“I could never again be an angel …
innocence, once lost, can never be regained.”
(Lucifer, in Sandman #23: “Season of Mists: episode 2″)
Caro Masotti, mi piace l’idea di poterti scrivere una lettera soltanto con la mia mente. Non potrei fare altrimenti. Da parecchi anni ormai, ho dita nodose, rinsecchite e artritiche. Insomma, mani da vecchio. Ma nonostante questo, la lettera è piena di spunti interessanti. Non troverai imperfezioni, almeno penso; né tratti indecisi, perché la mia mente – strano a dirsi – riesce a viaggiare ancora più veloce delle mie mani.
Da quando mia moglie Florinda è stata chiamata Lassù, vivo in completa solitudine. Da tanto tempo. Non ho un amico, né qualcuno che mi venga, di tanto in tanto, a trovare. Anche il luogo in cui abito è solitario. La mia enorme casa a due piani sorge in cima ad una sporgente punta di terra a circa quattro chilometri di distanza dal centro abitato più vicino. Mi piace immaginarla come la replica della casa di Dracula.
Probabilmente nessuno viene a farmi visita per il timore di qualcosa che non esiste. Qui, a parte questo vecchio, non c’è proprio niente di cui avere paura. Te lo posso garantire. Certe volte, mi immagino un uomo, lì dal basso, indicare questa costruzione a suo figlio e dire: “Lì, ci abita un vampiro” o qualcosa del genere. La gente ha tanta immaginazione e si spaventa con molto poco. La mia è una bella casa. Alle spalle ha un piccolo giardino con tigli, ginepri e cespugli selvatici. Delle piante rampicanti scavalcano ostinatamente le pareti della facciata posteriore e riescono a donare, almeno a una parte della costruzione, un fascino decadente. Una seduzione di erba e pietra. Senza tempo.
Quando è bel tempo, d’estate principalmente, trascorro gran parte della giornata in veranda. Mi abbandono su una sedia di vimini, accanto ad una bottiglia di latte e menta. È l’unica cosa che bevo in estate (invece, in inverno mi riscaldo le budella con del tè al limone). Me ne verso un bicchiere e osservo il mondo esterno sperando che la mia giornata trascorra senza annoiarmi troppo. I dolori artritici sono terribili. Il calore, la rigidità, l’arrossamento. Sono spesso insopportabili, ma cerco di non lamentarmi perché so che c’è chi sta peggio di me. Almeno io posso sollevare il bicchiere e portarlo alla bocca.
La vista dalla veranda è capace di far dimenticare persino questo, caro Masotti. Ti si mozza il fiato da qui su. Dovresti vedere. A ovest e a nord c’è il mare, a est, ma abbastanza in lontananza, si possono vedere le piccole punte rocciose degli Appennini. E quando, soprattutto in inverno, in uggiose giornate grigie senza fine, scoppiano violenti temporali, posso avere la fortuna di assistere a occasionali battaglie di acqua, vento e cavalloni che si sollevano per diversi metri prima di infrangersi con violenza contro le scogliere.
Certe volte, di primo pomeriggio, dopo aver mandato giù un boccone, un’improvvisa stanchezza mi avvolge la testa rendendola leggera. È come se una tempesta di sabbia si sollevasse improvvisa e non mi facesse vedere più. Quando riesco a vedere di nuovo, qualche cosa intorno a me è cambiato. Anche se non saprei dire cosa. Forse è solo l’immaginazione logorata di un povero vecchio, ma è come se venissi proiettato in una zona con più ombre che luci. Se sapessi come si adopera un pennello, ti farei un quadro, ma dovrai accontentarti del mio racconto.
Mi capita spesso, durante i miei sogni pomeridiani, di avere delle visioni. Non sono semplicemente sogni. I sogni hanno sempre qualcosa di vago, di troppo indefinito. Le mie visioni hanno un’anima, una forza di volontà gentile. All’inizio mi è capitato di vedere Piazza San Pietro. Distinguevo perfettamente ogni altare, statua di marmo o colonna. Ho visto il movimento ipnotico delle fiamme in luoghi dove non c’era traccia d’incendio. Da qualche tempo, invece, vedo questa figura avanzare fiera nella mia direzione. A quel punto la tempesta di sabbia si placa; io mi ritrovo in ginocchio a scavare a piene mani nella rena, tentando di modellare una figura. Ma non sono capace di scolpire nessuna forma, sennò ti mostrerei il volto di quell’uomo o qualunque cosa esso sia.
Non è del tutto vero che mai nessuno viene a trovarmi. Qualcuno c’è. Non avevo intenzione di mentirti, amico mio; semplicemente, non trovavo il momento adatto per confidarti certe cose. Adesso, però, quel momento, è arrivato. Per prima cosa sento riecheggiare uno scalpiccio di zoccoli sull’acciottolato. È come se tuoni, in lontananza, preannunciassero un temporale imminente. Ma non ci sarà nessuna tempesta. È una carrozza funebre trainata da tre coppie di splendidi Frisoni Occidentali. Nel momento in cui l’uomo scende dal carro si sente il truce gracchiare di un corvo. Quindi lo vedo avanzare a passi lenti attraverso lo spiazzo riservato alle statue di marmo. Orribili imitazioni di statue greche che fissano il tutto con i loro vacui occhi ciechi.
“Chi sei?”, chiedo dopo un po’.
Quando è proprio vicino alla veranda, lui si ferma e china la testa. “Sono il padrone di tutto questo”, fa lui, sollevandola di nuovo.
“Che storia è mai questa? Sei tu che hai invaso la mia proprietà”, dico con un tono molto amareggiato.
L’uomo avanza ancora di qualche passo. Indossa un lungo pastrano nero, ha capelli impomatati, tutti tirati all’indietro e nel volto pallido come la cera si possono notare due occhi sfuggenti. Neri, profondi come i più oscuri degli abissi, e impenetrabili. “È tutto il contrario”, fa lui. “Se c’è qualcuno che ha invaso la mia proprietà, quello sei proprio tu.”
“Ma questa è casa mia”, insisto.
“Non devo rendere conto a nessuno. Lo sai chi sono io?”
“Sei un demone, un mostro? Chi sei?”, gli chiedo ancora.
“Non sono un demone e non sono un mostro”, dice. “Sono il Dio del Sonno. Mio padre è la personificazione dell’Oscurità e mia madre è la guida dei Trapassati.”
“Quindi sono morto?” Provo un’improvvisa fitta allo stomaco.
“Non sei morto, Vecchio. Te lo posso garantire.”
“E, allora, perché ti vedo?”, gli domando.
“Mi vedi perché sei penetrato nel mio Regno. Lo fanno tutti gli uomini, quando si addormentano, anche se al risveglio quasi nessuno se ne rammenta più.”
Il pomeriggio, all’improvviso, diventa più cupo. Non è notte, ma è come se un’eclissi impedisse al sole di risplendere. Dura poco; non saprei dire quanto. C’è un silenzio profondo. Pure il corvo, in questo momento, ha smesso di gracchiare. È come se presente e passato si mescolassero, dando vita a una soluzione sbiadita. È notte, ed è giorno. Si tratta di una visione? Oppure sto rivivendo un lontano ricordo seppellito in qualche meandro della mia mente? Non saprei dirlo. Da questo momento, non posso essere più sicuro di niente.
“Devi perdonare la mia richiesta… non sono che un povero vecchio. Ma io e te ci siamo mai incontrati prima di adesso?” dico interrompendo quel lungo silenzio carico di imbarazzo.
“Sì, Vecchio.”
“E come mai io non mi ricordo di te?”
“Te l’ho detto. Gli uomini che penetrano nel mio Regno, al proprio risveglio non se lo ricordano più. Tu non sei diverso dagli altri, Vecchio.”
Vorrei replicargli qualcosa, a quel punto del dialogo; ma qualche altra cosa me lo impedisce. È un uomo sfuggente. Ha qualcosa che non si può cogliere. Forse, è per via del mio imbarazzo. O per il crepuscolo che tenta di spegnere il giorno senza riuscirci. Non saprei dirtelo, caro Masotti.
Dopo poco, l’uomo mi domanda: “Mi accompagneresti, Vecchio?”
A mia volta, gli domando: “Dove?”
“Non fare domande. Seguimi e basta”, fa lui.
Nel mentre mi assale la paura del buio, dell’ignoto, il pensiero della morte fa di nuovo capolino nel mio stomaco. Sento uno sciame di farfalle ribollirci dentro. È la prima volta che mi sento perduto. Chi non avrebbe paura di un carro funebre e di un uomo torvo come un uccello del malaugurio? Questa volta tengo tutte le considerazioni per me, e non chiedo più nulla.
Mi alzo dalla sedia, lascio il bicchiere di latte e menta, e lo seguo.
Camminiamo per un bel pezzo; ma ti dico: un bel pezzo in un sogno non vuol dire nulla. Il tempo scorre in modo diverso, e non esiste uno strumento che lo possa misurare. Gli istanti, lì, non hanno limiti e non sono computabili. Ma non voglio soffermarmi troppo su una questione poco interessante. Ti dicevo, attraversiamo il viale di casa, lo spiazzo con le statue di marmo cieche e penetriamo in un bosco. Già quando giungiamo al suo limitare, per quanti sforzi faccia con la mente, non mi rammento di questo luogo. Di rimpetto alla veranda, ricordo le montagne a est. Il mare, a nord. Questo, lo ricordo molto bene. Un’ampia distesa azzurra che riflette la luce scintillante del sole sulle onde, nelle tiepide giornate di primavera; ma un bosco, a essere sincero, non l’ho mai veduto prima di questo momento.
In una radura, attorniata da betulle, olmi, e grosse sequoie, vedo della gente. Disposti in semicerchio si riscaldano al calore di un falò. Qualcuno di essi si volta verso di noi, quando gli siamo proprio a pochi passi.
“I miei fratelli e le mie sorelle”, dice il Dio del Sonno. “Si riuniscono in questo luogo quando non sono impegnati come me, in questo momento.”
Ne indica uno, posto all’estremità sinistra; è grassoccio, curvo, con una terribile escrescenza tumorale in pieno volto, e completamente ricoperto di melma, e dice: “Questi è Incubo. Signore dell’angoscia, Re dell’oppressione e di tutti mostri che abitano nel tuo cervello, Vecchio.”
Indica appresso: “Allucinazione o Inganno o Illusione.” È una donna conturbante. Ha lunghi capelli castani e occhi di due colori diversi. Si direbbe una fata, se avesse delle ali e un abbigliamento meno cupo. “Pure lei hai avuto occasione di conoscere, di tanto in tanto. In fondo, chi non è mai stato traviato almeno una volta in vita sua?” Pure Allucinazione o Inganno o Illusione non dice nulla. Si limita a fissarmi. La bocca è sorridente, lo sguardo esaltato, e il corpo fabbricato intorno ad una mera illusione ottica.
Nel semicerchio ci sono ancora: Delirio, Utopia, Speranza, Riposino (una specie di bambino piccolo e tozzo) e Notti Bianche. L’uomo indica anche loro.
Ad un certo momento, Utopia staccandosi dal gruppo dice: “Fratello, credo di parlare a nome di tutti. In quest’ultimo periodo il nostro piccolo consesso ha avuto occasione di riunirsi più di una volta. Durante il tempo in cui tu operi incessantemente, noi altri siamo sempre costretti a riposare. Personalmente, fatico a ricordare l’ultima volta in cui questo Vecchio ha avuto un ideale da inseguire o anche una piccola aspettativa di vita migliore. È passato troppo tempo. La nostra decisione è, quindi, quella di dividere i compiti in una maniera più equa.”
“Non è ancora giunta l’ora di abbandonare questi luoghi”, spiega l’uomo del Sonno. “Tu Utopia, tu Speranza, e tu Notti Bianche, non avete mai trovato troppo spazio nella vita di quest’uomo. E non credo che qualcosa sia cambiato in questo momento. Sai quali sono gli accordi, Utopia.”
“Ma, Fratello, che ne sarà di noi? A furia di rimanere inoperosi rischieremo, presto o tardi, di scomparire del tutto. Di essere dimenticati e spazzati via, proprio come il vento che ulula in questi boschi isolati nelle freddi notti d’inverno.”
“Gli accordi erano questi”, ripete l’uomo del Sonno. “Quindi, non insistere.”
Utopia s’allontana e mette di nuovo i palmi delle mani a contatto col calore del fuoco. Le parole del Dio valgono come una sentenza. Restiamo ancora un poco lì, lasciandoci avvolgere dal silenzio profondo. Finché il crepuscolo si consuma del tutto, e cala una notte molto cupa su di noi.
“Le catene sono terribili. Le oppressioni fanno parte della vita senza che nessuno le desideri”, commenta l’uomo rimuginando, forse, sulle parole del fratello. “È la vita. È fatta così. C’è chi nasce nobile, e chi schiavo. Nessuno può farci niente. In ogni caso, io sconfesso ogni forma di prigione. Chissà, forse, un giorno, qualcuno abolirà tutte le galere. Scomparirà per sempre ogni forma di schiavitù. In cielo, come in terra. Ma quel giorno è ancora lontano.”
“La mia prigione si chiama vecchiaia”, dico io e muovo qualche passo all’indietro tentando di allontanarmi da lì.
L’uomo del Sonno se ne accorge immediatamente e mi chiede: “Dove vai, Vecchio?”
“A casa mia, Signore. Non capisco che cosa ci faccio qui.”
“Ma casa tua non è in quella direzione.”
“A me è sembrato che… Noi si provenisse proprio da lì”, gli dico.
“Decido io il dove, il come e il quando”, fa il Dio del Sonno. Ha indurito l’intonazione nella sua voce. Adesso è come se dalle sue labbra, uscissero fuori dei sassi. La sua faccia è una macchia che si sbiadisce mentre il cielo man mano tende a scurirsi. “Vorresti vivere per sempre nel mio Regno? Ti donerei un grande palazzo. Vivresti anni intensi, conoscerai persone di ogni estrazione e ceto sociale. Sarà una vita appagante, te lo garantisco”, aggiunge lui con tono profondo e ancora più duro.
“Un grande palazzo? Sono lusingato della Vostra offerta, Venerabile Signore; ma voglio tornare a casa mia, a trascorrere pomeriggi monotoni bevendo latte e menta e guardare le onde del mare in lontananza”, dico. Il panico mi assale di nuovo. Nessuna penna, penso, sarebbe in grado di descrivere la paura della morte. Poco dopo, aggiungo: “Mi accontento di quello che ho. Non sono ambizioso, e di un grande palazzo non saprei che farmene.”
“Comprendo”, dice l’uomo. “Rispetto il tuo desiderio e farò come vuoi. Ma ti prego di rifletterci su; e se cambi idea fammelo sapere. Anzi, facciamo così. Mi faccio vivo io.”
Mi sveglio di soprassalto, guardandomi attorno confuso. Scopro di essere seduto ancora nella poltroncina di vimini. Mentre ero assopito, senza accorgermene, mi sono versato sulla camicia mezzo bicchiere di latte e menta. Mi toccherà lavarla, porca miseria. Comunque, poco male. La bottiglia è ancora mezza piena. Mi verso un altro bicchiere di questa mistura verde; ha un colore orribile. Sotto certi aspetti ricorda il surrogato del Mostro di Blob. Ho ancora la testa pesante di sonno. Non so quanto abbia dormito. Cinque minuti, come cinque ore. Non lo so.
Caro Masotti, mi piacerebbe un giorno potermi ricordare tutta questa vicenda per poterla finalmente mettere nero su bianco. Non sono proprio sicuro che una cosa del genere avverrà mai. L’artrosi alle mie mani, ricordi? E per un vecchio come me, inoltre, è difficile tenere a mente una storia del genere per più di dieci minuti. Questo lo saprai bene. Però, non piace disperarmi troppo, e credo fermamente nei miracoli. Quindi, chissà. Ad ogni modo, ora, ti devo lasciare. Già sento riecheggiare lo scalpiccio di zoccoli sul selciato. La carrozza funebre trainata dai neri cavalli olandesi è arrivata. Non me l’aspettavo di certo così presto! Si arresta e ne discende l’uomo del Sonno. Percorre lo spiazzo, mi si avvicina con passi molto lenti. Li sento risuonare come rintocchi sordi di una campana incrinata.
“Sei tu, Signore del Sonno?”, gli chiedo.
“Non fare domande, Vecchio” fa lui. “Seguimi e basta.”