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E non sei solo

Racconto breve scritto e proposto da Serena Rossi.

 

Un padre e un figlio con un solo abbraccio

squarciano il tempo, vanno oltre lo spazio

cani randagi nella notte scura

la vita no, non fa paura.

A. Venditti

 

 

C’è una cassetta col nastro un poco stropicciato che non ascolto più dal Paleolitico, credo. L’ultima volta che l’ho lasciata suonare nel mangianastri, avrò avuto all’incirca otto anni o giù di lì. A quell’epoca – quella delle elementari – i dischi dei Pink Floyd mi spaventavano e quelli dei Beatles mi provocavano un leggero fastidio; Keith Richards, ahimè, mi avrebbe fatto invaghire perdutamente delle sue sonore dita nodose solo molte ere più tardi.

Questa cassetta, dicevo, ha un’etichetta verde, con qualche riga nera, su cui è inciso un nome ingiallito che, nei miei trent’anni, mi suscita mera ilarità: Antonello Venditti.

Mi fa sorridere perché avrei voluto scrivere qualche gruppo d’effetto tipo Led Zeppelin o King Crimson, ma anche perché quando penso a Venditti e alla sua ridicola capigliatura, mi assale violenta l’immagine di uno scarafaggio – magnapa’ per mia nonna – e, a seguire, si materializzano davanti ai miei occhi i cuoricini sdolcinati con cui il suddetto cantautore va imbrattando compulsivamente la bacheca della sua official page su Facebook.

Dev’essere invecchiato, mi ripeto nel vano tentativo di giustificarlo.

A quella cassetta, però, ci sono affezionata. C’è Peppino, dentro. E da solo andrai verso il mio domani. Ci sono io che trotterello dietro a mio padre, appoggiandomi al bastone di legno che mi ha prestato per potermi sorreggere meglio durante le passeggiate lungo i sentieri di montagna. Con i tuoi occhi e con i miei occhiali.

Resto sua figlia, solo dentro quella canzone.

Al di fuori di Peppino torniamo a essere due estranei che non si sono mai amati, terrorizzati l’uno dal dolore dell’altro, con il forte desiderio di scordarcelo questo maledetto legame di sangue che ci ha scorticati vivi in tutti questi anni di litigate, schiaffi, odio, insulti, ribellioni, fino a farci pencolare come due fantasmi. E non sei solo, solo nell’amore…

A questo corrono i miei pensieri quel pomeriggio d’agosto, quando alla radio lanciano – appunto – Peppino. E mi pare di sentirlo pungente l’odore umido del bosco, dell’asfalto bagnato, dei funghi ammassati nel cesto, dei miei scarponi troppo grandi, dei calzettoni di spugna sudati, di mio padre che rigira quella cassetta tra le dita per poi inserirla nell’autoradio della vecchia Renault bianca.

E c’è questa canzone, questa canzone stupidissima, dal titolo imbarazzante, che a un tratto impetra le mie lacrime, rischiando di farmi arrivare tardi al lavoro.

Non gli do troppa importanza, quel pomeriggio. La tiroide d’estate è capricciosa, si sa, e l’afa gioca brutti scherzi. È il caldo, niente panico. Solo il caldo che squaglia la pelle, corrode lo scheletro, congela la spensieratezza.

Infatti, quando suono il campanello e Daniele mi viene ad aprire, me ne sono già completamente scordata.

«Amore, che fai? Guardi I Dalton? Dove sono gli altri?» esordisco sfilandomi lo zaino dalle spalle.

«Nonna e Camilla sono al mare, nonno dorme, mamma viene domani, io voglio finire di vedere la puntata, poi possiamo andare anche noi, così facciamo la nave dei pirati col materassino.» pronuncia tutto d’un fiato senza distogliere gli occhi dallo schermo.

«Va bene, come vuoi tu, allora fammi spazio ché guardo i cartoni con te.»

E mentre mi lascio sprofondare accanto a lui, mi accorgo che suo padre ha già telefonato tre volte al cellulare della nonna senza che nessuno gli abbia risposto.

Non avranno sentito, mi rassicuro. Eppure quelle chiamate perse mi spremono l’intestino.

Sono quattro mesi che Daniele non incontra suo padre. Non ne parla mai. E se gli chiedo di lui, reagisce sempre allo stesso modo: socchiude gli occhi sornione e sprofonda nel silenzio.

«È normale, se lo sarà pure dimenticato» mi ha accennato astiosa sua madre una di quelle rare volte in cui mi ha rivolto la parola. «Del resto un padre del genere è meglio perderlo che trovarlo.»

Daniele ha quattro anni, un viso che è tenerezza in ogni delicata espressione, due mani che ti cercano ovunque, nel chiarore della luna, nel lucore del sole, tra le onde torbide del mare, perché è pervaso da una fottuta paura di essere abbandonato.

E io non sono tanto sicura che stia bene, che sia giusto che si dimentichi di suo padre; glielo leggo nelle lacrime che non riesce a sputare fuori neanche quando trema dalla rabbia.

Perché Daniele è arrabbiato, quasi sempre. Coltiva un dolore talmente grande, che non esiste giorno trascorso insieme in cui non mi sia domandata come facciano sua madre, sua nonna e suo padre, a non accorgersene. Sono talmente presi dalla loro insaziabile voglia di sparlarsi dietro, da non rendersi conto che lo stanno facendo ammalare.

Discutono di niente, vivono di niente: l’intimo d’acquistare per uscire con le amiche, la puntata della nuova fiction, la corsa mattutina per dimagrire, i pettegolezzi sulle disgrazie altrui, le pile di pizzette bianche che nessuno mangerà.

E intanto Daniele sempre più spesso stringe i pugni, tira i nervi del collo fino a scoppiare, s’immobilizza ed è scosso da un terremoto di magnitudo 8.

A volte, nei momenti peggiori, digrigna i denti fino a farsi male e poi addenta le magliette, cospargendole di buchi e strappi.

«Col cavolo che tua nonna te la compra più la canottiera di Peppa Pig, tu sei malato nel cervello, dallo psicologo ti mando, ma che sei scemo? Oh, mica sono la Banca d’Italia! Vieni via Serena, lascialo solo, almeno impara.»

Eppure.

Eppure Daniele sta già imparando più di ciò che pensi, vorrei gridare a quella vecchiaccia atarassica. Sta imparando a non soccombere, a protestare a modo suo e, ultimamente, ad avere fiducia di nuovo, a lasciarsi amare da un essere umano che non lo intorti di giocattoli per poi svignarsela alla prima occasione. Lentamente.

In questi due mesi in cui la sua mano ha trovato la mia, quel piccoletto dalla testa cocciuta ha soffiato via la paura di nuotare dovecisonoipecciconidentiaguzzi, proprio quelli che fino a qualche settimana fa lo spaventavano a morte.

Quel pomeriggio Daniele guarda I Dalton, il suo cartone preferito. Quei quattro ladri pasticcioni lo fanno scompisciare dalle risate. Poi, d’improvviso, qualcosa scricchiola nella sua testa. Lo avverto subito, perché mi sta fissando con insistenza mentre scorrono le immagini della pubblicità.

«Ehi, che succede? Spegniamo la tv e andiamo a fare un tuffo? Dai, è ora passata.» lo esorto dandogli un buffetto sulle guance ancora sporche di Nutella.

«No» mi risponde serrando le labbra.

Lo conosco quel no secco e deciso: è il preludio di un rissoso attacco di rabbia.

«Non ricominciamo, adesso che ti prende? Mettiti il costume e andiamo, su. Ci aspettano in spiaggia.»

«No. No. No. Ho detto no. No.»

So che Daniele non ha colpe, che questo è il suo modo inconfondibile di farsi ascoltare, di farsi vedere, di sfondare la sordità di chi lo circonda, di protestare ioesistoporcalamiseriaccia. Lui grida solo da muto. Ma quando inizia a ripetere no all’infinito, faccio fatica a controllarmi e oggi – sarà il caldo, sarà la tiroide, sarà il sudore – è quel pomeriggio, quello in cui perdo definitivamente la pazienza.

Provo a trascinarlo giù con la forza, ma lui mi ributta sul divano e mi si mette a cavalcioni sopra. Sembra di essere sul ring: chi vincerà? Non ho nessuna intenzione di assecondarlo. Abbiamo gli occhi affondati nelle iridi l’uno dell’altra; lottiamo stringendoci le mani; c’imperliamo di sudore, quando a un tratto mi accorgo che Daniele non mi sta aggredendo né catturando, come capita di solito durante i suoi capricci, ma sta cercando di plasmare il suo corpo di scricciolo al mio di femmina – mamma – terrea.

Mi ammutolisco. E lo vedo. E lui vede me. Sbircia dentro di me. Accende un ricordo.

«Babbo ho paura del buio, mi prendi in braccio? Qui è pieno di rovi e le spine mi graffiano i polpacci e anche le braccia, poi sarà pieno di animalacci.»

«Senti Serena, voglio solo raccogliere un po’ di more. Ce la fai a stare buona due minuti? Se lo dici un’altra volta giuro che ti mollo qui da sola, mi hai stancato.»

«Per favore babbo, prendimi in braccio. Ho veramente paura.»

«Bene, ti avevo avvertita. Ti lascio qui. Se vuoi, muovi le gambe da sola.»

«Ti prego, aiutami. Non mi lasciare da sola.»

«Non me ne frega niente.»

Ho la gola che s’ingolfa di pianto. Daniele ne approfitta, supera la mia resistenza e mi si lancia tra le braccia. Mi stringe fortissimo e mi sorride. Di quella dolcezza che mi è sempre mancata, che tanto ho cercato negli anfratti tumefatti dell’uomo, nel grembo accogliente di un’amica in cui sta per sbocciare un fiore, nelle crepe dove sporadicamente invito la luce a filtrare con qualche riflesso d’arcobaleno.

Abbiamo smesso entrambi di fiatare. Si ode solo il sospiro delle onde in lontananza. E le mie dita ricambiano quell’abbraccio, con la stessa intensità verace.

Riesco a malapena a sussurrargli: «Scusami, non ce l’avevo con te. Lo sai che non ti lascio.» E lui stringe, stringe ancora più forte. Si aggrappa con tutto se stesso alle mie forme burrose. Elemosina una carezza. Costruisce un rifugio. E io gli riempio di baci tutta la testa, spettinandogli appena i capelli che trattengono l’odore della salsedine mattutina. «Sei una ciambellottella.» ridacchia. E restiamo così, per tanto, tanto tempo. E ci risarciamo, in quella comunione profonda, di tutto l’amore che nelle nostre famiglie rotte non c’ha mai scaldato.

Ché ce lo meritiamo, Daniele, anche se ipecciconidentiaguzzi, sì, proprio quelli che tu hai sempre sostenuto di aver intravisto vicino agli scogli – te lo confesso – non abitano lì, ma qui, in fondo al petto, tumulati sotto il cicaleccio di strati di cellule scalpitanti. Tu, però, dai retta a me, non starli a sentire, capito?

Chiudi la bocca, naso fuori dall’acqua, muovi le braccia insieme alle gambe. E nuota. Forza, come ti ho insegnato.

Nuota lontano, più veloce dei pecci.

Vedrai che quelli prima o poi ti lasceranno in pace e non ti acciufferanno mai più.

Serena Rossi

Author: Alieni Metropolitani

Gli Alieni Metropolitani non cercano soluzioni. A volte ne trovano… é irrilevante. Appartengono alla Società e con sguardo consapevole ne colgono l’inconsistenza. Non sono accomunati da ideologia, religione o stile di vita ma da una medesima percezione del mondo. Accettano i riti della vita, riuscendone a provare imbarazzo. Scrivere! Una reazione creativa alla sterile inconsistenza del mondo.

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