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Apeiron

Eravamo appesi a una decina di metri d’altezza su un filo teso tra due condomini di periferia. Ogni tanto il vento ci faceva ondeggiare avanti e indietro e spargevamo nell’aria odore di lavanda, un tocco di primavera in questo quartiere invaso da fast food e gas di scarico. Secondo A. era questo lo scopo della nostra esistenza: entrare in lavatrice una volta a settimana sporchi e puzzolenti e uscirne qualche ora più tardi candidi e profumati. A. era un sognatore: per lui valeva la pena vivere soltanto se si riusciva a cambiare il mondo, anche in minima parte. E lui il mondo lo cambiava! Avreste dovuto vedere il suo sorriso nelle ore successive al lavaggio: se ne stava appeso al filo, cullato dal vento primaverile, con un’espressione beata e compiaciuta, conscio del buon odore che emanava e dell’effetto che procurava ai passanti… I momenti bui parevano così lontani.

Di fianco a me c’erano i gemelli L. e K., due calzini della peggior specie. I loro scherzi e le loro battute rimbombavano in tutto il viale, o almeno così sembrava a me. Le loro voci mi entravano nelle maniche e lì rimanevano per giorni interi a tormentarmi, solo nel sonno avevo un po’ di tregua. I gemelli rappresentavano tutto ciò che non ero e tutto ciò che non ho mai avuto: loro provenivano da una fabbrica di marca e centinaia di migliaia di loro fratelli erano venduti nelle boutique delle più grandi città del mondo, per la loro provenienza e il loro status si sentivano sicuri di sé, i fieri padroni del mondo. Non avevano conosciuto il dubbio, quell’invisibile insetto che ti mangiucchia le interiora mentre ancora fingi un sorriso, né la tristezza o la disperazione di essere la dimora di tanti insetti, piccoli e grandi, deboli e robusti, arrendevoli e tenaci. Ogni qualvolta i gemelli aprivano le cuciture, l’insetto dell’angoscia si risvegliava e riprendeva a mangiucchiarmi e io rimanevo lì, come un fesso, a cercare di tenere insieme i pezzi del mio tessuto.

Era fine marzo quando venne la tempesta. Non era stata prevista da nessun meteorologo e colse tutti impreparati, non che ci fosse poi nulla da fare per mettersi in salvo. La sorte di noi tutti era stata stabilita molto tempo fa. Verso le 17 un lampo tagliò il cielo e pochi secondi dopo si udì il tuono che accompagnava i primi scrosci d’acqua. Per due giorni interi la pioggia batté sulle tegole delle case e sull’asfalto delle strade, mentre il vento continuava a bussare alle porte e alle finestre. Non ci furono morti né feriti, ma quella tempesta ci aveva rapito la luce dagli occhi. Intendiamoci, L. e K. non avevano risentito degli avvenimenti e continuavano la loro vita come se nulla fosse, così come la maggior parte degli umani, ma per me e per qualche altro individuo quel giorno fu la morte: spogliati delle nostre esistenze venimmo gettati nell’ombra di noi stessi. La pioggia ci aveva trafitto e il vento trapassato. Eravamo stati scossi e sciolti, ridotti a un cumulo piangente di nulla e niente. L’Apeiron, così si chiamava la perturbazione, aveva gonfiato i parassiti: potevamo sentire la puntura delle loro zanne e lo schiocco della loro mandibola mentre ci masticavano voraci e insaziabili. Ci sentivamo sull’orlo della dissoluzione, non percepivamo più i nostri confini, dove finivamo noi e iniziava il resto del mondo. A volte mi ritrovavo a tirarmi degli schiaffi per essere sicuro di abitare ancora quel tessuto sgualcito e sformato. Alla notte lo sognavo, l’Apeiron. Mi vedevo appeso al filo, graffiato da quegli artigli di pioggia fredda, sentivo aprirsi dei fori nel mio corpo attraverso i quali ululava e soffiava il vento e i parassiti continuavano a gonfiarsi

gonfiarsi

gonfiarsi.

Da quel giorno non so più distinguere il sonno dalla veglia e l’incubo dalla vita. Ringrazio di non avere uno scheletro da sostenere, di non dover camminare o compiere qualsiasi altra attività perché non ne avrei le forze. Tutto quello che devo fare è ricordarmi di sorridere.

Ricordati di sorridere!

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Immagine di Copertina: Walter Faraoni | Panni stesi e cabine rosa. 

Author: Giulia Costi

Ci sono domande a cui non riesco a dar risposta e pensieri che mi scavano un buco nel petto. Leggere e scrivere sono la mia medicina, il mio oppio, il filo da sutura che tiene insieme i pezzi del mio io.

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3 Comments

  1. Racconto surreale, delizioso. Scrittura pacata ed avvolgente.

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  2. Grazie Giorgio!

    Di seguito lascio un estratto dell’articolo filosofico che mi ha ispirato nella stesura del racconto e che può aiutare i lettori a cogliere il senso dell’Apeiron,
    “L’angoscia è il sentimento che segnala la risonanza dell’apeiron nell’individuo, l’impossibilità di tenere il soggetto nel suo limite. […] L’angoscia è il divenire apeiron dell’individuo, l’effettiva distruzione dell’individualità”

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  3. Ho apprezzato l’idea, lo stile, il registro. Si va verso l’alto.

    Consiglio la scrittrice, che un po’ di tedesco dovrebbe saperlo, di indagare un nome: Adelheid Duvanel

    Gabriella de’Grandi

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