Gesù si sentiva ora un po’ nervoso. Aveva troppi occhi puntati addosso e temeva un fallimento.
Si trovavano a Cana, in Galilea, in mezzo ad un mare d’invitati al matrimonio. A dire il vero, in principio, alle nozze era stata invitata soltanto Maria, ma poi l’invito degli sposi fu esteso pure ai ragazzi del gruppo non appena si era sparsa la voce che tra di loro ci fosse uno in grado di sfidare le leggi della natura.
Giusto il giorno prima Giovanni aveva chiesto a Gesù se poteva prendere appunti durante uno dei miracoli. L’idea del discepolo era quella di scrivere un volume, sotto forma di verità incontestabile, che narrasse tutti i miracoli di Gesù più importanti. Insomma, un Vangelo di circa duecento pagine da vendere ai fedeli della Palestina.
“Però voglio il 50% dei diritti del tuo libro” aveva messo subito in chiaro il Cristo.
“Non c’è problema”, gli aveva replicato Giovanni. “Ma non è ancora un libro, sono solo dei semplici appunti.”
L’occasione propizia si presentò proprio alle nozze di Cana.
Uno degli invitati, un uomo di mezz’età, con un thobe giallo, e con un grosso naso arrossato, s’avvicinò a Maria e alitandole in faccia un pestifero fiato rancido di alcol le chiese: “Ma voi siete la madre di quel nazareno che dice di essere in grado di fare cose straordinarie?”
“Quel nazareno ha un nome, sa?” disse Maria. “Si chiama Gesù. Gesù Cristo di Nazareth.”
“Gesù Cristo di Nazareth, certo. Sa? È finito il vino…” disse l’uomo capovolgendo e agitando un bicchiere di terracotta.
Maria lo squadrò con aria interrogativa, così come si potrebbe guardare un cavallo che all’improvviso si mette a danzare; quindi sollevò insofferentemente le spalle. “Che ci vuol fare. Cose che capitano.”
“No, signora mia, vede… un matrimonio senza il vino è come un uccello con le ali tarpate” spiegò l’uomo. “Ci chiedevamo, io e altri invitati, se il suo ragazzo… Insomma, mi ha capito, no?”
Dopo qualche altro attimo di incertezza, Maria afferrò il senso di quelle parole, tirò un sospiro e disse: “Ma cosa crede? Che il mio ragazzo sia una specie di fenomeno da baraccone o cose simili?”
“No, no. Signora mia, certo che no” precisò subito l’uomo.
“Mio figlio è candidato a diventare Santo. Anzi, che dico Santo… Lui è figlio di quello lì” spiegò la donna sollevando l’indice al cielo.
“Ma certo, si capisce. E chi lo mette in dubbio?” disse l’uomo. “Ma siccome è un tipo davvero in gamba, magari… per una sciocchezzuola come questa…”
“Vedremo, comunque, quel che si può fare” spiegò ancora Maria.
Poi chiamò suo figlio. Gli disse: “Ragazzo, questi poveri invitati non hanno più vino. Si può fare qualcosa?”
Gesù Cristo, guardando negli occhi sua madre, serrò forte le mascelle e le disse: “Ti ricordi chi sono io, mamma? Sono o non sono Gesù di Nazareth?”
“Sì, sei Gesù di Nazareth. Ma tu non dimenticare che sei al mondo grazie a me” gli disse lei. “Comunque… Qui sono a corto di vino. Vedi che puoi fare…”
“Va bene, d’accordo. Sono a corto di vino” disse il nazzareno riflettendoci su. Poi dopo alcuni secondi, illuminandosi, disse: “Bene. Mostratemi i recipienti vuoti.”
Alcuni servitori lo condussero dinnanzi a sei grossi recipienti di pietra, del tipo adoperato per la purificazione dei Giudei. Gesù disse subito ad alcuni di loro: “Riempite d’acqua i recipienti.”
I servitori risero tra loro; uno di essi commentò: “Ma questo lo avremmo potuto fare anche da noi. Non servivi mica tu?”
Gesù lo fulminò con lo sguardo prima di distendere i suoi nervi alla ricerca della giusta concentrazione. Cercò di svuotarsi la mente e dimenticare di essere circondato da un mare di occhi colmi di curiosità.
Tutto d’un tratto un’aura dorata lo avvolse, trasportandolo a poco a poco ad un livello più elevato di tutti gli altri mortali. Chiuse gli occhi e, dietro lo schermo delle palpebre, intravide i servitori che si apprestavano a riempire i sei recipienti, diventando sempre più piccoli sotto i suoi sandali. La sua mente lo portò quasi fino al cielo. Per prima cosa s’immaginò l’acqua. L’acqua limpida e fresca che sgorga tra le rocce di una montagna. Però non era semplicemente acqua, e non se l’immaginava così come se la sarebbe immaginata una persona qualsiasi. Gesù di Nazareth poteva immaginarsi l’acqua esattamente nel modo in cui se la figurava un filosofo della Magna Grecia. L’acqua pura, l’acqua cristallina, l’acqua in grado di saziare l’uomo assetato. “Questa qui non è semplicemente acqua!”, pensò intensamente Gesù di Nazareth. “No, non è acqua! È qualcosa di più profondo! È qualcosa di torbido, di fermentato, di rosso!”
Giovanni, l’apostolo, il futuro evangelista, intanto prendeva appunti. Festa nuziale, Cana, invitati. Annotava. E ancora: Maria, Gesù, vino. Osservava ciò che accadeva dinnanzi i suoi occhi e con la punta aguzza di un sasso cercava di vergare il papiro. Recipienti, acqua, miracolo. Ogni tanto metteva la superficie di scrittura in controluce e controllava se avesse scritto bene. Un lavoraccio. Al 50%. Doveva essere diventato pazzo! In più nella sua mente si figurava già tutta la scena, e pensava al modo di renderla credibile nella redazione definitiva. Scriveva nella vana speranza di riuscire a mettere su un capolavoro, di essere riconosciuto dai posteri nella qualità di scrittore eccelso e sperare nello stesso tempo di non essere presso per pazzo.
Quando i servitori terminarono di riempire sino all’orlo l’ultimo dei sei recipienti, Gesù di Nazareth, riaprì gli occhi e ordinò loro: “Attingete e portatelo al maestro di tavola.”
I due servitori si guardarono un po’ basiti, ma questa volta, ricordandosi del suo sguardo risoluto, evitarono di ridere e se mai ebbero qualche commento da fare, lo tennero solo per sé stessi. Fecero ciò che Lui ordinò. Uno dei due attinse da uno dei recipienti di pietra con un bicchiere di terracotta e lo posizionò dinnanzi il maestro di tavola. L’uomo, sui trentacinque-quarant’anni, con una barba ben curata e una pelle olivastra, raccolse il bicchiere e lo sollevò a mezz’aria come se non avesse mai visto in vita sua, prima di allora, un bicchiere di terracotta. Se lo avvicinò al naso e lo annusò con diffidenza. Ne assaggiò un piccolo sorso. Aspettò che la sua lingua assaporasse sino in fondo, e poi lo tracannò tutto d’un fiato. Quindi chiamò lo sposo e disse: “In genere si comincia col vino buono e, quando si è bevuto tanto, si tira fuori quello meno buono. Invece tu hai tenuto quello buono per la staffa. Complimenti!”
Invece i discepoli accorsero intorno a Gesù e non la smettevano di fargli i complimenti; Maria baciò sulla guancia il figlio e Giovanni gli diede un cinque.
“Hai scritto tutto, Giovanni?”
“Ho scritto tutto, Maestro.”
“Non capisco di cosa vi meravigliate” disse Gesù con un sorriso audace. “Sono o non sono il figlio di Dio? Da oggi in poi farò tanti di quei miracoli che diventerò famoso in tutta la Palestina. Ma che dico Palestina… Nel mondo intero!”
Qualche giorno dopo Gesù riunì tutti i discepoli all’ombra di un grosso albero di fico. Era una giornata particolarmente assolata. Se non fosse stato per l’eccessivo caldo, si sarebbe detta proprio una bella giornata. La trasmutazione dell’acqua in vino aveva messo tutti di buon umore; così avevano colto l’occasione di rileggere il papiro di Giovanni.
Il primo a commentare il lavoro dell’apostolo fu Marco. Il papiro piaceva a tutti tranne che a lui. Era troppo minimalista, a suo avviso, era vergato in greco e poi la caratterizzazione dei personaggi si perdeva nell’eccessivo dilungarsi di alcune descrizioni. Nessuno era d’accordo con Marco. In primo luogo c’era da dire che era la prima volta che qualcuno si prodigasse di mettere per iscritto un miracolo di Gesù di Nazareth.
Era un’opera acerba, certo, ma era del tutto giustificato.
“A mio avviso, è discreto” sentenziò alla fine Gesù. “Facciamo così. Siccome avrei in progetto un altro miracolo, questa volta potresti essere tu a prendere appunti e a vergarli su papiro. Magari riesci a fare di meglio. Che ne dici, Marco?”
“Ci sto” disse l’apostolo. “Però ti do il 40%.”
Negli ultimi giorni Gesù di Nazareth non aveva fatto altro che bere molta acqua e mangiare sano. Per la precisione si era nutrito soltanto di mele. Di tanto in tanto si avvicinava a qualche albero o a qualche muro ed espelleva un’urina chiara. Oppure si sputava sulle dita per controllare la consistenza della sua saliva. Ma non era ancora troppo convinto della sua purezza.
Quindi, andò avanti a sputare e pisciare per un bel pezzo.
Marco non lo perdeva quasi mai d’occhio. Lo seguiva ad una certa distanza con una serie di papiri in una mano e una pietra aguzza nell’altra, ma ancora non si era deciso a mettere giù nessun appunto. Voleva fare un lavoro di gran lunga migliore di Giovanni; e più che un Vangelo di duecento pagine aveva in mente piuttosto un libro-inchiesta su il Maestro.
Era in attesa costante del momento più opportuno per vergare qualcosa.
Ad un certo punto Gesù lo chiamò con una mano. “Marco, avvicinati” gli disse.
Marco gli si avvicinò immediatamente.
“Siccome ho bisogno di testare la mia saliva, me la faresti una cortesia?”
“Tutto ciò che vuoi Maestro” lo rassicurò lui.
“Bene. Allora, lo vedi quest’albero?” chiese Gesù.
“L’albero” disse Marco e fece un cenno con la testa anche se non aveva capito bene che cosa Gesù volesse dire. “È un albero di fico, Maestro.”
“Esatto. Voglio che tu lo colpisca con un pugno. Il pugno più forte che tu riesca a dare.”
Marco lo guardò sgranando gli occhi. “Perché?”
“È un esperimento, te l’ho detto.”
“Un esperimento. E… a che altezza debbo colpirlo?”
“Non ha nessuna importanza” precisò il Maestro. “Basta che lo colpisci. Un pugno bello forte.”
Dopo qualche altro momento di indecisione, Marco si avvicinò un po’ di più al fico osservandolo come se non avesse mai visto un albero prima di allora. Quindi, dopo aver raccolto tutta la concentrazione di cui aveva bisogno, posò per terra i papiri e la pietra aguzza e arrotolò le maniche del suo thobe.
“Lo colpisco, Maestro” disse Marco sollevando i pugni a mezz’aria, e come un lottatore esperto colpì la corteccia dell’albero con tutta la forza che aveva nel braccio destro. Si sentì un rumore sordo, come un sasso gettato contro uno scoglio, poi Marco si gettò per terra, mettendosi a rotolare dal dolore. “Gesù mio, perché mi hai fatto questo?” urlò. “Gesù mio, fa un male cane!” Aveva le lacrime agli occhi e le nocche della mano destra completamente arrossate.
Il Maestro accorse subito in suo aiuto, accovacciandosi accanto al suo discepolo. “Su Marco, non fare così” gli disse consolandolo. “Tra poco starai meglio di prima.” Gli prese la mano destra, gli sputò sopra e cosparse la saliva come se fosse una pomata.
Dopo pochi secondi Marco smise di lamentarsi. Si sollevò da terra come se non gli fosse successo nulla, e aprendo e chiudendo la mano la osservò incredulo. “Non mi duole più e non è più arrossata!”
“Sai questo che vuol dire?” chiese Gesù di Nazareth.
Marco tentò di rifletterci su. “Certo che lo so. Ma dillo prima tu, Maestro.”
“Che è un miracolo” disse Gesù.
“Che è un miracolo” gli fece eco Marco.
“Esatto. È un nuovo miracolo!”
Il giorno successivo, per festeggiare, si recarono tutti a fare una gita a Betsaida. Lì c’era un magnifico lago con le sponde circondate da alberi secolari e un’acqua talmente azzurra che ti veniva voglia di berla. Per tutto il tragitto Marco non aveva fatto che mostrare a tutti la sua mano destra, a mimare il modo in cui aveva colpito l’albero di fico e a ripetere la storia della sua guarigione. Aveva l’umore alle stelle, al contrario di tutti gli altri apostoli, che non avendo avuto l’opportunità di assistere al miracolo, si struggevano dal desiderio di poter recuperare al più presto ed assisterne ad un altro.
Erano quasi arrivati sulle sponde del lago, e tutti già pregustavano un bel bagno nell’acqua, quando videro un gruppetto di persone che accompagnava un cieco.
“Scusa, tu sei il nazareno?” chiese uno degli uomini staccandosi dal gruppetto e avvicinandosi a Gesù.
“Sì, sono il nazareno” rispose Gesù.
“Quell’uomo è cieco dalla nascita” spiegò l’uomo indicando il cieco nel mezzo del gruppetto. “Si dice in giro che tu possiedi dei poteri, che sai fare delle cose straordinarie…”
“Ebbene?” disse Gesù.
“Ebbene, se è vera questa cosa che dicono… Tu non saresti in grado di dargli la vista?” chiese l’uomo. “Sai, quest’uomo è vecchio. Non gli resta non molto da vivere… È il tipo di persona che non ha mai chiesto nulla. E… in quasi settant’anni di vita, non ha mai visto com’è fatto il mondo… Gli faresti proprio un bel dono…”
“Veramente… Se Lui, lì su, ha deciso così, ci deve pur essere una ragione… chi sono io per contraddirlo… E, poi, non ho mai guarito un cieco.”
“Ma a te che cosa ti costa?” disse ancora l’uomo. “Provare in fondo cosa ti costa? Se va, va. Se non va, non va.”
Gesù Cristo lo fissò per diversi secondi e si abbandonò ad una serie di riflessioni talmente profonde che quasi si potevano palpare sul suo volto barbuto e scarno. Anche a Betsaida la fama lo precedeva, fu più o meno la prima cosa che gli passò per la mente. Quindi, era una Star o qualcosa di simile. La seconda cosa fu di domandare a Dio perché mai avesse fatto nascere quell’uomo cieco e perché mai, adesso, faceva incrociare le loro strade. La strada del cieco e la strada del suo ipotetico guaritore. Ma Dio non gli rispose nulla, figurati! E poi se era una Star… era perché Lui aveva deciso così… Quindi, non poteva deludere le aspettative di nessuno dei suoi sostenitori. Quindi, fece un profondo respiro, quasi un sospiro di rassegnazione, per dover abbandonare al momento l’idea del bagno in acqua, e si avvicinò al gruppetto di persone insieme agli altri discepoli. Il cieco era un uomo di mezza età, con la barba canuta e che faceva un’enorme pena dato che non riusciva a puntare mai bene gli occhi sulle cose che incrociavano.
Il Maestro fece un altro profondo sospiro e un cenno di assenso con la testa, poi si girò verso Marco e con la mano gli fece cenno di non dimenticare di prendere appunti. Anche se prima di allora non aveva mai pensato di poter guarire un cieco, si sentiva ugualmente abbastanza sicuro perché si era esercitato per intere settimane; forte anche della prova evidente dell’esperimento ben riuscito di Marco.
“Devo restare qualche minuto da solo con lui” spiegò. “Marco, tu però seguici.” Detto questo, prese il cieco per una mano e lo condusse lontano dal lago, e ancora, fuori del villaggio.
“Davvero desideri vedere il mondo com’è fatto?” gli domandò stupidamente.
Il vecchio fece diversi cenni con il capo e rispose: “Sì, sì, lo desidero!”
“E come pensi che sia questo mondo che tu ora non riesci a vedere?” chiese ancora Gesù di Nazareth.
“Il mondo sarà come tu vuoi che io lo veda” disse il cieco.
“Bene,” disse il nazzareno. Quindi gli bloccò la sottile faccia tra le mani, gli sputò sugli occhi, spalmò con le dita la saliva e dopo un po’ gli chiese: “Vedi qualcosa?”
Il cieco alzò gli occhi e disse: “Vedo gli uomini camminare e mi sembrano alberi.”
“Uomini che sembrano alberi. Mmm… Però, ci siamo quasi,” disse il nazzareno. Ripeté l’esperimento. Gli spalmò di nuovo le saliva sugli occhi. “Guarda in alto, vedi qualcosa?”
Il cieco alzò gli occhi in aria e disse: “Vedo il cielo, è di un azzurro magnifico.”
“Bene,” disse il Maestro. “Esperimento riuscito.”
Qualche tempo dopo Gesù incominciò a lavorare senza sosta nella bottega di suo padre. Aveva in mente un’idea un po’ stramba: realizzare una lunga tavola di legno per spostarsi sull’acqua. “Ho bisogno di una nuova idea. Originale e mai pensata prima di questo momento” commentò poco prima di mettersi al lavoro.
Ogni tanto richiamava l’attenzione di suo padre. Allora, Giuseppe, con un profondo sospiro, a malincuore, si staccava dalle sue sedie, lasciava cadere il martello per terra, si ripuliva le mani in un canovaccio e con un’espressione contrita, quasi di sofferenza, si metteva a osservare senza capirci un’acca questo pezzo di legno, stretto e lungo, rozzamente arrotondato ai due lati.
“E cosa mi rappresenta?” chiedeva ogni volta con tono rammaricato.
“È una tavola da surf” spiegava Gesù.
“Una tavola… ?!”
“Da seerf, da seerf. Te l’ho già detto dieci volte…”
“Se tu non avessi sprecato tutto questo legname adesso avremmo una sedia in più da vendere” disse suo padre sospirando dopo una breve pausa di riflessione.
“Tu sei di una generazione troppo vecchia, papà… Non puoi capire” disse Gesù con un certo rammarico nel tono di voce. “Sarà la cosa più straordinaria che abbia mai concepito.”
“La devi smettere con le cose straordinarie” disse Giuseppe allontanandosi di nuovo verso le sue sedie. “È arrivato il momento di trovarti un vero lavoro.”
“Ma il mio vero lavoro è fare i miracoli!”
Fu, invece, ancora Giovanni a mettere su papiro l’episodio della resurrezione di Lazzaro compiuta da Gesù.
Quanto segue, fu ciò che il Maestro narrò, in un secondo momento, all’apostolo affinché potesse arricchire il proprio Vangelo.
Gesù Cristo, in quel periodo, aveva intrapreso un breve viaggio, al di fuori del territorio della Galilea, per tentare di trovare un tipo di legno leggero per la sua tavola da surf.
Anche in quell’occasione si era fatto accompagnare dai suoi discepoli. “Siamo diventati una gang molto affiatata” commentò Gesù con orgoglio. “Non ci manca proprio nulla. Andiamo in un posto e ci riconoscono subito. Entriamo in una taverna, ci danno da bere e nessuno ci chiede di pagare. In più io sto diventando sempre più bravo con i miracoli.”
“Non so se possiamo proprio definirci una gang, nel vero senso della parola” disse Pietro.
“In che senso?” volle sapere Gesù.
“Sai… non gestiamo nessuna attività illecita, non controlliamo il territorio… e poi… nessuno di noi ha nemmeno un tatuaggio” disse ancora Pietro.
“Un tatua-che?”
“Un tatuaggio.”
Non appena ebbe terminato il suo primo esperimento, qualche giorno prima, Gesù si era recato subito al mare di Galilea con la tavola sottobraccio, la poggiò sullo specchio d’acqua, e proprio nel mentre pregustava una bella cavalcata sull’onda più grossa, aveva scoperto che colava giù a picco come un sasso. Il legno di fico non andava bene per le tavole. A dire il vero il legno di fico non andava bene quasi per niente. Ad esempio bruciava male, e puzzava da morire. Proprio un legno maledetto. Così, dopo aver fatto una ricerca personale, aveva scoperto che il legno più leggero che ci fosse in circolazione era il pioppo. Acquistò una tavola lunga e stretta, nell’unica falegnameria in cui era riuscita a trovarla, per la folle cifra di 6 sicli.
Adesso, non stava più nella pelle di fare un nuovo tentativo con quella, sperando che questa volta funzionasse per davvero.
Ma proprio quel giorno, sulla strada di ritorno per Nazareth, videro un ragazzino dalla pelle olivastra e piuttosto malnutrito corrergli incontro. Dopo essersi fermato di fronte a loro, stringendo piccole mani scure su ossute ginocchia piene di lividi e cicatrici, il bambino riprese un po’ di fiato, e sollevando la testa chiese: “Sei tu Gesù il nazzareno?”
Filippo quasi inorridito al solo pensiero si ritrasse e disse: “No. Che blasfemia! Ma cosa ti viene in mente, ragazzino?”
“Chi è Gesù il nazzareno?” ripeté il ragazzo guardandosi attorno.
Gesù Cristo posò l’asse per terra, sollevò un braccio e chiese: “Chi è che mi viene a cercare?”
Il ragazzino sollevò una mano per fargli capire che aveva bisogno ancora di prendere un po’ di fiato. Poi disse: “Mi mandano Maria e Marta.”
“Non si può stare mai in pace, nemmeno quando si è fuori della Galilea” commentò quasi tra sé il Maestro; quindi, assunse un’espressione molto seria, si lisciò la barba e riflettendo al meglio sui due nomi chiese ancora: “Maria e Marta? Marta e Maria? Sarebbero?”
“Le sorelle di Lazzaro.”
Si ricordò d’un tratto che Maria una volta lo unse di olio profumato e gli asciugò i piedi coi suoi capelli. “Ah, certo. Le sorelle di Lazzaro” disse. E con un tono non ancora del tutto convinto chiese ancora: “È successo qualcosa?”
Il bambino fece un cenno con la testa. “Ecco, colui che tu ami è ammalato” disse.
“Chi?”
“Lazzaro.”
“Ah. Si capisce, Lazzaro” disse con un tono incerto il Maestro. In realtà, sino a quel momento, la sua testa era stata occupata unicamente dal pensiero di tornare subito al suo esperimento e costruire una nuova tavola da surf. Non aveva messo in conto quest’altro nuovo miracolo. “Vai a dire alle due sorelle di Lazzaro che questa malattia non è per la morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio sia glorificato.”
Il ragazzino lo guardò senza capirci molto.
“Andrò a Betania, ma non subito” gli spiegò Gesù. “Vai, adesso puoi pure andare.”
Il ragazzino, metabolizzato il messaggio, si rimise di nuovo a correre nella direzione opposta.
“Trascorreremo ancora due giornate in questo posto” disse il Maestro.
“In questo posto?” chiese dubbioso Simone il cananeo.
“Maestro, ma il ragazzino ha detto che Lazzaro è ammalato” disse Giacomo di Alfeo.
“Lo so, lo so” replicò Gesù di Nazareth. “Ma non avete udito ciò che ho detto poco fa al ragazzo? La decomposizione di un corpo, vi rammento, inizia solo tre giorni dopo la morte: se ritardiamo a bella posta la partenza, possiamo in tal modo fugare ogni dubbio su un’eventuale morte apparente. E poi possiamo trascorrere il tempo a costruire questa tavola da surf…”
E così fu. Trascorsero quasi due giorni a lavorare tutti su quell’asse stretto e lungo e al crepuscolo del secondo giorno, stremato, soddisfatto, e rimirandolo da ogni lato, Gesù, con un ampio sorriso stampato sulla faccia, disse: “Abbiamo fatto proprio un lavoro impeccabile. Altro che legno di fico! Questa tavola di pioppo solcherà le onde alla grande!”
Anche gli apostoli erano stremati e molto soddisfatti dell’ottimo lavoro che avevano fatto con quella tavola. Ma mica era chiaro cosa ci dovesse fare il loro Maestro?
Alla fine, sistemandosi la tavola sotto un braccio, come se fosse stato un surfer consumato, Gesù di Nazareth, disse ai discepoli: “Si torna in Giudea!”
Giunsero così a Betania quando Lazzaro era morto già da quattro giorni.
Per strada Marta gli andò incontro e gli disse: “Signore, se tu fossi venuto qui prima, mio fratello non sarebbe morto.”
“Farò resuscitare tuo fratello, stai tranquilla” disse Gesù.
Marta gli disse: “So delle cose prodigiose che hai già fatto; hai trasformato l’acqua in vino, hai guarito un cieco, e so pure che una volta hai fatto un esorcismo nella sinagoga di Cafarnao. Ma qui si tratta di un morto!”
“Le cose sono due. O te ne sei dimenticata oppure non sai proprio chi sono io” disse Gesù alterandosi. “Io sono la vita, io sono la morte e sono pure la resurrezione. Io sono l’acqua e se lo voglio posso essere pure il fuoco. Tu forse non sai con chi stai parlando, donna… Perché io sono Gesù Cristo di Nazareth e sono il Figlio di Dio. Chi crede in me, vive; e chiunque non crede in me, può pure morire e andare ad arrostire all’inferno! Tu credi in me? Bene! Sennò vai a bruciare all’inferno!”
La donna spaventata dalle sue affermazioni disse: “Sì, Signore, io credo a tutto ciò che vuoi. Credo che sei la vita e la morte, l’acqua e il fuoco, Gesù Cristo e il Figlio di Dio, ma basta che ora vieni ad alzare da terra mio fratello!”
Fu condotto al sepolcro, dov’era seppellito Lazzaro. Il sepolcro era una specie di grotta davanti alla quale era stata messa una grossa pietra.
Dinnanzi ad esso e tutto intorno c’era una copiosa folla, profondamente esagitata, accorsa sul posto non appena si era diffusa la voce che Gesù il nazzareno si sarebbe prodotto in uno dei suoi numeri prodigiosi.
Qualcuno, ad un certo punto, sollevò per aria un grosso sasso e gridò con voce malferma: “Nazzareno! Nazzareno, ti prego trasformami questo sasso in oro!”
Qualcun altro di rimando gridò invece di resuscitare sua figlia che era molto più giovane di Lazzaro.
Gesù si guardò nervosamente intorno. Ordinò di fare il silenzio più completo, sennò non si sarebbe messo all’opera. Poi, quando non volò più nemmeno una mosca, sollevò un braccio e, ad alcuni degli uomini presenti sul posto, ordinò: “Togliete quella pietra dal sepolcro.”
Nel mentre un piccolo gruppo di uomini obbediva al suo ordine, spostando, con enorme fatica, la grossa pietra che bloccava l’ingresso, Gesù si concentrò intensamente. D’improvviso s’avvolse di un’aura dorata che lo trasportò ad un livello più elevato di tutti gli altri mortali. Arrivò con la sua mente in alto, molto in alto, quasi fino al cielo. Iniziò ad immaginarsi, per prima cosa, un cadavere di un uomo di un’altezza poco superiore alla media. Un corpo nella fase iniziale della decomposizione, non del tutto putrido, ma che può già servire da cibo per gli avvoltoi. Ma Lui non si fermò alla superficie, riuscì ad immaginarselo più in profondità. Gesù era in grado di rappresentarsi un corpo esattamente come avrebbe fatto un medico condotto di inizio ‘900. Immaginò polmoni che inalavano aria, sottilissimi nervi che si tendevano e si diramavano in ogni direzione, ed un grosso cuore che pompava sangue. “Questo corpo non è morto!”, pensò intensamente. “No, quest’uomo respira, si muove ed è in vita! È ritornato tra noi, è resuscitato, è vivo!”
Quindi annunciò ad alta voce: “Lazzaro, alzati e cammina!”
Dopo una manciata di secondi, Lazzaro, che era una copia sputata di Boris Karloff, uscì dal sepolcro. Fu accolto dalle sonore risate di tutti gli astanti. “Pari una mummia!” gridò qualcuno tra la folla. E in effetti, con tutte quelle bende funebri che lo avvolgevano, Lazzaro somigliava proprio ad una mummia.
“Liberatelo dai legacci e lasciatelo andare” gridò ancora Gesù.
Quando il miracolo finì, nel mentre alcune persone aiutavano Marta a liberare il resuscitato dalle bende, un sacco di persone andarono ad attorniare Gesù Cristo e cominciarono di nuovo a fare delle richieste strane: E Gesù fammi ricrescere i denti, E Gesù perché sono così basso? E io così magro? E Gesù rendi fertile il mio terreno! E Gesù perché tuo padre è uno e trino e poi non si fa vedere mai? E Gesù mi trasformi questo sasso in oro?
Gesù di Nazareth disse a ognuno che siccome era stanco per la prova, quel giorno non poteva più fare miracoli e pensò che si era proprio scelto un mestiere difficile.
“Ancora un miracolo” promise Gesù di Nazareth, “e poi mi ritiro nella bottega di mio padre a costruire sedie.”
“È la cosa più strepitosa che abbiamo visto sin’ora” urlò uno dei discepoli. Erano tutti a bordo di una barca, distante qualche miglio dalla costa. “Se solo si potesse immortalare per sempre questo momento.”
“Marco. Matteo. Giovanni. Qualcuno di voi può metterlo su papiro e tramandarlo ai posteri, come avete sempre fatto sin’ora.”
“Sarà sempre difficile da credere a ciò che stanno vedendo ora, in questo preciso momento, i nostri occhi” gridò ancora uno dei discepoli.
La tavola da surf si spostò per qualche miglio sullo specchio dell’acqua. Gesù di Nazareth riusciva a stare in perfetto equilibrio, senza allargare le braccia o barcollare; sembrava piuttosto camminare.
“È fantastico, Maestro!” gridò uno dei discepoli. “Sei riuscito a camminare sull’acqua!”
“Non sto affatto camminando” gli replicò Gesù il nazzareno. “No. Sto surfando!”
immagini di copertina: STREET ART: MESSIAH STENCIL AND SPRAY BY ORTICANOODLE
3 settembre 2014
In effetti Gesù era un po’ un hippie della California. Con la tavola sotto braccio sta da Dio!
Geniale