Pubblichiamo un saggio eccentrico, originale e contro corrente scritto e proposto da Antonio Tedesco. Buona Lettura.
In un reticolo spesso inestricabile di intrecci e connessioni, ci pare interessante riflettere sui principi del buddismo e sull’ipotesi che ogni artista, nell’atto di praticare la sua arte, è un Budda. Trasforma, cioè, in opera un’illuminazione che gli viene dal profondo, segue un istinto che quasi mai può essere ridotto semplicemente alla sfera della sola elaborazione razionale. L’arte, dunque, in tutte le sue manifestazioni è uno strumento privilegiato per far riemergere la luce (o buddità) che ogni uomo e ogni essere vivente, potenzialmente possiede.
In questo senso possiamo azzardare l’affermazione che anche Joyce (probabilmente a sua stessa insaputa) fosse buddista. In quanto il suo percorso di scrittura segue un filo coerente che lo porta a scavare sempre più a fondo in un lavoro creativo che si conclude quasi con una rivelazione (o illuminazione, appunto).
La struttura delle sue opere, tutte, ma in particolare l’Ulisse e il Finnegans Wake, sono percorsi che racchiudono l’esperienza universale. Il “romanzo di un giorno” il primo (un “giorno”, quello di Leopold Bloom, il 16 giugno 1904 a Dublino, che comprende la parabola del mondo e dell’umanità – un percorso dal buio alla luce e viceversa). Un libro “sapienziale” il secondo, “Il risveglio di Finnegan”, dove come in uno stato di semincoscienza i fatti, come il linguaggio e il senso che li esprimono, si fondono in un flusso che trascende il significato delle parole per farsi suono, musica, ritmo, pura vibrazione, che si ricompone, terminando là dove era iniziato, dopo circa 700 pagine, in un percorso circolare che si ripete potenzialmente all’infinito. Un libro che va oltre la letteratura (incongruamente ci si interroga sulla sua leggibilità), che attraversa e coinvolge la fisica dei buchi neri (è un buco nero, infatti, che tutto assorbe, risucchia e centrifuga, rinnovando e riassorbendo ancora, in un ciclo infinito di pura forma e della sua sublime e decisiva negazione: il vuoto – inteso anche questo nel senso della filosofia buddista come uno spazio indefinito, privo di valenze positive o negative e proprio per questo carico di infinite potenzialità, espresso in un ideogramma che possiamo leggere con il suono MU) ma che investe anche la musica dodecafonica e l’esperienza umana in generale vista come vertigine inesprimibile, se non attraverso una negazione dell’espressione stessa, almeno come viene concepita nella sua idea corrente di “comunicazione”.
Un libro che supera la storia della letteratura, che può confrontarsi solo con i grandi testi delle tradizioni mistiche e sapienziali: la Bibbia, il Corano, la Thora, la Cabala, il Sutra del Loto ecc.
Finnegans Wake rappresenta il punto d’arrivo, il massimo compimento di un percorso che si è andato delineando già dalle opere precedenti, le poesie, i racconti (Gente di Dublino racchiuso tra due storie che parlano del vuoto, ancora, come perdita della vita, vertigine incolmabile che si apre nell’animo umano: il primo, Sorelle, impregnato di una sacralità quasi rituale, l’ultimo I morti, più che di dolore, colmo di una profonda e struggente nostalgia per qualcosa di indicibile e di irrimediabilmente perduto).
E passando per il Ritratto dell’artista da giovane, quasi un rito di “passaggio”, appunto, versione tutta joyciana del romanzo di formazione, piattaforma che proietta l’autore verso le opere della maturità.
A cominciare proprio dall’Ulisse, che conserva ancora, seppur con qualche fatica per i parametri di una letteratura ortodossa, le tracce del “senso compiuto” e di una certa, non scorrevolissima, leggibilità, ma dove già ci troviamo a spaziare in un territorio di sconfinata universalità.
Finnegans Wake è un approdo che rompe ogni argine, un flusso che travolge e trascina la nostra vita stessa. Ancora non ne siamo consapevoli, avendolo valutato con strumenti molto limitati, ma si tratta di un’opera che si riproporrà, in un futuro forse anche lontano, come “testo sacro”.
I suoi significati si stratificheranno innumerevoli. I suoi testi interpretativi, i “commentari”, si moltiplicheranno per guidarci sulla sua strada.
Joyce – la sua opera – può definirsi in questo senso come “visione illuminata”, una manifestazione compiuta del Budda che vive in ogni uomo. Frutto di un percorso di avvicinamento progressivo, come una sorta di “crescendo” che è andato sviluppandosi di testo in testo.
Non sappiamo se sia troppo azzardato dire che Orson Welles sta al cinema come Joyce sta alla letteratura, però è certo che rivedere alla luce delle precedenti riflessioni un film come Quarto potere, del 1941, momento di svolta epocale nella storia del cinema, certi accostamenti e certi riferimenti, pur con le dovute differenze di linguaggi e contesti, si direbbero giustificati.
Anche qui, per tacere di tutto il resto (la rivoluzionaria frammentazione del linguaggio filmico, la molteplicità dei punti di vista attraverso i quali viene raccontata la storia, l’uso della cinepresa che si muove come fosse l’occhio stesso dell’autore) si apre una parabola che sembra contenere una specie di “storia esemplare” dell’umanità.
La vicenda è quella di Kane che, da un’infanzia difficile giunge ad una sorta di grandezza assoluta, fatta di ricchezza e di potere, ma al momento della morte nominerà qualcosa che nessuno capirà, né riuscirà a capire chi si cimenta in approfondite indagini, e che scopriamo, alla fine, essere uno slittino, un giocattolo, un ricordo di quando era bambino, un simbolo dell’infanzia perduta, della purezza infranta: la consapevolezza estrema che ciò che può considerarsi una vita di successo è stata in realtà un percorso di perdita di quel momento di assoluta innocenza, di totale sintonia con l’universo. Qualcosa di indicibile, come per I morti di Joyce. Ma anche un ricongiungimento, una chiusura circolare e, forse, un ricominciare, come in Finnegans Wake, in un ciclo continuo in cui il perdersi e il ritrovarsi sono momenti complementari di quell’eterno percorso di purificazione che, come la dottrina buddista insegna, impegna ogni essere per un numero progressivo, e potenzialmente infinito, di vite.
Così come ha fatto Joyce, che ha trascinato la scrittura fino ad un punto estremo di fusione, una sorta di Big Bang da cui, poi, tutto ricomincia da capo, così Welles ha tracciato un percorso che, pur riferito all’esperienza di un singolo individuo, racchiude in sé quello dell’intera umanità. La storia di una conquista che si rivela alla fine essere semplicemente il frutto di una perdita.
Il vuoto come paradigma del pieno. Il silenzio come significato ultimo e definitivo. Nel modo in cui viene espresso anche nei libri di Enrique Vila-Matas (Il dottor Pasavento, Bartleby e compagnia, in special modo) che parlano della scrittura e della sua negazione, della ricerca di un vuoto “pieno” di senso, perseguito dai suoi scrittori-personaggi, che fuggono da sé stessi e dalla propria arte, quanto più la ricercano e la amano.
Uno per tutti, Robert Walser, che, a un certo punto della sua vita, rappresentò la necessità di esprimere quello stesso silenzio ritirandosi dal mondo e scrivendo solo testi brevi in una grafia minuscola, quasi indecifrabile. Come fosse l’inconsapevole incarnazione di quell’altro grande artista del “vuoto” vagheggiato e celebrato da Kafka nel suo ultimo straordinario racconto, Un digiunatore.
Antonio (Tony) Tedesco
immagine di copertina: “Buddah Pop” di Kelly Papcun