È mezzogiorno esatto.
Siamo sul marciapiede, a pochi passi dalla pensilina del tram, ed è quasi pronto in tavola.
Adrian, indicando la mia maglietta nera, e abbozzando un sorriso cinico, mi fa notare: “Non hai scelto la giornata adatta per quella.”
Abbasso immediatamente lo sguardo sulla maglia e gli chiedo: “Cos’ha che non va?”
“È nera. Attira il sole”, mi spiega lui.
“È l’unica che possiedo, al momento” gli replico mestamente.
Solleva le spalle e assume un’espressione truce. Poi, puntando gli occhi oltre la mia spalla destra, torna a guardare dall’altra parte del marciapiede. “Ma tu guardali”, commenta gelido. “C’è chi nasce fortunato.”
Mi volto anch’io, riparandomi la fronte con una mano, ma non replico nulla perché non voglio alimentare la solita inutile polemica; mi limito a gettare una lunga occhiata, provando una fortissima invidia per tutti quelli che si crogiolano all’ombra. I dirimpettai. Non si può certo definirli felici, questo no, ma ognuno di loro sembra molto più rilassato di tutti quanti noi messi assieme.
Da quest’altra parte, il sole è alto nel cielo e scotta senza pietà.
Quando arriva il momento di sederci a tavola, sento come uno spasmo nervoso. Una specie di pietra pesante che cerca di farsi spazio all’interno dello stomaco. Sono quasi sul punto di dire: “Grazie lo stesso, ma a me, oggi, non va di mangiare”; poi, mi trattengo, come faccio sempre. Da anni, oramai, abbraccio questa croce, fatta di pasti bollenti in un clima torrido.
Non mi ci abituerò mai.
Eppure, tutti gli altri si posizionano immediatamente con le gambe sotto la tavola e attaccano a sorbire il brodo caldo, con dei rumori fastidiosi delle labbra. Quei fssss, ush-ush-ush, e fushhh che darebbero sui nervi persino a Nostro Signore Gesù Cristo. Sembra che mai nessuno si ponga il problema. Anzi, per loro non esiste nemmeno.
Mangiare d’estate, è un problema serio.
Che vi credete?
Lancio un’altra occhiata al di là della strada. Ho come l’impressione che i dirimpettai ridano di noi, della nostra ridicolaggine. Quel gruppetto di sei persone che si ostina a pranzare nonostante il caldo. Poi mi volto a guardare Bisar e Mirko, ricurvi, mentre le loro fronti si liberano di copiose quantità di sudore. Gocce trasparenti cadono nei piatti, e non solo non sembrano farci caso, ma vanno avanti a mangiare con estrema avidità. Come se quel sudore fosse un toccasana. Aceto, oppure, che so, un leggero olio di arachidi aggiunto per dare maggiore sapore alla minestra.
“Ma che fai, Nedin? Non ti siedi a tavola? Guarda che se non ti sbrighi, Samir è già pronto a mangiare pure la tua parte”, fa Adrian inducendo alla risata gli altri. “Accomodati, Nedin.”
Dopo qualche altro secondo di titubanza mi siedo. Guardo nel piatto. I riflessi del sole producono centinaia di piccoli arcobaleni all’interno delle microscopiche goccioline di olio che galleggiano sul brodo. Il vapore si solleva dalla sua superficie imperterrito. È fitto almeno quanto il fumo di una ciminiera industriale. Anche quest’oggi, sorbire il brodo, sarà come attraversare un deserto sotto il sole di mezzogiorno senza nemmeno la scorta di un goccio d’acqua. Avrei bisogno di una dose maggiore di rassegnazione. Per esempio un obiettivo, vero o finto, per tirare avanti. Non capisco le pretese che gli altri avanzano da me. Perché continuare a battersi? Perché mangiare questa roba? Per noi altri non esiste altro futuro che questa tavola imbandita. Non capisco, ad esempio, il fatto di trovarmi in mezzo a gente che non riesce a vedere le cose come le vedo io, e non so perché si ostinino a non spostarsi in qualunque altro luogo che abbia almeno una parvenza d’ombra. La pensilina, ad esempio, andrebbe già molto meglio del marciapiede. È riparata. Il sottile strato di ruggine sulle rotaie, ad ogni modo, suggerisce chiaramente come il tram non passi più di qui da tanti anni. Se in questo preciso momento chiedessi a Bisar – o a qualcun altro – com’è fatto un tram non me lo saprebbe dire. Ci metterei la mano sul fuoco. Rimesto con il cucchiaio nel piatto bollente, senza decidermi di mandare giù la prima boccata.
Mi sento gli occhi di tutti incollati addosso.
Lo sguardo di Pirro poi è insostenibile. La sua faccia, per una lunghissima serie di secondi, si piega proprio a pochi centimetri dalla mia; punta gli occhi dritti nei miei. E, per un attimo, temo per la mia incolumità.
“Mangia, Nedin”, fa lui collerico. Si esprime col tono del padre rammaricato dall’ennesima delusione del figlio. “Dio solo sa se c’ho messo delle ore per andare a cercare quel dannato dado vegetale… Quando c’è un sole alto nel cielo come questo qua, non è uno scherzo procurarsi del cibo”, dice puntando il cucchiaio verso l’alto.
Così ora so che debbo mangiare. Mi convinco, e non rimesto più. Porto quel fuoco liquido alle labbra. È l’Inferno! È tra le cose peggiori che ti possano capitare in una giornata bollente come questa.
È una punizione divina, ci giurerei.
Un grigio pomeriggio di agosto, pieno di afa e senza vento, è stato proprio Pirro a raccontarmi la storia del nostro marciapiede. Fu una cosa che accadde diversi anni fa, quando ero ancora un bambino troppo piccolo per ricordare un fatto importante come questo. Ci fu una sfida, una sorta di gara coi dadi in cui i dirimpettai e i nostri si giocarono le due proprietà: il nostro lato destro e la zona di fronte. Prima della contesa erano aree della stessa ampiezza, mi disse ancora Pirro con un certo rammarico. Non si sa bene chi fosse stato il primo a lanciare la sfida. Pirro dice che è stato Divan, il capo dell’area di fronte. Gli altri del gruppo invece non ci giurerebbero, ma non è questo il punto. Il punto è che i nostri avi persero l’incontro.
Fu pattuito un unico lancio di dadi.
Il primo a lanciare fu il nostro capo marciapiede. Fu un tiro scialbo. I dadi toccarono terra rotolando solo un paio di volte. Vennero fuori il quattro e l’uno.
Poi fu la volta dell’altro capo. Tenne le mani chiuse attorno ai dadi per un tempo che sembrò infinito. Almeno così ricordava Pirro. Ci soffiò sopra, in segno scaramantico. Quindi li lanciò, facendoli rotolare più volte.
Quattro e due.
Con quei due numeri perdemmo il territorio con effetto immediato e fummo relegati in quest’angolo di marciapiede. A bruciare alla luce del sole d’estate, e a morire per il vento freddo che soffia d’inverno.
Il confine del nostro territorio è segnato dai binari del tram. Dicono che ci passi la corrente elettrica in mezzo. Ma non so se sia vero. Forse è per non farci allontanare mai.
Dopo il primo boccone mi sollevo dalla tavola con uno scatto. Sputo il brodo e piazzo un bel pugno sul piatto, facendolo rovinare per terra. Mi guardano tutti atterriti. Adrian, Samir, Bisar, Mirco. Il più incollerito però è Pirro. Glielo posso leggere sui pugni che ha stretto sopra il tavolo talmente forte da sbiancarsi le nocche delle dita. “Ma che diavolo fai, Nadir?” grida. Poi, un improvviso silenzio cade intorno a noi. Dura per qualche secondo. Seguito da un fievole lamento, forse una risata o forse un veloce commento, proveniente dall’altro lato della strada. Mi stacco dal tavolo e scanso il tentativo di Samir di allungare le mani per afferrarmi. È inutile. Ho deciso, ormai. Ho deciso già da diverso tempo. Muovo alcuni passi all’indietro, poi mi volto. Anche Adrian e Bisar si alzano con uno scatto e sono intenzionati a prendermi sul serio.
Vedo tutto come al ralenty.
La tavola imbandita, le facce impietrite di tutti quanti, il marciapiede, la zona di fronte.
Muovo ancora diversi passi. Comincio a correre. Prima piano e poi più forte. Mi ritrovo in breve tutti gli altri alle calcagna, ma si fermeranno prima o poi. Ne sono convinto. Punto dritto verso i binari. A questo punto mi chiedo: “Ci passerà davvero l’elettricità in mezzo o è una storia del tutto inventata?”
22 novembre 2014
Racconto accattivante, intrigante, ben scritto. Sono curioso di leggerne il proseguo. Complimenti Alfredo.