Era davvero molto curioso come avessi potuto imparare la lezione in un letto d’ospedale a New York mentre avrei dovuto essere in Egitto a fare ricerche sul modo in cui quell’antico popolo traghettava le anime nel mondo dei morti. Le terapie mediche e il mio basso profilo mentale lasciarono, quasi impercettibilmente, insinuare tra di loro una lunga serie di riflessioni, spunti, e intuizioni in questo momento sin troppo evidenti.
Mi domando spesso, come ho fatto a non pensarci prima.
Le prime persone che incontrai dall’Altra Parte appartenevano a una milizia armata messa di guardia a una porta in ferro battuto. Uno degli uomini, con la testa scavata e rinsecchita, che sembrava come cotta in un forno a fuoco lento, mi tastò addosso per controllare se fossi pulito e con voce dura mi ordinò: “Entra!”
Fui preso per un braccio e sbattuto all’interno; mi ritrovai in una stanza vuota. Non c’erano porte, né finestre; soltanto pareti bianche, rese eccessivamente spoglie, fredde e lattiginose da decine e decine di piccoli forellini al centro del soffitto. L’intera atmosfera trasmetteva angoscia. Continuai a guardami attorno, ma soltanto dopo un po’ (sembrerà incredibile) misi a fuoco, nell’angolo più distante da dove mi ero fermato, un cane antropomorfo di taglia media, completamente bianco e un collare rosso. Mossi qualche passo nella sua direzione, incominciando a ripetere come uno stupido: “Scusi, lei chi è?”, nel momento in cui mi sembrò abbastanza evidente che non si trattava affatto di un cane, ma di un uomo con un bizzarro costume di carnevale.
L’uomo/cane tirò fuori una lingua eccessivamente rosa e cominciò a leccarsi le labbra, come avrebbe fatto una bestia autentica se avesse avuto fame. Poi, dopo essersi accucciato per bene, mi rivolse uno sguardo pietoso, sostenuto e carico di nostalgia, e proprio come se glielo avessi chiesto, iniziò a narrarmi di come era finito anche lui in quel posto: “Non mi sono mai accorto di quanto ero stato fortunato fino al giorno in cui la porta d’ingresso non fu lasciata incautamente aperta. Fu Daniel, il figlio minore di Jakob, il mio amorevole padrone, a non chiuderla a dovere; e io, come uno stupido, subito mi precipitai di fuori. Assaporare il gusto della libertà, è una bella sensazione, soprattutto quando uno non ha mai saputo veramente cos’è… All’inizio senti attorno al palato un sapore molto intenso, sai. È come quando fumi per la prima volta una sigaretta. Il gusto è acre e profondo, ti avvolge i sensi, facendoti perdere la rotta, mentre osservando la punta fumante ti domandi: – Ma dov’eri stata sino a oggi?” Si concesse una breve pausa, ricominciandosi a leccare le labbra, e cambiando un paio di volte posizione; poi, si levò sulle gambe/zampe e, dondolando la testa, mi fece segno di seguirlo.
Senza di lui, sarebbe stato molto ostico spostarsi nella stanza. Era smisuratamente vasta, più di quanto mi era apparsa in un primo tempo, e come ho già detto, tranne che per l’uscio, non c’erano punti di riferimento verso cui muoversi. Però, l’uomo/cane diede dimostrazione di spostarsi senza troppa difficoltà. Attraversammo, se non sbaglio, diversi altri ambienti dello stesso bianco uniforme e angoscioso, separati gli uni dagli altri da archetti quasi del tutto impercettibili, e illuminati a giorno da piccoli forellini in diversi punti del soffitto.
In breve, giungemmo in un punto in cui due divanetti in pelle rosa giacevano accanto a un’asta di acciaio sui cui era sospeso un grosso orologio analogico. Il ticchettio monocorde della lancetta dei secondi era come se tentasse inutilmente di affettare lo spazio vuoto attorno a noi. Rapito, lo fissai per una manciata di secondi; poi, l’uomo/cane fece un gesto per dire di accomodarmi. Lui, invece, si accucciò per terra come un animale domestico addestrato. Si scavò con la testa nella folta pelliccia sintetica e tirò fuori tra i denti un pacchetto di Winston Blu; mi chiese se mi andava di fumare. Risposi di no. Quindi, lasciò cadere il pacchetto per terra, e sempre con la bocca, lo aprì e tirò fuori una sigaretta. Lasciò cadere per terra pure la sigaretta. Impiegò le stesse mosse per tirare fuori dalla pelliccia il pacchetto di cerini. Vederne accendere uno fu uno spettacolo conturbante: ne strinse uno tra i denti, lo strofinò velocemente sulla striscia impregnata di miscela solforica, attese che prendesse fuoco per bene, lo sistemò a terra e accese finalmente la sigaretta, aspirando a pieni polmoni. Stavo per chiedergli perché perdesse tutto quel tempo dal momento che aveva le mani, ma lui aspirò ancora e riprese a raccontare: “Fuori c’era una mattinata tiepida; la tipica giornata primaverile. Provai una sensazione strana; avvertii una specie di dolore proprio qui, all’altezza dello sterno. Sai quando hai fatto una lunga corsa, stancante e tutta in salita, e dopo sei così sfiancato che pensi di dover morire? Ebbene, mi sentivo esattamente così. Solo che quel giorno non avevo corso.” Si abbandonò a una nuova pausa. Trasse alcune lunghe boccate dalla sigaretta, stringendola tra i denti e senza mai staccarsela dalle labbra. “La cosa più triste è stato quando mi sono sorpreso a chiedermi: – Bene, e ora Caro Vecchio Chaplin (il mio nome è Chaplin, come l’attore) cosa hai pensato di fare? Ero finalmente libero, e non sapevo come impiegare il mio tempo. Mi recai alla Bahnhof della Friedrichstrasse. Feci un enorme sforzo fisico per ricordarmi tutto il percorso da casa, ma tenevo serbati ancora per bene tutti gli odori sotto il tartufo. Era lì che Jakob mi incontrò la prima volta. Avevo vissuto per mesi e mesi di espedienti, chiedendo l’elemosina ai semafori e racimolando cibo dai bidoni della spazzatura. In breve, feci la stessa fine della volta precedente.” Sputò via la sigaretta, lasciandola rotolare sin sotto il divano su cui ero seduto; alcune timide volute di fumo uscirono fuori sin quando la sigaretta non si spense del tutto. “Forse, tu, ti starai domandando perché non abbia tentato, perlomeno, di ritornare indietro. In fondo, nessuno mi aveva cacciato di casa e forse, proprio in quel momento, mi stavano cercando per i dintorni del quartiere… Ma il fatto è che tra una vita comoda e senza alcuna libertà e una vita completamente libera, in fondo preferivo quest’ultima. Senza alcun dubbio. Comunque, non durò molto. Non ti nascondo che, soprattutto di sera, quando faceva molto freddo, ogni volta che vedevo fermarsi una macchina accanto al ponte della stazione, mi levavo con uno scatto sulle zampe e sperando che fosse Jakob mi dirigevo immediatamente verso quel punto; ma, non era mai lui. Evidentemente si erano già scordati di me. Come ti dicevo, non durò a lungo. A furia di avvicinarmi alle autovetture e controllare se fosse Jakob, sono stato investito e… ora, da più di due giorni, eccomi qua.”
La mia attenzione era costantemente assorbita dal muoversi ipnotico delle lancette dell’orologio. Quel FLAP.FLAP.FLAP. mi rimandava alla memoria, incomprensibilmente, un rumore di pioggia su un panno di feltro; continuai a girare la testa a destra e a manca senza capirci un’acca, e nemmeno feci caso al momento preciso in cui l’uomo/cane aveva concluso il suo monologo. Così, quando fui proprio sicuro di poter parlare a mia volta, colsi l’occasione di domandargli: “Ma che posto è questo?”
L’uomo/cane soppesò l’assenza di enfasi nella mia richiesta; sollevò le spalle impellicciate, creando per una manciata di secondi una bizzarra spiegazzatura nel manto bianco, come un’onda spumosa sul punto di ritrarsi, e si mise a obiettare: “Oh, bella amico. Oh, bella… Sto ancora cercando di capirlo ‘sto fatto. Viene lui e mi chiede che posto è questo… Non lo so che posto è questo, amico!”
“M-mhm…”, mugugnai pensieroso. Mi drizzai e curvai in avanti diverse volte come per concentrare meglio i miei pensieri, ma quelli andavano in ogni direzione senza lasciarsi prendere. “E questo luogo non ti fa paura?”
“No”, disse lui. “Sono un cane.”
“M-mhm…”, tornai a rimuginare. “E ora? Cosa pensi che dovremmo fare?”
“Io non penso”, disse con un tono alterato che mi diede sui nervi. “Sono un cane.”
“Ho capito che sei un cane”, ribadii. “Ma a me non va l’idea di starmene chiuso qui dentro per due giorni come è successo a te.”
“Eppure sarà l’unica cosa che potrai fare.”
“Sarà…”
“Il fatto è che non ti ho raccontato proprio tutto”, disse. “Ho saltato un pezzo del racconto. Delle volte, mi lascio prendere dall’enfasi e mi dimentico delle cose.”
“Sarà che sei un cane”, dissi aspramente, ma lui non afferrò il mio cinismo.
Raccontò che quando era giunto in quella stanza, due giorni prima, aveva trovato un uomo che gli raccontò a sua volta che stava lì già da due giorni e quando era giunto per la prima volta in quella stanza aveva trovato un altro uomo che gli aveva raccontato a sua volta che stava lì già da due giorni, e così via.
“Quindi, mi stai dicendo che”, dissi interrompendolo con veemenza “che altra gente è passata per questo posto prima di noi?”
L’uomo/cane allestì un nuovo teatrino per accendersi un’altra sigaretta. Dopo aver aspirato un paio di volte affermò: “Te lo stavo dicendo.”
Tornai a riflettere, guardandolo trafficare come un forsennato. “Bene. Se così stanno i fatti”, conclusi ad un certo punto. “Dove sono adesso tutte queste persone?”
L’uomo/cane mi fissò come se non avesse inteso la domanda. Si distese sul pavimento e incominciò a grattarsi estrosamente un ginocchio con un piede. Era inconcepibile il fatto che si comportasse come non potesse mai usare le mani. Quando si rialzò mi disse: “Tutti gli altri non lo so. Ma l’uomo che ho incontrato io è andato via di qui due giorni fa. Sono venuti altri uomini. Armati fino ai denti. Come quelli di guardia qui fuori. Sono arrivati da lì.” Mi voltai a guardare più o meno nel punto dello spazio bianco in cui indicò con la zampa, ma valeva quanto una direzione qualunque. “L’hanno prelevato con la forza e l’hanno portato in un’altra stanza.”
Tornai a fissare quello strano essere, accucciato come un animale, mentre andava avanti ad aspirare la sigaretta. L’intera faccenda era troppo bizzarra, ridicolamente assurda. Per quanti sforzi di sinapsi compissi, continuava a rimbalzarmi in mente soltanto la mia stanza d’ospedale e il volto limpido del Dottor Portman, con una mano affondata nel camice bianco, mentre mi portava la bella notizia che sarei uscito al più presto dall’ospedale. Forse non era nemmeno una bella notizia. Perché disse: “Al più presto, la farò dimettere. È inutile che resta qui dal momento che il Sarxatin lo può assumere anche a casa sua.”
Prima di quel momento o dopo, non rammentavo nulla.
Buio pesto.
Come se fosse riuscito a leggermi nel pensiero l’uomo/cane ad un certo punto chiese:
“Come sei finito qui, amico?”
continua…