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La Caduta – seconda parte

Sollevai le spalle e riflettei brevemente prima di rispondere: “Ero malato.” Con la mente andai ancora alla stanza d’ospedale. Riuscii a vedere con una chiarezza allucinante il vaso coi fiori sul davanzale della finestra, il piccolo monitor spento sospeso a una parete, le riviste spiegazzate sul comodino accanto al letto e l’andirivieni di persone al di là della porta. “Mi è stato diagnosticato un caso estremamente raro di tumore; l’angiosarcoma. Negli Stati Uniti ne sono colpite 200 persone. Questo è un dato dell’anno scorso. Una vera fortuna, vero?” Sorrisi e fissai di nuovo gli occhi su quella faccia allucinata circondata dal cappuccio di pelliccia bianca. “Quando uno soffre comincia a vedere le cose sotto un’ottica differente. Succede, sai? Quando uno si ammala. Le medicine è come se ti…”, agitai un indice all’altezza della tempia alla ricerca del termine più adatto. “È come se ti rischiarassero il cervello. Pensi meglio, molto più profondamente rispetto a come pensavi prima che le assumevi. In quel periodo di degenza ho letto un mucchio di libri di Allan Kardec. E, senza nemmeno volerlo, ho cominciato a credere nella spiritualità. È stato così che mi sono aiutato ad accettare la morte. È assurdo come mi sia lasciato ingannare così. Non mi sentivo più depresso, disperato o cose così. Perché, cominciando a fantasticare sulla esistenza di una vita oltre la morte, ho cominciato a credere in un cambiamento del tutto positivo. Il ciclo dell’esistenza di un individuo passava attraverso degli strati. Ogni strato corrispondeva a un livello; e, morendo, sarei stato trasportato automaticamente a un piano superiore. Ho immaginato cose così…”

“Tutte stronzate, amico”, sbottò l’uomo/cane ridendo in malo modo. “Stronzate! Eccolo il tuo piano superiore!” Allargò le braccia di pelliccia e gettò via, con un gesto di stizza, la sigaretta estremamente ridotta.

“Già, stronzate”, convenni tristemente. “Evidentemente mi sono ingannato da solo. Ad un livello più basso di questo non potevo capitare.”

Passarono diverse ore. Anche se il tempo era segnato da quell’orologio, non saprei computarle con precisione; perché non restammo sempre seduti e, a un certo punto, in quel mondo monocromatico la nozione del tempo finivi per perderla completamente. Ci spostammo in diverse direzioni. Più volte. Per stare lì soltanto da un paio di giorni, l’uomo/cane conosceva molto bene quel posto. Forse si orientava davvero col suo fiuto. Mi sarebbe piaciuto chiedergli quanto fosse vasto quell’ambiente, ma tenni per me quella considerazione, temendo uno dei suoi: Quindi, un po’ conversammo di cose inutili, un po’ ci fermammo, un po’ lui fumò, e un altro po’, dopo essere ritornati indietro, mi misi a osservarlo nel mentre trovava la posizione più comoda per acciambellarsi ai piedi del divano e schiacciare un pisolino. Mentre lui dormiva, levai lo sguardo all’orologio e mi lasciai di nuovo ipnotizzare dal pigro avanzare dei secondi.

Senza accorgermene, caddi addormentato.

Diverse ore dopo fui svegliato di soprassalto da un ritmico battere di stivali sul pavimento. Mi voltai con uno scatto in direzione di un piccolo esercito di uomini in uniforme blu che avanzava verso i divanetti. Uno dei militari svegliò l’uomo/cane con un calcio violento, facendolo guaire, e gli ordinò di alzarsi immediatamente e seguirli.

L’uomo/cane si passò più volte la lingua sul punto in cui era stato calciato prima di levarsi lentamente in piedi. Poi, un attimo dopo che due soldati lo prendessero per sotto le ascelle, si voltò a salutarmi con uno spassoso saluto militare: “Addio, uomo malato”, mi disse.

Non lo rividi più.

§§§

Il giorno dopo, entrò un uomo anziano con un’espressione sorpresa e spaventata. Continuava a guardarsi attorno quasi come avevo fatto io il giorno prima; mi chiese senza magniloquenza: “Che diavolo di posto è mai questo?”

In base ad una sorta di passaggio di consegne, lo guidai sino ai divanetti accanto all’orologio e lo misi al corrente di tutto ciò di cui ero a conoscenza: l’uomo/cane, un po’ delle mie vicende personali, e di quei soldati che a un certo punto penetravano nella stanza e ti portavano via. “Il prelevamento avviene ad intervalli di due giorni”, aggiunsi. L’uomo mi ascoltò senza battere ciglio. Sedeva sul divano in maniera rigida, come si trovasse nella sala d’attesa di un dentista. Con lui le ore trascorsero in modo inesorabilmente lento. Anche se, probabilmente, non era una cosa del tutto cattiva – in fondo, mica sapevo cosa mi sarebbe toccato dall’altra parte? Era un vecchio sui settantacinque anni. Ottanta, forse. Pallido, con una leggera peluria bianca sul mento e sul collo, e ostinatamente taciturno. Continuava a voltare quella faccia scavata a destra e a sinistra, avanti e indietro, come se temesse da un momento all’altro qualcuno giungergli alle spalle per un agguato. Quando volevo udire qualcosa da lui, dovevo letteralmente strappargli le parole da bocca. E anche quando gli ponevo delle domande, si mostrava restio. Si limitava a un sì, a un no o a qualche mugugno incomprensibile.

Perciò, osservare il lento avanzare della lancetta dei secondi divenne il mio unico diversivo. E, quando mi stancavo di contare il tempo trascorso, chiudevo gli occhi e concentravo i pensieri sugli ultimi miei istanti di vita sulla Terra, senza ricavarne grossi risultati.

Poi, pure i miei due giorni trascorsero.

Me ne resi conto nel preciso attimo in cui incominciai a udire l’imperterrito marciare di stivali sul pavimento. Quella volta, il ritmico avanzare, mi rimandò alla mente un grosso cuore rosso che pompava sangue nelle arterie. TU-TU-TU-TU: sembrava dire quel suono, indicandomi inesorabile la mia fine più prossima.

Erano uomini diversi dalla volta scorsa. In testa al piccolo raggruppamento, un uomo sottile, con sottili baffetti neri sopra il labbro tirato – e un volto talmente ceruleo da suggerirmi l’idea comica di un nutrimento fatto esclusivamente di candele – avanzava impettito nella sua linda uniforme blu, agitando a mezz’aria un indice malaticcio come se stesse dirigendo un’orchestra e non un nugolo di militari.

Era una specie di Gerarca.

Non sapevo come altrimenti inquadrarlo.

Quel volto sottile incuteva riverenza; nello stesso tempo duro e vagamente impacciato, come se l’uomo fosse sul punto di esprimere un concetto troppo difficile da comprendere. Si fermò a pochi passi da me, e mi squadrò cinicamente con occhi profondi come due pozzi neri, indicandomi con la bacchetta di carne ritorta a uncino prima di levarla più volte in alto. “Si alzi in piedi”, disse.

Così mi alzai. Le gambe mi tremarono delicatamente come un dolce fatto di gelatina. Guardai con la coda dell’occhio l’uomo taciturno come a cercare uno sguardo di conforto, ma ora appariva più ermetico del solito. Teneva la testa abbassata. Poi, il capo milizia sottile, fece un rapido gesto, sempre con il dito e subito due miliziani mi presero per sotto le ascelle e mi condussero via. Se il vecchio avesse anche solo sollevato lo sguardo per un secondo, l’avrei salutato con uno spassoso saluto militare e gli avrei detto: “Addio, vecchio.” Oppure avrei usato un tono più serio e gli avrei augurato semplicemente: “Buona fortuna.”

Ma il vecchio continuò a ignorare tutta la scena e così io non potei dire niente.

Nemmeno lui rividi mai più.

Col gruppo militare attraversai diverse altre stanze di un bianco ancora più monotono. Ne ignoravo l’esistenza, semplicemente perché con l’uomo/cane non avevo potuto spingermi sin lì. L’asetticità dell’ambiente mi trasmetteva un senso di oppressione sempre più crescente. Era un continuo balzare da un brutto sogno a un incubo. Non saprei spiegarlo in diverso modo. Venni trascinato per tutto il tragitto. Ad un certo punto girai la testa e chiesi a un soldato, con tono supplichevole, dove mi stessero portando e cosa mi sarei dovuto aspettare, ma quello m’ignorò così come si potrebbe ignorare una fievole voce udita a notevole distanza. Così, dopo un po’, non contenendomi più, mi misi a scalciare e a urlare come un forsennato. “Lasciatemi!”, gridai. “Lasciatemi andare!” Ma il risultato fu che il Gerarca ordinasse di tapparmi la bocca con una ball gag.

Comunque, ben presto, quel viaggio assurdo giunse alla fine non appena penetrammo in una specie di caverna ampia, fredda, zeppa di rocce fratturate da millenni di crioclastismo. Diverse lanterne cieche, poste in diversi punti, irradiavano una calda e riposante luce giallognola. Il Gerarca urlò un ordine e i militari mi lasciarono cadere al suolo all’istante; ne approfittai per accasciarmi, liberarmi del bavaglio e massaggiarmi le braccia indolenzite, nel mentre a passo di marcia il raggruppamento, sempre al seguito del Gerarca, si allontanava verso il punto da dove eravamo arrivati.

Passarono pochi minuti, cinque o sei, e dal lato meno illuminato penetrarono alcune figure, molto silenziosamente; tant’è che mi accorsi di loro soltanto per il frenetico spostamento di oblunghe macchie nere sopra una delle pareti.

Sembrarono figure articolate di un teatro d’ombre.

Una voce diafana, alterata da una leggera eco, disse: “Si avvicini al Banco del Giudizio.”

Mi guardai attorno, quindi ridussi gli occhi a due fessure nel tentativo di capire chi avesse parlato, ma era difficile scorgere qualcuno. Chiesi: “Dov’è il Banco del Giudizio?”

“Si avvicini, si avvicini alle voci, prego”, disse un’altra voce.

Timoroso, mi avvicinai lentamente. Chiesi: “Ma dove sono?” Speravo che nella mia domanda non trapelasse un tono malfermo, di chi ha quasi perduto ogni speranza.

Come a fare da eco alla voce precedente, una nuova voce continuò a ripetere: “Si avvicini. Lei. Si avvicini di più alle nostre voci.”

Quando fui proprio a una manciata di metri, scorsi per la prima volta un banco di legno scuro, altissimo, sopra cui piccole, scure e sottili sagome erano appena visibili. Mi immaginai, per un attimo, lì in basso, ai loro occhi, non più grosso di una action figure. Ero proprio sul punto di ripetere la domanda, ma l’ultima voce che aveva parlato disse ancora: “Lei. Sì, lei. È morto tre giorni fa nella sua stanza di ospedale.” Si concesse una breve pausa lasciando aleggiare il suono come un fantasma per tutta la pancia della caverna. Aggiunse: “Lei era malato. Malato di Angiosarcoma.”

“Ma… ma come fate a sapere queste cose?”, chiesi senza più riuscire a dissimulare la mia apprensione.

Ignorando la domanda, quella voce specificò: “E… prima di allora, lei, è stato un ricercatore.”

“Sì, certo.” Mi illuminai all’improvviso come una lampadina. “Sono stato un ricercatore.” Quella considerazione mi portò velocemente alla memoria un’altra piccola porzione del mio passato che credevo di aver scordato per sempre. “Ma chi ve l’ha detto? È stato l’uomo/cane, non è vero?”

“Non è stato l’uomo/cane, Signor Carlson. Noi sappiamo tutto di lei: vita, morte e miracoli.” Era di nuovo la prima voce che avevo udito. “Sappiamo che ha vissuto per dieci anni a New York e che è nato nello Stato del Wisconsin. A dieci anni ha trovato sotto un pergolato un gatto di colore grigio a cui sua sorella Rachel ha dato il nome di Moon. Convinto?”

Gesù Cristo, pensai provando un brivido lungo la schiena. Quegli esseri sapevano tanto di me, quanto io ignoravo di loro. Per quanto continuassi ad aguzzare gli occhi, ad abbassare e alzare la testa, non mi era possibile capire a chi appartenessero quelle voci. Scorgevo solo delle macchie confuse, osmoticamente relegate dietro quell’alto bancone di legno. La stessa voce continuò a dire: “E sappiamo pure delle sue ricerche, Signor Carlson. Le ultime che ha fatto. Nel suo ultimo periodo di ricovero…”

“Ricerche”, commentai pensieroso a mezza bocca. “Il culto dei morti in Egitto?”

“Acqua, Signor Carlson”, mi ammonì la voce. “O non dovrei definirle ricerche. Forse il nome più adatto è considerazioni. Ecco. Le sue considerazioni fatte in ospedale quando era sotto l’effetto dei sedativi…”

“Ma chi diavolo siete voi? Esigo una spiegazione!” Tornai a stizzirmi. E urlai ancora più forte: “Fatemi uscire di qui, voglio andarmene. Avete capito?”

“Si calmi, prego.” Anche la seconda voce tornò a farsi sentire. Più pacifica e diafana di prima. Mi diede come l’impressione di uno spettro sul punto di scomparire. “Non può andare da nessuna parte prima del suo Giudizio Finale.”

“Fatemi uscire, vi scongiuro.”

“Lei sarà giudicato da questo Tribunale Estremo per Eresia!”

“Eresia?” riuscii a malapena a mormorare. “Eresia…”

“Esatto. Lei ha espresso, qualche giorno addietro, comodamente seduto sul divano, la sua convinzione di finire, una volta morto, in un livello superiore”, spiegò la terza voce. “Invece, capitando qui, nell’Altra Parte, si è accorto che ad un livello più basso di questo non poteva capitare. Sono parole sue, lo vuole forse rinnegare?”

Non lo negavo, ma mi sentivo profondamente ingannato per aver espresso soltanto il giorno precedente considerazioni che credevo del tutto personali.

“Siccome non ha apprezzato il destino che le è stato riservato, la puniremo nel peggior modo possibile, dimostrandole che è possibile andare ad un livello più basso di questo”, dissero le tre voci unendosi in un suono distorto, quasi coitale, incorniciato in vaghi echi remoti. Aggiunsero, come chiosa: “Questo Tribunale la condanna alla eterna dannazione di cadere all’infinito!”

Non appena le ombre finirono di sentenziare, l’ampia caverna s’illuminò improvvisamente rivelandomi l’immagine dei tre Giudicanti. Fu la cosa più obbrobriosa che occhi umani potessero mai vedere.

Le loro facce erano teschi, i loro corpi scheletri.

Sentii di nuovo marciare i miliziani; mi presero per le ascelle e mi portarono via fino a una porta in ferro battuto dove attendeva un’altra milizia. Ci fu un rapido passaggio di consegne. La seconda milizia mi introdusse all’interno della porta, prima di richiuderla violentemente. All’interno vi trovai un folto capannello di uomini, immobili nelle posizioni più assurde; sembravano improbabili ballerini incapaci di fare anche il più elementare dei passi di danza; probabilmente, quelle persone di cui mi aveva parlato l’uomo/cane, il mio primo giorno. Mi squadrarono tutti, con occhi arrossati traboccanti rabbia, preoccupazione e infinita stanchezza. Ero proprio sul punto di chiedere: “Cosa ci facciamo qui dentro?”, quando uno di essi, senza spostarsi di un millimetro, deformando al massimo la faccia, si mise a gridare: “Non muoverti di lì! Capito? Non muoverti! Hai beccato un punto stabile!”

“Punto stabile?” chiesi e compii il primo e ultimo gesto inconsulto in quel posto diabolico: mi mossi di un tanto in avanti e gridando fui condannato a cadere per sempre.

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Author: Alfredo Perna

Alfredo Perna (Napoli, 1976) si è laureato in Giurisprudenza presso l’Università Federico II. Tra i suoi interessi: la letteratura, il cinema e l’arte. Dal 2012 collabora con gli Alieni Metropolitani, pubblicando racconti e recensioni.

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