di Alfredo Perna
La prima parte qui,
L’ombra è potere. L’ombra è giustizia. L’ombra è livello superiore. L’ombra è salubre e i dirimpettai sono malattia. È misura d’eguaglianza fra i nostri simili e noi ad essa ci inchiniamo, ogni giorno, in questa sacra orazione.
Col capo curvato a oriente, Divan recita la formula. È la sua preghiera quotidiana. È molto ammodo quando la ripete. E, noi antistanti, lo ascoltiamo nel più assoluto silenzio. Pendiamo dalle sue labbra e dai suoi gesti solenni. Poi, quasi sempre, al termine della stessa, sollevando di nuovo la testa, e guardandoci tutti, glossa con la frase: “Se l’equità avesse voluto dar loro la voce della ragione, ora i dirimpettai sarebbero al posto nostro.” Mentre lo dice, gonfia grottescamente la vena giugulare, solleva l’indice a mezz’aria e sfoggia un sorriso beffardo che poi muta in un’espressione quasi sadica. Sembra sempre quasi sul punto di voler accoppare qualcuno di quelli, ma quando i suoi spiriti bollenti si placano, l’indice s’abbassa, la vena giugulare si sgonfia e quello è il segnale che la cerimonia è terminata.
All’uscita dalla Basilica Centrale, Edlir mi si avvicina e domanda se più tardi andrò a sbeffeggiare i vicini.
“Al solito”, gli rispondo.
Sorride e fa un cenno del capo. Prima di allontanarsi di nuovo, mi chiede: “Hai sentito che orazione, oggi, il nostro capo?”
“Già.”
“Com’è che dice? Se l’equità desse ragione a loro, i dirimpettai sarebbero al posto nostro.”
All’ingresso della nostra area, sul lato interno dell’Arco dell’Imperatore, c’è tanto di targa di marmo che recita quella frase, sotto un bassorilievo in cui due uomini si sfidano al lancio dei dadi.
È stata Jovanka a mostrarmi la targa la prima volta. Dio sa quante volte ero passato sotto l’Arco senza mai farci caso. Era una mattina particolarmente buia; ombre solide si allungavano dai palazzi e una brezza primaverile ci accarezzava dolcemente la faccia. Allungò l’indice sottile in direzione della lastra di marmo e mi chiese, col tono di chi si aspetta una risposta precisa, se conoscessi la Storia.
Con lo sguardo fisso nel punto indicatomi, scossi la testa. Dissi: “La storia? Che storia?”
Jovanka gettò la testa all’indietro facendo dondolare la chioma bionda nell’aria umida e rise forte. “Non mi dirai che non conosci la Storia della sfida?”
All’epoca avrò avuto sì e no otto anni. Ero soltanto un bambino. Era naturale che non sapessi nulla di nessuna Storia. Però, anche Jovanka era soltanto una bambina, e la Storia la conosceva per filo e per segno. Gliel’aveva insegnata suo padre. Bojan, il braccio destro del capo dell’area. Per questo poteva permettersi di atteggiarsi tanto con me.
L’incisione mostrava un Divan molto giovane che lanciava due dadi. Sotto le sue scarpe compariva un quattro e un due scolpiti in numeri romani. L’altro sfidante – il capo perdente del marciapiede di fronte – era di spalle; sotto le sue scarpe al posto dei numeri, lo scultore aveva intagliato due grosse X.
Non mi piaceva affatto quella scultura. Era come se proiettasse l’ombra di un cattivo presagio.
“Dai, Omid. Andiamo a schernire i vicini”, disse a un certo momento Jovanka sorridendo e producendosi in una improvvisa corsa sull’acciottolato che portava sino al marciapiede bagnato dal sole. La inseguii. Ridere dei vicini era l’unico grosso divertimento del nostro villaggio.
Immagino molto più emozionante di guardare sfrecciare i treni in aperta campagna.
E incarnava, quasi da sempre, il nostro rito obbligato.
Poi Jovanka, quasi tutto in una volta, s’è fatta donna, si è sposata e ha avuto due maschietti, e si è auto-esonerata dal culto derisorio.
Non l’ho mai confessato a nessuno, ma mi hanno fatto sempre un po’ pena, i vicini.
Apro la sedia pieghevole e la sistemo a ridosso del muro. Oggi, come tanti anni fa, guardare come s’ingegnano a preparare il pranzo sotto il sole di mezzogiorno, mi crea sempre un grosso disagio. Godere delle pene altrui non credo rientrasse nei piani originari della sfida.
Ivo, seduto quasi sul fondo della lunga fila, si sporge dalla sedia e ridacchia malevolmente vedendomi avvicinare; dice: “Oggi lo spettacolo è cominciato prima del previsto.” Accanto a lui è seduta sua moglie, Olga Davičova; sfoggia lo stesso sorriso ebete del marito. Probabilmente, a furia di frequentarsi, le persone finiscono per assomigliarsi almeno un po’. Non l’ho mai sentita esprimere un’idea tutta sua, e se parla replica soltanto quello che dice Ivo. Sollevo le spalle. Egli insiste: “Prima, una decina di minuti fa, dovevi vedere quel pelato lì, il cuoco… Andava avanti e indietro, avanti e indietro. Ha bestemmiato un paio di volte perché non riusciva a trovare nulla da mettere nel brodo.” Olga Davičova si sporge a sua volta dalla sedia e fa un cenno deciso col capo. Dice: “È così”
“Secondo me sono andati fuori di testa”, fa, dall’altro capo della fila, Tibor. “Guardate ad esempio quello lì, il giovane, continua a voltarsi da questa parte e non si decide a sedere.”
“Io dico che getta la spugna.”
Una sommessa risata generale scuote, per una manciata di secondi, l’intera fila di astanti. Nel mezzo scorgo anche Edlir che mi fa il solito cenno col capo. Mi siedo e osservo, spalle al muro, la patetica scena quotidiana che si consuma tra i sei abitanti del marciapiede di fronte. Il loro tentativo di mangiare la minestra si risolve spesso in un disastro colossale. Facce esauste che collassano nel piatto, sudore sorseggiato insieme al brodo o anche rifiuti improvvisi di recitare quella commedia (quest’ultima cosa è alquanto rara). Non so cosa ci aspettiamo di vedere ogni volta da questa gente. Sono patetici. Penso che, sotto certi aspetti, il loro mezzogiorno fa da pendant alla nostra mezzanotte fatta di cene frugali, anonime fumate di sigaretta fuori i nostri terrazzini, e crolli improvvisi nel sonno profondo.
Anche noi siamo in grado di dare spettacolo, senza rendercene conto.
“Lo hai detto pure la volta passata, Radovan Jovanovic”, dice con tono avvilito Ivo. Pesca con riluttanza dalla tasca anteriore della camicia un sigaro, lo spezza a metà, masticandone la punta come se fosse cioccolato, la sputa, e comincia a tirare lunghe boccate provando ad accendere con un fiammifero. “Non succederà nulla, anche stavolta. Hanno troppa paura dei binari del tram.”
“E io ti dico che invece quello lì è fuori di testa”, insiste Radovan Jovanovic.
Proprio come se l’avesse udito, il più giovane si solleva dalla tavola, sputando il brodo violentemente con la bocca. Quando sembra stesse proprio dando di stomaco, cala un pugno violento sul bordo del piatto e rovescia quasi tutto il contenuto sull’asfalto. Restano, per diversi secondi, a guardarsi l’un l’altro. I volti atterriti, mentre dai cocci di ceramica bianca si sollevano sottili rivoli di vapore biancastro. Uno degli uomini ammonisce il giovane, poi ancora quel silenzio.
Radovan Jovanovic lancia nell’aria un gridolino sottile e ride tutto compiaciuto. “Che ti avevo detto, mister non credo mai a nessuno?” dice rivolgendosi a Ivo. La sua faccia non è più avvilita, ma scettica.
Ivo fa un vago gesto con la mano.
Poi ci giriamo tutti nella medesima direzione, nello stesso preciso momento; il giovane si è voltato con uno scatto e ha cominciato a correre prima piano e poi più velocemente.
È intenzionato a fare qualcosa che qualcuno non ha mai osato prima d’allora.
Azzardare.
Radovan Jovanovic, Tibor, Olga Davičova, Edlir e Ivo. Praticamente tutti guardano dall’altra parte. Anch’io. Tant’è che a un certo punto mi chiedo: “Ci passerà davvero l’elettricità in mezzo a quei binari o anche questa è un’altra di quelle storie inventate?”
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