli occhi, pensando a cosa avrei potuto fare riguardo quelle incursioni.

# Ad un certo momento presi la decisione di confidarmi con qualcuno. Questo un paio di giorni dopo. Da allora non ci fu più nessuna incursione nella stanza, ma il pensiero che quella Donna pretendesse delle cose mi dava sui nervi. Avevo addirittura pensato di chiedere consiglio a qualche prete; ma, a parte il fatto di non conoscerne personalmente nessuno, avevo anche il timore di dovergli spiegare il motivo per cui, anni prima, mi ero andato a sbattezzare.
Quindi scartai l’idea, prendendone in considerazione una un po’ più fattibile.
“Denunciala per violazione di domicilio e per stalking. Nel tuo caso ci sono tutti gli estremi; si è introdotta in casa tua, e si è persino trattenuta… Quanto tempo? Più di una volta, stando a quanto hai detto. Contro la tua volontà, per giunta”, disse Osvaldo con un impeto saccente. “Ripeto: anche lo stalking vi rientra a mio avviso.”
Siccome non avevo del tutto calmato il mio nervosismo, gli risposi, forse un po’ troppo scortesemente: “Non cominciare a dire puttanate, ti prego Osvaldo. Sono venuto da te per un consiglio serio, e non per una diatriba… come si dice… legale.”
“E i miei sono consigli seri, cosa ti credi?” disse lui accennando a un sorriso diabolico sull’intero volto. Era un ragazzone dalle spalle larghe, alto, e vestiva quasi sempre abiti eleganti, da Tribunale Civile. “Che male c’è se vedo il mondo attraverso la mia professione? Lo sai anche tu, in fondo, che a me piace da morire fare l’avvocato.”
Camminavamo lentamente, all’ombra di abeti fruscianti sotto l’influsso di un venticello fresco e indeciso. Il Parco Cavour era quasi del tutto desolato a quell’ora tarda del pomeriggio. Ogni tanto qualche ciclista o corridore ci superava ed io lo guardavo sparire repentinamente dietro la curva del sentiero che tagliava verso destra. Feci un breve sospiro e mi bloccai: “E lo sai anche tu che, in fondo, a me piace da morire essere serio.”
Ci guardammo negli occhi, sostenendoci lo sguardo a vicenda prima che Osvaldo incominciasse a ridere, in quel modo spensierato che non avrei mai saputo imitare. “Va bene, va bene”, disse intrecciando le mani dietro la schiena e sollevando il mento per aria. “Mi dicesti che il tuo proprietario di casa possiede parecchie stanze libere, in quel condominio. Chiedigli di farti trasferire in un’altra stanza. Così risolvi il problema una volta e per tutte.”
“Non so se sarà d’accordo. Il Signor Preziosi, è un rompiballe di prima categoria”, dissi riprendendo a camminare.
“È un rompiballe che ti ha affittato una stanza in nero”, replicò subito Osvaldo. “Questo lo sai bene, no?”
“Che c’entra questo? Mi ha fatto anche risparmiare un mucchio di soldi.”
Osvaldo fece un gesto stizzito con la mano.
“Sì, è così, Osvaldo”, gli dissi. “Perché non dovrei risparmiare dei soldi?”
“I proprietari di casa che affittano a dei poveri studenti come te sono i soliti frodatori che non si passano la mano sulla coscienza”, disse tornando serio in volto. “Scommetto pure che è comunista. Vecchio di un bastardo. Sfruttatore e comunista.”
“Non lo so se è comunista”, dissi stronfinandomi la punta del naso con l’indice. “Mi ha levato dall’affitto mensile 25 €… Per questo dico che non accetterà mai!”
“E allora digli le cose come stanno. Signor Preziosi così, così e così. Ho un fantasma in casa che mi impedisce di studiare.”
Mi fermai di nuovo nel momento in cui una forte folata di vento scompigliava i capelli ad entrambi. Mi strinsi nel cappotto e dedicai a Osvaldo un’occhiata grave. Anche lui mi guardò, sostenendo il mio sguardo per un tempo lunghissimo. Poi, fece una smorfia divertita, allargò le mani e disse: “Eh!”

# Dopo tre giorni ci fu di nuovo quell’atmosfera impregnata di un silenzio irreale. Questa volta ero deciso a non sollevare la testa dal libro di Procedura per nessun motivo. Forse ignorare sarebbe stata la soluzione migliore. Ricordo di non aver nemmeno provato la sensazione di paura delle prime volte. Nella penombra, di sottocchio, vidi quella orribile macchia opalescente stagliata contro il muro. Resistetti quanto più che potei, oh sì. Poi, quella cosa, attaccò con la solita lagna. Le guerre, la conversione, il Vangelo, gli uomini che avevano cambiato il Vangelo, il Vangelo che andava praticato alla lettera. Uomini, Vangelo e Conversione. Conversione, Vangelo e Uomini. Quando proprio non ce la feci più, innervosito dalla stanza rischiarata dalla Visione, mi misi ad urlare. Un urlo di gola, strozzato e irregolare. Mi sentivo come una nonna che sbraitava per le monellerie dei nipoti, la faccia arrossata e il collo estremamente teso. L’urlo durò una manciata di secondi. Molto probabilmente i vicini di casa l’avevano udito, ma chi se ne fregava! Se si fossero lamentati avrei gridato più forte e pure di fronte a loro. Che andassero al diavolo tutti! Volevo laurearmi e andarmene per sempre da quel posto!
Ma, non appena smisi di gridare, la cantilena della Vergine Maria attaccò di nuovo con la storia che dovevo convertirmi perché il mondo era sull’orlo della distruzione.
“E che si distrugga pure, questo sporco mondo!”, dissi ancora. “E poi quel secondo di silenzio spaventa da morire la gente, lo sai oppure no? Lo sai o no che ogni volta che appari, in strada, succede sempre qualche incidente?” Poi, preso dall’impeto della rabbia, afferrai il manuale di Procedura Civile e glielo scagliai contro. L’immagine s’interruppe per qualche frazione di secondo nel punto esatto in cui l’avevo colpita, per poi riprendere di nuovo solidità. “Vattene via, capito?”, urlai con dei rimasugli di fiato. “Vattene! Che qui tanto non attacca!”
L’immagine sparì. Mi stesi sul letto, avvampato e troppo nervoso ormai per fare qualunque cosa. Studiare, leggere, ascoltare musica o dormire. Per distendere i nervi, indossai il cappotto e le scarpe, e uscii di casa. Era sera inoltrata. Per le scale incontrai il proprietario di casa. Capitava proprio a proposito. “Che fa, Signor Petrella, esce a quest’ora?”
“E che cosa dovrei fare?” gli risposi con un’alzata di spalle.
“Dovrebbe approfittare del tempo che ha per studiare.”
“Con un fantasma in casa mi risulta un po’ difficile”, dissi in maniera sin troppo sibillina per quell’uomo.
Il proprietario mi guardò aggrottando le folte sopracciglia, e storcendo leggermente le labbra violacee. Dopo poco, mi chiese: “Prego?”
“Da più di una settimana il fantasma della Vergine Maria infesta la mia stanza”, cercai di spiegargli come meglio potevo.
Aggrottò in maniera ancora più grottesca le sopracciglia. “È drogato o qualcosa del genere?”
“Non sono drogato, Signor Preziosi. Sono lucidissimo.”
L’uomo mosse qualche passo sulle scale, poggiando la gamba destra qualche gradino più in basso. “Cos’è? Sta pagando il pegno per qualche gioco che ha perso?”, un sorriso gli illuminò sagacemente il volto. Ma tornò subito serio. “Si spieghi.”
“Gliel’ho detto.” Sbuffai nervosamente. “Vuole venire a vedere?”
Salimmo sino al secondo piano, aprii la porta dell’appartamento e gli indicai il punto preciso in cui quell’entità era apparsa.
“È un bel fantasma perlomeno?” chiese l’uomo mostrandomi ancora quella specie di sorriso illuminato che dava sui nervi. Gli avrei dato ben volentieri un cazzotto sul grugno, ma era il mio padrone di casa. Non credeva a una sola mia parola, era naturale. Del resto – a parte Osvaldo, ovviamente – chi ci avrebbe mai creduto? Quella dell’apparizione della Madonna era la classica storia da casalinghe frustrate che potevi leggere tranquillamente su qualche settimanale di gossip.
“Lei scherza, signor Preziosi”, dissi con tono alquanto deluso, “ma tenga conto che un fantasma è un fantasma.”
“Fino a prova contraria, chi scherza è lei. Si rende conto che mi sta chiedendo di credere al fatto che la Vergine Maria è apparsa proprio qui, dinnanzi al suo letto?” L’uomo spostò lo sguardo dalla parete alla mia faccia. Lo fece un paio di volte, mostrandomi un volto tirato e confuso. “Comunque, non capisco perché mi ha detto queste cose. Anche se fosse. Ammesso e non concesso che questa donna venga qui ogni giorno nella sua stanza, cosa c’entro io?”
Tirai un lungo sospiro di rassegnazione e puntai lo sguardo verso la parete proprio come se lì, sulla superficie imbiancata, potesse esservi una risposta. Dissi: “So che lei ha qualche stanza sfitta, magari mi ci potrei trasferire io, in attesa che…”
“Cosa? Vorrà scherzare, spero!”, sbottò lui senza farmi completare la frase; allargò le braccia e mosse qualche passo in direzione dell’uscio. “Le ho fatto già un grande favore ad un prezzo ridicolo… Non se ne parla nemmeno. No, no. Nulla.” Agitò le braccia più volte in segno di evidente sofferenza, come se invece di chiedergli quel piccolo favore avessi detto di essere intenzionato a incendiare tutto il palazzo.
“Facciamo così”, proposi senza perdere la speranza. “Lei mi affitta un’altra stanza. Ed io le pago il doppio della pigione. Che cosa ne dice?”
Lo spiazzai. Borbottò qualcosa che non riuscii ad afferrare. Mosse qualche altro passo e quando fu sulla soglia, fulminandomi con lo sguardo, aggiunse: “Vedremo, signor Petrella. Ci debbo pensare.” Chiuse la porta. Sentii i suoi passi pesanti allontanarsi in direzione della tromba delle scale.

# Trascorsi un anno buono nella nuova stanza che il signor Preziosi mi affittò in nero. Il tempo necessario per abituarmi all’ambiente. Non era migliore della vecchia camera – le pareti puzzavano leggermente di muffa – ma nemmeno troppo scomoda. Mi serviva semplicemente a tenere lontano lo spettro. Era disposta diversamente dal precedente alloggio. Era al terzo piano, aveva un consunto pavimento di marmo con decorazioni floreali e una finestra molto ampia che affacciava ad est. Nei giorni tiepidi e privi umidità, soprattutto in estate, in un piccolissimo angolo, molto distante, nel mezzo di alcuni palazzi, si poteva osservare una striscia di mare luccicante nel riverbero del sole. Più in lontananza, il promontorio a ridosso del golfo dava l’impressione di una grossa bestia addormentata e sul punto del risveglio quando qualche nave annunciava la propria entrata nel porto.
Elessi ad angolo studio la parete di fianco all’uscio; avevo studiato il modo di sfruttare la luce del giorno sino al tardo pomeriggio; in inverno, invece, ero costretto ad accendere la luce elettrica già dalle cinque meno un quarto. Non importava. Anche se pagavo il doppio. Stavo bene; avevo costruito una roccaforte contro visite sgradite.
Rammento ancora che, per la forte contentezza, non appena il signor Preziosi mi disse di sì, telefonai ad Osvaldo per dargli la buona notizia e ringraziarlo dello splendido consiglio. “Sei più sereno, ora?”, mi chiese per sottolineare, forse, il fatto che la sua era stata un’ottima idea. Naturalmente non feci parola in merito al canone raddoppiato. Sì, aveva ragione. Ero più sereno. Gli dissi: “Sì, grazie. Adesso va meglio.” Sicuro, era proprio un buon avvocato. Speravo di diventare come lui, un giorno. Chiese anche se mi trovassi bene nella nuova stanza e così ebbi l’occasione di raccontargli della finestra piena di sole e del pezzetto di mare in lontananza. Chiusi la comunicazione guardando soddisfatto il cellulare ancora per qualche secondo, poi mi distesi sul letto a pensare.
Dopo un bel po’, raccolsi il manuale di Procedura Civile, lo sfogliai in fretta cercando il punto in cui ero arrivato. Del titolo esecutivo e del precetto. Una bella gatta da pelare, che dire?!
Poi, poco prima che attaccassi a leggere ci fu quel silenzio profondo, irreale. Pesante e sin troppo riconoscibile. In strada, in lontananza, si udì uno schianto.
Alzai lo sguardo, carico di apprensione, e mi voltai in direzione della parete.

Author: Alfredo Perna

Alfredo Perna (Napoli, 1976) si è laureato in Giurisprudenza presso l’Università Federico II. Tra i suoi interessi: la letteratura, il cinema e l’arte. Dal 2012 collabora con gli Alieni Metropolitani, pubblicando racconti e recensioni.

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