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Gone Girl, di David Fincher

Gone Girl, come uno Yates che esponenzialmente implode nella gabbia che si è costruito, è un orologio perfetto, sincronizzato, un teatro americano smerigliato in cui vanno in scena figli che fanno prestiti ai genitori borghesizzati dalle apparenze e dalle apparenze affossati come carne status da macello, in cui sono i media e i selfie a dare o meno la pena di morte, in cui la vita e la morte sono un gioco calcolatissimo da predoni flash sul fotofinish, dove l’apparire finanziario è il boccone mastica-capitalismo meno digerito.

Un requiem agghiacciante sul matrimonio, come una lastra su un cancro metastatico che rode silenzio-centrico la struttura di una società fondata sulla sola immagine (di sé) mestruata e moribonda titolata a caratteri cubitali. E poi la macchina da presa, ponti che irrompono tracciando diagonali perverse, vagine e cabernet, coiti-assassini, sangue senza corpi, corpi senza sangue in fuga dal mascara perfetto, soluzioni finali, post-it suicidi, oggetti teatranti, soprattutto nella loro presenza – assenza.

Cinema perfetto dal montaggio antologico, lapidario, in odore di morte data o scampata, in cui tutto, sotto la lucida facciata mediatica patinata data in pasto con legal performance improvvisate, si sgretola sotto i colpi di una caccia al tesoro per giustiziati in camera frontale.

Ed è proprio nella perversione del rischio che si vince tutto alla lotteria del deficit, narcotizzata dal brivido calcolato di una morte annunciata, terribilmente contemporanea, funestamente condivisa all’interno delle pareti in cui vivere in piena decomposizione ingabbiati dalle apparenze, una giostra perpetua come la prepotenza sottotraccia del cinema di Fincher (in)sonorizzato da Reznor.

Pellicola nevrastenizzata dal suo rigore formale, una sassata silenziosa che investe e sovrasta e che lascia cicatrici senza ferite a rodere sotto l’epidermide di una villetta dall’estetica perfetta.

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Author: William Dollace

William Dollace nasce nel 1979. Collabora quale redattore con la corrente degli “Alieni Metropolitani” e UZAK, rivista trimestrale di cinematografia. Collabora quale Business Writer per BalenaLab e ha collaborato con Archivio Kubrick. Nel 2010 ha pubblicato "Delirio Cinefilo" (358 pag.) per Casini Editore - Roma, recensito da Tommaso Pincio su Rolling Stone. La rivista Carmilla On Line ha pubblicato alcuni suoi pezzi con un'introduzione di Giuseppe Genna.

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