Aspettando Godot di Samuel Beckett costituisce probabilmente l’opera più incisiva sul tema dell’assenza. Pur non comparendo mai sulla scena, Godot ne è, nondimeno, il protagonista. Un protagonista che non rappresenta e che non si rappresenta, dal momento in cui viene meno, non rappresentando neppure qualcuno che se n’è andato, bensì qualcuno che non è neanche mai arrivato. E che tuttavia è atteso. La situazione, assai nota, vede infatti Vladimiro ed Estragone, due clochard seduti su una panchina posta ai bordi di una sterrata stradina di campagna, aspettare il signor Godot. Non si conoscono i motivi di questo appuntamento, sebbene a un certo punto i due uomini, che lamentano freddo e fame, si riferiscono a Godot come a un benefattore che offrirà loro un riparo, del cibo e forse addirittura ospitalità in casa sua; ma si tratta presumibilmente solo di una speranza, tanto più che, nel corso dei due atti che compongono il dramma, Vladimiro ed Estragone daranno a intendere di non aver mai incontrato Godot. Incontreranno solo il suo messaggero, il quale riferirà che «Il signor Godot non verrà questa sera ma di sicuro domani».
Circa gli altri personaggi del dramma, Lucky e Pozzo, si tratta di una perfetta riproposizione della coppia hegeliana di servo e padrone, col primo tenuto a guinzaglio dal secondo, un proprietario terriero che non può fare a meno del suo servo, come simboleggiato proprio dalla corda che li unisce e che sarà ancora più corta nel secondo atto, quando rivediamo i due uomini, ora divenuti rispettivamente cieco e muto. Ma anche la prima coppia, quella composta da Vladimiro ed Estragone, sembra destinata a non scindersi mai, come testimoniato dall’impossibilità dell’uno di abbandonare l’altro, nonostante una forte incomunicabilità di fondo segni il loro rapporto. Ciò in quanto nel teatro di Beckett la persona non è più una maschera che gioca socialmente all’interno di una rete di intersoggettività che si struttura, ma diventa incapace di porsi in relazione e di comprendere l’azione dotata di senso dell’altro. Ovvero, mentre gli individui – a teatro come nella vita – entrano in rapporto in quanto, per dirla con il Max Weber di Economia e società, il loro agire sociale è dotato di un senso che designa l’orientamento verso l’agire altrui, in Beckett tutto ciò è completamente assente. Non c’è alcun orientamento verso l’altro, perché rispetto al prossimo c’è solo disorientamento. La “stasi” dei personaggi beckettiani si fa beffe dell’agire inter-individuale e del suo significato: è l’assenza di un soggetto sociale pienamente tale.
Il filosofo Alain Badiou, nel brillante volumetto Beckett. L’inestinguibile desiderio, ha scritto che se si vuole condurre un’indagine approfondita sull’umanità pensante, è necessario anzitutto mettere da parte, attraverso un processo di spoliazione (cartesiana, husserliana) tutto ciò che in essa vi è di inessenziale, per ricondurla – o “ridurla” – alle sue funzioni indilazionabili. Ecco allora che la povertà di Vladimiro ed Estragone, la loro strana fissità, il loro “falso movimento”, il loro “stare” senza meta e senza scopo, sono tutti elementi che possiamo inserire nell’ottica di un processo di depauperamento che ha inizio già a partire dai loro stessi nomi: i personaggi non hanno dei cognomi ma solo dei nomi, poi ridotti a nomignoli – Didi e Gogo – che sanno tanto di regressione infantile, con quelle ripetizioni sillabiche (di-di e go-go) che sono anche delle reiterazioni, delle coazioni a ripetere, che rispecchiano il perenne adagio «domani verrà» ripetuto, quotidianamente, dal messaggero di Godot.
Quanto a Lucky e Pozzo, la loro malattia contiene in forma germinale tutta la produzione beckettiana che seguirà, preannunciando quei corpi impotenti, ridotti a moncherini (Finale di partita) quando non addirittura a una testa o a una bocca senza corpo (Lo spopolatore), cioè, a delle mere funzioni. In Beckett, infatti, non si contano i ciechi, gli storpi e i paralitici, ma il senso di questa morte progressiva sembra essere piuttosto quello di una riduzione dell’umanità alle sue funzioni essenziali, che nella fattispecie – individua Badiou – sono l’essere, il deambulare e il parlare, sebbene in modo incoerente e inconcludente, data appunto la ripetitività dei gesti che vengono compiuti e delle parole che vengono pronunciate in netto disaccordo col loro stesso significato. L’esempio più emblematico è offerto, forse, proprio dai continui scambi tra Didi e Gogo, che denotano motilità («Io me ne vado./Anch’io.», «Allora andiamo?/Andiamo.») mentre l’indicazione scenica riferisce l’esatto contrario, e cioè che «Non si muovono».
A questo proposito: se è vero che, come è stato più volte rilevato dalla critica, Godot in verità compaia, e lo faccia propriamente in questa formula «Go.» (Go+dot), rimane altrettanto vero che, tutto considerato, la sua comparsa sia solo testuale (e sul solo testo inglese, peraltro) e non scenica.
In conclusione, Aspettando Godot è un’opera che richiama molto la trascendenza di cui parla la filosofia esistenzialista, e in particolare la trascendenza che si rivela in quelle che Jaspers individuava come “situazioni-limite”, cioè situazioni immutabili, definitive, nelle quali l’uomo si ritrova come in un vicolo cieco, o come di fronte a un muro, contro il quale non può che sbattere senza speranza. Trovarsi in una situazione limite significa, in sostanza, non poter non fallire. E, in ciò, è forte l’analogia con la poetica di Beckett, il quale, in riferimento al protagonista di una delle sue opere più celebri, Finale di partita, dirà che «Hamm è come un re di una partita di scacchi perduta all’inizio, che alla fine fa mosse assurde, come un pessimo giocatore, tentando solamente di ritardare una sconfitta inevitabile».
Lo stesso scacco, insomma, di chi è seduto su una panchina aspettando Godot.