di Matteo Trevisani
Esiste finalmente un posto, per chi vuole sperimentare un mondo di desolazione post apocalittica. Si chiama World of Warcraft[1] ed è un gioco di ruolo fantasy on line che al suo apice di popolarità, cioè nel 2010, raggiunse le dodici milioni di iscrizioni[2], l’equivalente della popolazione di uno stato come la Grecia.
Col tempo la piattaforma si è man mano svuotata e ora i server di WoW sono deserti: semplicemente la gente ha lasciato i propri account e si è spostata su qualche altro gioco, seguendo la legge di ogni migrazione umana. Quando un posto è esausto, si lasciano lì a esaurirsi anche le cose che non servono e ci si sposta a colonizzare altra terra vergine.
Per uno che come me ha l’hobby dell’escatologia era un’occasione da non farsi scappare. Ho sottoscritto un account per tre mesi, pagando più o meno trenta euro, un prezzo ragionevole se devi assicurarti un posto in prima fila davanti alla fine di un mondo.
In un’ipotetica e personalissima classifica delle attività videoludiche dove il porno ottiene un punteggio massimo di 10 e i giochi flash punta-e-spara in cui devi mirare ai politici 0, possiamo tranquillamente affermare che WoW ottiene un discreto 6 e mezzo barra 7. Ti dici che sei arrivato troppo tardi, che doveva essere un gioco divertente, per quanto puoi vedere dalla cura dei dettagli, dagli occhi vuoti eppure vispi dei bot, animati da un’intelligenza artificiale che sa rispondere Sì e No a quattro domande, e se alla fine ci hanno fatto pure una puntata di South Park[3] deve essere vero per forza.
Che sei da solo lo capisci subito. Pixel e pixel di spazio disabitato.
Da bambino mi immaginavo di svegliarmi una mattina e di scoprire che tutti fossero spariti. Pensavo con eccitazione alle cose che avrei potuto fare, alle strade deserte, ai posti proibiti, alle case degli altri, a macchine ferme sul ciglio della strada con le chiavi ancora inserite nel cruscotto. Però poi, oltre all’iniziale senso di libertà assoluta dovuta al delirio di onnipotenza di un bambino di dieci anni che non si rende conto di quello che desidera (che durava diciamo una manciata di secondi), intuivo che non sarebbe poi stata una cosa così divertente o in qualche modo desiderabile. Se erano spariti tutti voleva dire che era sparita pure Silvia, per dire, quindi attraversare l’isolato con la bicicletta e intrufolarmi di nascosto in camera sua, vedere finalmente che cosa vedesse lei quando si svegliava la mattina non sarebbe stata una cosa molto intelligente da fare. Violare quell’intimità quando l’intimità non è più protetta da niente non era così divertente come sembrava all’inizio. Lo dice meglio Nietzsche quando all’inizio della Gaia Scienza parla di quei giovinetti che tolgono i veli dalle statue degli dei, scoprendone il contenuto e vanificando così la verità che quelle statue celavano. Non c’è gusto.
La sensazione è più o meno lo stessa, con l’unica differenza che la virtualità dilata di tempo, infatti ci metto quasi un pomeriggio per capire che non sto veramente andando da nessuna parte: il personaggio che ho creato si aggira saltellando per un mondo vuoto, pure discretamente reale, e io e lui insieme sperimentiamo una sorta di Libertà Totale di cui non ce ne facciamo niente. Caspita, pensi, questo virtuale può essere più reale di quanto credevi.
Fa schifo allo stesso modo.
Poi, dal nulla, in basso a sinistra dello schermo ti arriva una richiesta di amicizia, stile facebook, ma di gente che ha nomi come Azatoth, Einkil, Morgur. È come se stessi abitando in una casa in cui sai di essere l’unico inquilino e una mattina ti svegli e scopri che qualcuno ha lavato i piatti della cena, e che quel qualcuno ti ha lasciato un biglietto bizzarro firmandosi con un nome troppo esotico. Non sei solo. La cosa è terrorizzante, qualcuno sta violando il tuo mondo perfetto in cui fino a poco fa ti sentivi dio (non ti viene da pensare che in realtà non sei dio perché non sei in grado di modificare niente, dell’ambiente in cui ti circonda, ammesso che se fossi dio sarebbe una prova della tua onnipotenza modificare a caso qua e là solo per il gusto di poterlo fare[4]).
Ok, non sei da solo. Intanto anche se fuori c’è il sole e fa caldo, nel mondo virtuale ha iniziato a nevicare, gli alberi si torcono sotto il peso dei byte bianchi che codificano una neve soffice, senza increspature. Uccelli neri volteggiano nel cielo, esseri senza volontà che hanno il senso della loro esistenza nel tautologico fatto di esistere, senza coscienza, come le lucine degli alberi di natale che si accendono e si spengono sulla base di programmi specifici. Ora che stavi iniziando ad avere una qualche specie di familiarità con l’ambiente, non dico sentirti a casa, ma sì diciamo che la sensazione è quella, ora che stavi cominciando ad abitare quel posto, a sentirlo tuo, ecco che arriva qualcun altro a dirti che non è vero niente, che ti sei sbagliato, che gli altri ci sono ma non si vedono. Che anche un posto alla fine del mondo è un posto che devi condividere, nell’accezione negativa, cioè quella che sottolinea il dividere della questione, che dice al contrario di quanto succede sui social network, che devi privarti di una parte per poterla cedere a qualcun altro. La condivisione su facebook, o su twitter, o su linkedin invece non costa nulla, in un’ipotetica dimensione economica delle esperienze social sono benefici a costo zero, se non quello della progressiva svalutazione del significato, un po’ come succede quando si ripete una parole così tante volte da farla diventare solo un suono o si chiede scusa senza pensarci o si dice ti amo ogni cinque minuti a una ragazza che comunque non vuole ascoltarti.
Sai che il mondo è diviso, ma non immagini altre persone sedute davanti ad altri computer che fumano altre sigarette, si grattano altre pance e si chiedono se quello sia per davvero il modo migliore per passare il pomeriggio, no, ti chiedi semplicemente dove sono finiti tutti. La domanda che si fa un bambino assonnato quando si alza e vede che le finestre della cucina sono aperte e tira vento e c’è tutto silenzio, silenzio ovunque.
Fai qualche ricerca e scopri che c’è una doppia negatività, nel flusso dei giocatori. Se chi aveva l’account non gioca più è altrettanto vero che il gioco tarda ad attirare nuovi utenti. Quindi ne consegue che il paesaggio è deserto solo per quelli come te che hanno un personaggio a livello uno. Tutti i (pochi) irriducibili altri, sono a livello 85 nei reami sbloccabili solo a un determinato punto del gioco. Me li immagino questi paesi popolati da esseri divini che non possono fare altro che guardarsi negli occhi e chiedersi se hanno visto l’ultimo Batman. Comunque, tu sei nuovo, sei merce rara. Loro ti vogliono, vogliono fare gruppo, offrire a quella gilda un’altra possibilità di perpetuare la propria esistenza. Le ultime sacche di resistenza che mantengono in vita un paese al collasso.
C’è un filosofo in Germania che si chiama Peter Sloterdijk che dice che il luogo dove si è originata l’umanità non è, come pensavo io, la famiglia, no, è l’orda[5]. Un gruppo dove tu hai un ruolo all’interno tra altri ruoli, dove c’è una struttura che deve difendersi, confrontarsi, diventare più grande. Capisci che all’interno della piattaforma è una cosa più reale di quanto credi, inizi a fare paralleli, a cercare dei paragoni, ti viene in mente, pur basandoti sulla tua breve esperienza che forse nella relazione realtà/virtualità c’è ben altro che una semplice somiglianza, un rapporto tecnico di usabilità, il soggetto e l’oggetto di questa relazione cambiano di posto e ti chiedi allora che differenza c’è, tra il mondo che trovo dentro a uno schermo e quello sbiadito che vedo in un cortile interno in un condominio di Roma, se è per un motivo particolare che a quattordici anni mi sono innamorato su C6 di una che si chiama Laura senza averla mai vista e perché se guardando i boschi di faggi dall’autostrada istantaneamente penso agli alberi autunnali in qualche vecchia mappa di Age of Empire.
Loro ti mandano una richiesta di amicizia che tu sei costretto ad accettare per avere la possibilità di relazionarti con i tuoi simili invisibili, e di colpo fai parte di qualcosa.
Dunque l’orda ti permette di dare un senso al tuo vagare, nel rapporto di contrasto con una natura artificiale tanto quanto gli uomini che la abitano. La socialità, in questo caso, rende meno cruento e più abitabile un mondo che con noi non condivide nemmeno lo stesso spazio fisico. Allora iniziamo a pensare che le categorie interpretative che usiamo per spiegarci la realtà non funzionino a dovere quando si tratta di fare i conti col virtuale, e il fatto che usiamo con lo stesso significato le parole amore, amico, solitudine, per descrivere esperienze così metafisicamente lontane fra loro complica ancora di più le cose.
Ancora non abbiamo un modo per dirlo. È una solitudine linguistica: ci troviamo sperduti in un mondo che non sappiamo ancora come chiamare.
È da qui che nasce la confusione. Da qui nascono i centri di recupero per hikikomori, da qui nasce il fatto che un mio amico mi chiede di accompagnare a casa la sua ragazza perché lui ha un appuntamento con l’orda, alle tre del mattino, nella piazza di un paese codificato da decine di computer a Francoforte, o a Berlino, da qui nasce l’idea di un carcere in Cina, che fa lavorare i detenuti nel gioco per poi rivendere gli oggetti che creano e provvedere al suo stesso finanziamento.
Ma ci sbagliamo. Potenzialmente tutto funziona allo stesso modo, tutte le scoperte che continuiamo a fare sui rapporti tra reale e virtuale non hanno significative differenze da colmare, le previsioni che si fanno sui computer in merito a evacuazioni, incendi, terremoti, grandi incidenti, probabilmente funzionano allo stesso modo[6]. E il fatto che affiliarsi a un gruppo sia una cosa naturale è perché è quello che è successo quando l’uomo ha dovuto fare quel salto da umanoide a umano. Antropologicamente parlando, su internet siamo uomini delle caverne in cerca di un motivo per evolverci.
È verosimile pensare che con l’accesso totale alla rete, l’azzeramento del digital divide, e la presenza sulla rete di nativi digitali, si affronteranno dinamiche di aggregazione sociale che vedranno in internet, e nel conseguente gioco on line parte corposa del traffico dati mondiale, non tanto una risorsa da sfruttare, quanto l’unico luogo possibile in cui sviluppare una specie di religione transumanistica in cui la parola solitudine sarà un vecchio modo per indicare una connessione che all’improvviso smette di funzionare, lasciandoti davvero solo davanti a un computer inutile a chiederti dov’è che sei ritornato ora, e quale dei due mondi sia scomparso per davvero.
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[1] D’ora in poi WoW.
[2] Per l’epoca sono tanti, dato che il digital divide si riduce ogni anno, per citarne un altro, League of Legends, che di WOW riprende una mappa particolare, ha raggiungo da poco le 70 milioni di registrazioni, come mezza Russia o come i milioni di dollari che la Disney ha dovuto sborsare per non essere coinvolta nelle accuse di satanismo dopo i messaggi subliminali in Bianca e Bernie, primo banco di prova per ogni giovane dietrologo che si rispetti.
[3] South Park 10×08.
[4] Come in Leibniz l’obbligo morale di Dio alla creazione non è una necessità metafisica, crea esclusivamente perché lo vuole.
[5] Il gioco di WoW è strutturato sulla base di due diverse fazioni che si affrontano. L’alleanza e l’orda, incarnazione del bene e del male che dalla terza espansione collaborano per affrontare un nemico comune. Qui, il fatto che l’orda rappresenti una fazione del gioco e un gruppo organizzato di guerrieri è semplicemente un caso.
[6] Ho appreso or ora da wikipedia che WoW è stato oggetto di uno studio da parte di un gruppo di ricercatori dell’Università di Boston. Hanno studiato l’incidenza di un virus telematico studiato per rimanere circoscritto in un area che invece si è diffuso attraverso la popolazione del gioco. Il flusso di diffusione dell’epidemia e i movimenti dei giocatori per evitare il contagio rappresenterebbero i flussi delle grandi masse in una situazione di pericolo reale. Non c’entra niente col pezzo ma mi pare comunque una cosa fica da sapere.