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Il Funesto Demiurgo | Emil Cioran

“Non c’è che un segno, forse, ad attestare che si è capito tutto: piangere senza motivo”

Apparso per la prima volta in Francia nel 1969, “Le mauvais démiurge” è l’opera con cui il filosofo e scrittore rumeno Emil Cioran (1911- 1995) si misura con la dimensione religiosa, così come il titolo stesso suggerisce. In un’ottica prettamente mitologica, il Demiurgo è definibile come una semi divinità ordinatrice, plasmatrice e imitatrice capace di dare vita alla materia. Il primo a parlare di questa forza è Platone nel Timeo. Per superare la separazione tra il mondo delle idee e mondo sensibile, Platone introduce il demiurgo il cui compito è quello di mediare tra questi due mondi. E’ importate sottolineare, però, come il demiurgo non abbia la possibilità di creare dal nulla, e, in quanto trait d’union fra i due mondi platonici, deve fondare il suo operato, ispirato alla forma ideale, sulla materia già esistente.

Nel pensiero di Cioran, il demiurgo non è un creatore buono, ma si configura come un essere maligno e la creazione altro non è se non uno scandalo a cui il Dio buono dei cristiani non può aver preso parte. Il Dio buono, incapace di creare in quanto privo di sufficiente immaginazione, è rimasto in disparte mentre un essere maligno dava vita al mondo. Tutto ciò che è vivente nasce dal male e, sempre secondo Cioran, basta guardarsi attorno per rendersi conto che ciò che ci circonda non può che essere frutto di un’entità maligna.

Nell’ottica di Cioran, la creazione, che non merita di realizzarsi, è rimasta allo stadio di abbozzo ed è diventata una colpa dell’essere umano che non accetta di “rimanere in se stesso”, ma “vuole trasmettersi […] Perciò, facilmente si vede estendersi, uscire da sé, un dio cattivo piuttosto che un dio buono”. L’autore accosta quindi la vita alla lebbra per le loro comuni qualità di avidità e di impazienza di espandersi. Secondo Cioran, bisogna disincentivare la procreazione in quanto prosieguo dell’attività nefasta del demiurgo; i genitori sono dei “pazzi” e la loro decisione di mettere al mondo una discendenza è sconcertante: “Che l’ultimo dei malnati abbia la facoltà di dare vita […] può esserci qualcosa di più demoralizzante?”. Cioran riprende un passo della Genesi e si dice incapace di credere che il Padre buono abbia incoraggiato la moltiplicazione della specie umana e la popolazione dell’intero Globo, arrivando a proporre di cancellare quei versi della Bibbia per lavarla “dall’onta” di averli accolti. Con ironia caustica si prevede l’abolizione del matrimonio e la lapidazione delle donne incinte perché “procreare significa amare il flagello, volerlo conservare e favorire”. La carne, posta in analogia con la cancrena, continua ad estendersi sulla superficie terreste, senza alcun limite, l’uomo non impara dalle disfatte della vita. Cioran parla della scomparsa degli animali a causa della moltiplicazione senza limiti della specie umana, dell’”orrore di vedere un uomo là dove si poteva contemplare un cavallo!”, riflessione che ricorda quella contenuta nelle pagine finali de “La coscienza di Zeno” di Italo Svevo, che rimanderebbe a sua volta al principio della popolazione elaborato da Thomas Malthus ne “Saggio sui principi della popolazione” del 1798, secondo il quale la popolazione, che tende a crescere seguendo una progressione geometrica, è condannata ad impoverirsi progressivamente perché le derrate alimentari crescono secondo una progressione aritmetica. Cioran prevede quindi un sovraffollamento del pianeta in cui sarà impossibile ritagliarsi uno spazio di solitudine fisica. La condanna della specie è quantomeno evidente nelle affermazioni sopracitate, ma l’autore ce ne dà una conferma definitiva con queste parole “Sia sbarrata la strada alla carne, si tenti di paralizzare la sua temibile spinta. Stiamo assistendo ad una vera e propria epidemia di vita, a un brulicare di visi”

La conclusione, che riconduce alla premessa iniziale, non può che essere una:  tutto ciò che esiste è figlio di “ un dio infelice e cattivo, un dio maledetto”. Sarebbe logico, giunti a questo punto, allontanarsi il più possibile dalla figura di questo dio negativo, ma Cioran, evidentemente influenzato dal pensiero di Friedrich Nietzsche, sostiene che l’uomo necessita del demiurgo per tranquillizzarsi sulle sue origini incerte, l’uomo ha bisogno di attribuire le sue lacune, le sue miserie e i suoi rimpianti a qualcuno che sia il più possibile distante da lui. La figura del creatore rappresenterebbe, inoltre, una finzione che assicuri all’uomo di non trovarsi mai in una condizione di assoluta solitudine. Questa necessità che l’uomo percepisce deriverebbe dalla cultura cristiana, sconosciuta invece nelle civiltà orientali a cui Cioran guarda sempre con ammirazione. Cioran si chiede come sia possibile che si possa accettare che coesistano e che abbiano lo stesso ruolo divinità completamente diverse, di religioni opposte. Se si comprendono le altre religioni, se si tollera l’esistenza di altri dei, allora i credo religiosi sono davvero al capolinea. Riprendendo la teoria della “morte di Dio” elaborata dal filosofo tedesco Friedrich Nietzsche, Cioran sostiene che un Dio che abbia perso la sua crudeltà ha perso allo stesso modo la possibilità di farsi rispettare. Questo è ciò che si sta verificando alle grandi religioni del nostro secolo, che dovranno inevitabilmente lasciar spazio a nuove divinità. La fede gioca un ruolo importante nella vita di coloro che vogliono disfarsi del problema dell’indefinito e dall’angoscia che ne deriva. Lo scrittore afferma, infatti, come il numero dei problemi diminuisca una volta che una religione si sia insediata perché sottrae all’uomo “il peso della scelta”, tema affrontato anche dal filosofo Jean-Paul Sarte nella sua opera “La Nausea”. Su questo punto, però, tra i due filosofi è presente una divergenza di opinioni: se per Sartre la sconfinata libertà dell’uomo sfocia nell’angoscia nel momento in cui si realizza di essere responsabili non solo per se stessi, ma della comunità intera, per Cioran questa “responsabilizzazione” non avviene visto che l’uomo, errore della metafisica, non può essere ritenuto colpevole dei suoi misfatti.

Nel terzo capitolo, “Paleontologia”, Cioran propone al lettore una serie di riflessioni scaturite da una visita casuale al Museo di Storia Naturale. Racconta di come fosse stato costretto da un violento e improvviso acquazzone a ripararsi per qualche ora all’interno della struttura. Sebbene siano passati diversi mesi da questa visita, l’autore afferma che mai dimenticherà “quelle orbite, più insistenti a guardarvi che se fossero state occhi, quella fiera di crani, quel ghigno automatico a tutti i livelli della zoologia”  Cioran inizia poi ad analizzare le ossa e la carne: mentre le prime sono “così solenni, così piene di sé”, la carne è presentata, invece, come “un’impostura, un inganno, un travestimento che non copre niente”. E’ da notare che, tra le altre affermazioni sulle qualità della carne, una in particolare rimanda alla tesi sostenuta da Svevo all’interno de “La coscienza di Zeno”; scrive Cioran “[la carne] non è né strana né tenebrosa, è deperibile fino all’indecenza, fino alla demenza; non solo è sede di malattie, è essa stessa malattia, incurabile niente, finzione generata in calamità “. Nonostante l’autore giudichi come insignificante questa parte dell’essere umano, non riesce comunque a restarne indifferente, ma prova anzi, un sentimento di repulsione e di terrore. Facendo riferimento alla teoria buddhista del nirvana, l’uomo dovrebbe porsi come obiettivo il distacco da tutto ciò che gli è caro e, in particolare dalla carne e dello scheletro. Per riuscire a raggiungere questo traguardo, l’autore invita ad esercitarsi lasciando in disparte ogni tanto il nostro rivestimento ingannevole ovvero il viso, la pelle, il grasso, per riuscire a capire cosa è veramente fondamentale in noi. Cioran avverte, però, che dopo questo tipo di esercitazione “si è più soli e più liberi, invulnerabili, o quasi” Se poi si riuscisse ad estendere questa separazione tra scheletro e carne e interiorità, allora sarebbe possibile vincere gli affetti. Se lo sguardo fosse in grado di penetrare la profondità delle altre persone fino a raggiungerne le viscere, avvolgersi nelle sue orride secrezioni e nella fisiologia dell’imminente cadavere, si riuscirebbe a slegarsi da tutti i legami affettivi.

Anche la paura e l’ansia sono riconducibili alla materia. La paura, infatti, sarebbe propria della carne, dalla quale non si separa mai, formando quasi una massa indistinta. La paura insita nell’anatomia umana è anche l’unico punto di contatto con il mondo animale, sebbene essi abbiano conosciuto una paura diversa da quella che all’improvviso attanaglia l’uomo. Cioran arriva a definire la paura come un castigo inflitto alla carne, rea di aver tradito la materia. Questa colpa viene poi estesa all’individuo nella sua interezza , che è costretto a subire l’esistenza perché “la vita è uno stato di colpevolezza, tanto più grave in quanto nessuno ne prende realmente coscienza”. E’ in questo contesto di paura diffusa e costante e nella visione della vita come una sorta di punizione che si inserisce il concetto di ansia, indicata come “coscienza della paura”. L’azione dell’ansia sarebbe quella di favorire lo sviluppo dei pensieri per meglio distruggerne l’impeto successivamente, evita la perdita di controllo, l’ebbrezza, la facoltà di smarrirsi tutte condizioni necessarie per lasciare liberi i pensieri. Rispetto alla paura “bruta, anonima, […] origine e principio di tutto ciò che vive. Per quanto atroce, essa è tuttavia sopportabile, se tutti i viventi vi si rassegnano; li scrolla e li devasta, non li annienta”, l’ansia è una paura che non si materializza, che si ripiega su se stessa per auto divorarsi. L’unico modo che si ha per zittire la paura è la soppressione, almeno momentanea, di ogni desiderio. Se si vuole arrivare ad una tregua anche con l’ansia bisogna giungere ad una esaltazione in accordo tra l’essere e l’assenza di essere, solo così l’uomo potrà conoscere la gioia neutra cioè quella priva di determinazione, rimedio all’ansia e conclusione positiva dell’esistenza. Non si possono escludere, però, ricadute e retrocessioni ad uno stato che sembrava ormai superato, visto che la “gioia neutra è soltanto ansia trasfigurata”.

La vista di tutti quegli scheletri animali e umani presenti all’interno del museo induce a una riflessione sulla liberazione e sull’esistenza. Nel luogo dove l’ uomo “è niente”, Cioran comprende che tutte le dottrine che teorizzano la liberazione sono incapaci di interpretare il passato e l’avvenire umano. La liberazione non può che essere individuale visto che la moltitudine è relegata ad una verità inferiore che continua a confondere realtà e irrealtà. Nella vita quotidiana, sostiene Cioran, l’essere umano continua a passare dalla teoria dell’esistenza del mondo al suo contrario, per evitare di compiere una scelta che comunque non porterebbe in alcun modo alla semplificazione o all’eliminazione di alcuni dubbi. L’unico modo per raggiungere la “nulla radice del tutto”, è capire che ciò che siamo non è noi, così come ciò che possediamo non è noi fino ad arrivare a non essere più complice di nulla, “nemmeno della propria vita”. Una volta aperti alla vacuità di tutto ciò che esiste, questa vacuità entra a far parte dell’individuo e lo sottrae dalla “fatalità di essere sé, di essere uomo, di essere vivo. Se tutto è vuoto, questa triplice fatalità sarà anch’essa vuoto” Tuttavia, sostiene l’autore, nessuna di queste tre fatalità è paragonabile a quella di essere uomo che, “fra tutte le catene è la più tremenda”. All’interno del capitolo “Il non-liberato” è presente una riflessione tratta dalla dottrina buddhista, molto cara all’autore. La strada che porta alla liberazione è lastricata di rinunce e di negazioni: negazione del pensiero, del desiderio, dell’essere. Solo in questo modo l’uomo può tendere al vuoto e, conseguentemente, alla liberazione. Nella filosofia di Cioran, il vuoto è “l’abisso senza vertigine” espressione mediante la quale si spiega ciò che l’autore definisce come una “grande scoperta” ovvero che “niente conta”. Questa intuizione “deprimente” può essere convertita in un concetto positivo solo dal vuoto, che riesce a conferire all’uomo la sicurezza dell’irrealtà del sé, sostituendolo. E’ interessante vedere come Cioran affidi al vuoto un effetto di riempimento, accentuato poi dall’affermazione “pienezza nel vuoto”, si può parlare, in questo caso, di una sorta di nichilismo rovesciato.

Altro aspetto fondamentale del pensiero di questo filosofo rumeno è il ruolo del suicidio a cui viene dedicato un intero capitolo: “Incontri con il suicidio”. Quasi sempre l’ideazione suicida è collegabile all’insonnia che sembra non concedere tregua all’autore “Vi sono notti in cui l’avvenire si abolisce, e di tutti i suoi momenti sussiste soltanto quello che sceglieremo per non più essere”.  Contrariamente a quello che si potrebbe supporre, nell’ottica di Cioran il suicidio ha una valenza tutt’altro che negativa:  in un’ intervista rilasciata per Rossend Arqués, afferma “Senza l’idea del suicidio mi sarei già suicidato. Con ciò voglio dire che per me il suicidio è un’idea positiva, che aiuta a vivere. Senza la possibilità di uscire dalla vita, questa sarebbe insopportabile. In tutti i momenti difficili della mia vita, e non solo in questi, ho sentito una specie di liberazione pensando che era tutto nelle mie mani, che ero padrone del mio destino”. Il suicidio è un metodo per sopportare se stessi e la vita. L’atto estremo è una sorta di ribellione nei confronti della morte e del destino, un modo per prendere il controllo sulla propria esistenza “Il fatto così semplice di guardare un coltello, e capire che dipende unicamente da voi il farne un certo uso, infonde una sensazione di sovranità che tende a trasformarsi in megalomania”. Al cospetto della portata della decisione di togliersi la vita, tutto viene ridimensionato: “Ogni atto presuppone una visione limitata, tranne quello di uccidersi, che invece procede da una visione vasta, tanto vasta da rendere irrealizzabile e vano ogni altro atto. Tutto, al suo confronto, è futilità e derisione. Essa è la sola a proporre una via d’uscita, voglio dire un abisso- un abisso liberatore”. All’interno del capitolo ci vengono presentati decine di aforismi sul suicidio, tutti molto diversi tra loro perché affrontati sotto molteplici punti di vista. Si parla di predestinazione al suicidio (“Non si è predisposti al suicidio, si è destinati al suicidio”), di diritto di sapere quando è giunto il momento di distruggersi,  della perdita della capacità si sopprimersi a freddo tipica degli antichi, ma anche dell’insignificanza di questo gesto “Che ci si sopprima oppure no, tutto rimane immutato. Ma la decisione di sopprimersi appare a ciascuno come la più importante che sia mai stata presa. Le cose non dovrebbero andare così. Ma così è“.

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Author: Giulia Costi

Ci sono domande a cui non riesco a dar risposta e pensieri che mi scavano un buco nel petto. Leggere e scrivere sono la mia medicina, il mio oppio, il filo da sutura che tiene insieme i pezzi del mio io.

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2 Comments

  1. Libro fondamentale per capire le tradizioni rumene, ed è straordinario quanto questa filosofia sia vicina al pensiero di Nietzsche. I riferimenti a Malthus e Budda sono importanti per capire il senso del radicamento di questo tipo di pensiero.

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    • Grazie Edoardo per il tuo commento. Il pensiero di Cioran è sicuramente pervaso da influenze di altri autori a lui contemporanei e non e si incardina perfettamente nel contesto esistenzialista Novecentesco.

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