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IL MANICOMIO È UNA GRANDE CASSA

Non ci ho messo molto a decidere di prendere la scatola intera di antidepressivi.

Inutile dire che solitamente ci metto una vita e mezza a prendere qualsiasi decisione ma questa volta i miei pensieri erano totalmente lucidi nella loro confusione.

La confusione mi affascina, la inseguo persino quando sono consapevole dell’impossibilità di gestirla al meglio.

Tengo sotto controllo gastriti e malumori eppure annaspo nell’oceano della confusione; rimango sulla sottile linea di confine che esiste tra l’affogare e il rimanere a galla. Fiato corto e i pensieri che si azzerano in un frullatore di caos calmo.

L’iter è uguale per tutti: si arriva al Pronto Soccorso e si viene portati direttamente in Psichiatria. Sulla scheda riesci a leggerlo nitidamente: tentato suicidio.

Dirlo mi fa venire i brividi, ripeterlo mi eccita.

Forse finalmente capiranno che sto male, forse finalmente smetteranno di credere che sia tutto un noioso gioco di attenzioni. Probabilmente ho fatto la più grande cazzata della mia vita.

Io il reparto di Psichiatria non lo auguro a nessuno o, forse, a tutti quanti.

Per prima cosa ti portano in una stanza senza finestre dove ti spogliano per poi privarti di cinture, orologi, anelli, bracciali, stringhe delle scarpe. Ti senti colpevole eppure non riesci a reagire, ti senti sporco eppure nemmeno hai la forza di vedere le macchie sudicie della paura mista al tuo sudore.

Quando ti accompagnano nella tua stanzasenzanulla, scoppi a piangere o, nella remota possibilità di riuscire a trattenere le lacrime, piangi il doppio. Col passare del tempo quell’assenza di oggetti, di spigoli e colori diventa familiare; ti trovi in un ambiente senza pretese e l’essere pervaso dalla sensazione che tutto sia una merda, ti aiuta a non sentirti in colpa nella tua infelicità cronicizzata.

I corridoi puzzano di dolore e gli infermieri sono esausti, hanno smesso di sorridere forzatamente ma, paradossalmente, tutto questo rallenta l’affanno del vivere di chiunque si trovi in questo dipartimento della follia.

Quando Camilla viene a trovarmi sono sempre schifosamente imbarazzato, mi vergogno di questo luogo, dei miei compagni di reparto, di me stesso. C’è qualcosa di godurioso però nascosto dietro a questo imbarazzo; io sono felice che C. veda il degrado di questo posto, la pazzia senza freni, senza una società contenitiva capace di filtrarla, che sperimenti l’emarginazione elevata al cubo. Felice che ne esca piena di angoscia, senza alcuna voglia di tornare. Le è difficile nascondere il sospiro di sollievo quando vede che manca poco alla fine dell’orario visite.

Io lo so che Camilla si fa una doccia ogni volta che torna a casa dall’ospedale. Io lo so che Camilla è lontana anni luce da me e dalla mia malattia.

Tu non sei cosi”.

A lei piace credere che non sia così matto da meritarmi questo reparto.

Le persone che vengono a trovarmi sanno dire solo questo.

Io, invece, sono solo convinto che la fragilità sia semplice assenza di menzogna o, l’esasperazione di chi non è più in grado di ritrovarsi nella verità.

Camilla si spaventa quando le parlo del nulla che mi trascina sempre più a fondo. Mi dice di smetterla, di guardare tutte le cose belle che ho.

Probabilmente se stessi bene la lascerei, ma in questa situazione sento il bisogno di avere qualcuno vicino. Qualcuno che mi dica quelle cose ovvie che lei mi ripete tutti i giorni, qualcuno che mi venga a trovare sempre, nonostante tutto. Qualcuno a cui dare silenziosamente la colpa.

La sua ovvietà mi testimonia quanto in realtà non mi stia perdendo nulla là fuori, che non è poi cosi male stare qui, pasteggiando con la pazzia.

Mia madre nonostante sia passato ormai quasi un mese non riesce ancora a chiamarlo tentativo di suicidio, lei dice: “quando hai fatto quella cosa” o, nella migliore delle ipotesi quando hai esagerato con le pastiglie.

Mia madre passa le giornate leggendo libri di psicologia spiccia, barcamenandosi tra terapie di gruppo e sedute dallo psicologo, cercando di capire dove hanno sbagliato lei e mio padre. Vorrei tanto che la smettesse, vorrei uscire da questo torpore e dire: “tutto ok gente torno a fingere come prima” solo che, questa volta, non ho le forze per farlo.

Ci sono mattine in cui mi sveglio e un’ansia dirompente mi impedisce di respirare, boccheggio come un asmatico affamato d’aria e mi sembra di non avere nemmeno una via d’uscita. Giornate lunghe e allo stesso tempo cortissime dove il cielo è un coperchio d’angoscia che rende impossibile ogni movimento.

Mi sento sempre più pesante persino in questa continua perdita di chili.

Saranno le medicine? Sarà questo posto? Sarà la mia vita?

Oggi in reparto è entrata una ragazza con un cappotto arancione.

Ho pensato che avrei voluto portarla a prendere un gelato, anche se fuori nevica.

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Author: Ilaria Bonfanti

"Dammi del caffè (molto) nero bollente, una zucca da mettere nel forno e una bic nera senza gel, senza cappuccio e senza troppi fronzoli e ti assicuro che siamo già sulla buona strada. Aggiungici i miei ventisette anni e una vita divisa tra Bergamo e Rio de Janeiro, vita che mi ha resa una polentona con il sorriso carioca. Vanno a completare il quadro un giradischi che non smette mai di suonare musica, quella stessa musica rubata ai vari mercatini di antiquariato e, una montagna di libri. Libri che stanno nella testa, nei ricordi, nelle intenzioni e in giro per tutta la casa. Colleziono Baroni rampanti nelle diverse lingue, adoro andare al mare in bicicletta, stare in silenzio in autunno e rubare l'uvetta dalle fette di panettone. Non sopporto le colazioni fatte di fretta, le persone arroganti e il mese di novembre. Questa sono io e, con un po' di fortuna, ci capiterà di scontrarci in una libreria in giro per il mondo."

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