“You and me we’re in this together now none of them can stop us now we will make it through somehow you and me if the world should break in two until the very end of me until the very end of you”
[We’re in this together – Nine Inch Nails]
Anche quella notte Harlan Petrović fece uno strano sogno.
L’improvvisa stretta della sua compagna intorno al polso lo interruppe bruscamente, costringendolo a svegliarsi.
“Su, Harlan”, sussurrò nervosamente Karina Subonis. “Svegliati.”
“Cosa?” chiese con voce impastata Harlan, come se non sapesse di cosa si trattava. Ma era la medesima scena di ogni volta. A fatica si mise a sedere sul letto, e sbadigliò scompostamente passandosi nervosamente la mano sulla faccia. La piccola stanza era avvolta dalla penombra. Un raggio di luce dell’albeggiare, una striscia larga poco meno di una moneta di un centesimo, attraversava i pochi metri della loro stanza. Qualche immagine confusa tentò di fare irruzione nel suo stato di coscienza, rimandandogli alla mente qualcosa: ma fu così vaga e fulminea che non poté coglierla veramente. “Anche stavolta è stato un sogno breve”, disse con tono compiaciuto. “È durato appena una manciata di secondi, giusto il tempo di…”, ma non completò la frase.
Karina Subonis sbottò nervosamente: “Tu, forse, non te ne rendi conto…” Stava allacciandosi furiosamente i bottoni della camicia, accanto alla tapparella dell’unica finestra della stanza. “Ogni qualvolta che qualcuno si assopisce, succede il finimondo lì fuori. Non li senti? Stanno già qui.” Gli occhi arrossati ed una profonda ruga nel mezzo della fronte mettevano ancora più in risalto il suo volto pallido, scavato dalla stanchezza. Aveva lottato intere settimane per non cadere preda del sonno, e sin’ora aveva sempre avuto la meglio. “Su, dai. Datti una mossa!”
“Non so perché continuiamo a preoccuparci di uno stupido sogno!” Harlan Petrović sbadigliò di nuovo. Chiuse ancora gli occhi come a volersi concentrare per qualche momento. Poi, anche alle sue orecchie giunse quel suono sordo, non troppo distante, cupo. Lo stesso incedere di zoccoli sul terreno che aveva udito dormendo. Un lugubre Tu-dum-Tu-dum-Tu-dum. Nell’ultima porzione di sogno aveva visto la gigantesca mandria di bisonti neri, avvolti da una grossa nube di polvere sollevata per aria da centinaia di zampe. Aveva sognato ancora una volta quei bisonti. Sembravano un mucchio selvaggio di soldati in divise austere che si muovevano lentamente in un’area deserta. Gli sarebbe piaciuto raccontarlo alla sua compagna, ma questa volta tenne il corso dei pensieri per sé.
Con una voce ancora più tesa, Karina Subonis, disse: “Su, avvicinati. Vieni a renderti conto se ti sto dicendo una bugia.”
Harlan la guardò sbuffando stancamente. Si passò con vigore le dita sugli occhi cercando di accelerare il brusco risveglio e si chiese come facesse Karina a non dormire mai. Fuori, l’infernale TU-dum-TU-dum-TU-dum incedeva senza sosta. Le Fazioni del Sonno erano giunte di nuovo lì per colpa sua? Forse sì, forse no. Ma in fondo non s’era arreso al sonno che per una trentina di secondi.
Karina poggiò il viso a un foro dell’avvolgibile. La luce del giorno le cerchiò un occhio. “Gesù Cristo,” sibilò. “Sembra proprio che noi due siamo i soli a rimanere tappati ancora in casa.”
“Lo vuoi capire che è un sogno?!”, disse stancamente Harlan Petrović. “Un sogno!” Ma si sollevò lo stesso in piedi, in un modo sgraziato, anche se non si aspettava che la donna gli replicasse ancora qualcosa. S’avvicinò alla finestra, scostò leggermente Karina per una spalla, e spiò di fuori. Centinaia di persone in abiti scuri si davano alla fuga nel mentre dall’alto, con un ronzio soffocato dei motori, macchie scure, stagliate contro l’orizzonte, s’allargavano.
I primi Apaches in avvicinamento.
Dopo qualche momento, alla sinistra della loro abitazione, sbucarono altri fuggitivi. Percorsero una decina di metri – simili a lupi lanciati all’inseguimento di una preda – del lungo sentiero che portava al centro del paese; un paio s’arrampicarono su per una lunga scala di metallo posta a un lato di una bassa costruzione, mentre altri attraversavano il ponte di legno che collegava le due sponde del torrente. La maggior parte di loro, invece, si dipanò nel mezzo della piazza principale.
Si scappava ovunque.
Poi i primi Apaches toccarono il suolo liberando decine di soldati.
“Harlan Petrović, ti decidi o no?”, disse Karina con tono aspro. La pacatezza del compagno le dava sui nervi e la paura di essere catturati le faceva sentire delle fitte all’altezza dello stomaco. Mugugnò strozzatamente nel momento in cui si lasciò cadere sulla sedia con tanta energia da rischiare di romperla; fulminò il compagno con un’occhiata feroce mentre s’infilava gli stivali e disse nervosamente: “Ti ho detto di darti una mossa se non vuoi fare la fine del topo!”
“E… per andare dove?”, chiese Harlan senza mai staccare lo sguardo dal foro della tapparella. “Se usciamo…” cominciò col dire, ma non finì la frase perché la sua attenzione fu catturata dal fulgore lattiginoso di una frusta d’ordinanza. Schioccò per un paio di volte come il terribile corpo elettrico di un elettroforo. Alcuni degli uomini intenti ad arrampicarsi sulla scala, raggiunti dalle scudisciate di un Guardiano del Sonno, stramazzarono al suolo all’istante. Harlan lanciò un sonoro fischio quando vide un paio di quegli uomini contorcersi per terra come impotenti vermi scuri.
“Ti sei deciso?” gli urlò con voce strozzata Karina Subonis impugnando il pomello della porta d’ingresso.
“Andiamo. Andiamo”, mormorò stancamente Harlan; si staccò dalla finestra scuotendo la testa e s’infilò gli stivali senza nemmeno sedersi. “Non riesco mai a capire dove finisce il sogno e dove comincia il mondo reale” commentò cupo tra sé.
Pochi secondi dopo, Karina Subonis e Harlan Petrović si trascinarono fuori dell’abitazione.
Si andarono a mescolare sul fondo di un gruppo di centinaia di anime nere con la faccia tirata e il corpo ansimante. Sembravano i concorrenti di una folle maratona, che puntava con passo nervoso dalla Main Street verso i Confini Meridionali.
Tenendosi vicino alla compagna, Harlan Petrović rifletté sul fatto che il Villaggio dei Desti si svuotava di nuovo nell’assurda convinzione collettiva della fuga. Una credenza bella e buona. Alla fine della corsa ognuno si sarebbe ritrovato con un pugno di mosche in mano. Ma, nell’impeto della confusione, nessuno avrebbe mai riflettuto su quella cosa. Quante volte aveva provato ad impuntarsi con Karina? Tantissime. L’ultima, diversi mesi prima, quando tutta questa vicenda non era diventata ancora così insostenibile. Era una giornata calda e piena di sole, perfettamente uguale al resto delle giornate in quel posto monotono e ripetitivo. Si era bloccato sull’uscio di casa con le braccia conserte, e aveva provato a prendere la donna con le buone, a spiegarle che lasciare la loro abitazione era del tutto inutile. Per tutta risposta la compagna si era abbandonata ad una crisi isterica; la faccia le si era fatta quasi viola, le vene giugulari le si erano messe in evidenza con un blu brillante e poco prima di iniziare a piangere strillando, aveva stretto i denti e puntato i piedi per terra. “Fammi passare!”, aveva urlato. “Togliti davanti la porta!” Con una violenta manata l’aveva spostato di lato, prima di trascinarselo fuori dell’uscio, con forza, per unirsi al lungo serpente snodato in fuga sulla strada principale del Villaggio.
Questo era successo circa cinque mesi prima. Da allora erano stati condannati ad un sonno senza fine. Fra tanta gente, l’unico a rendersi conto di rivivere sempre la medesima scena era lui, Harlan Petrović. Possibile? O, forse, la sua mente aveva cominciato a vacillare sino a farlo ritrovare prigioniero della sua stessa follia? Difficile dirlo. D’altronde era anche difficile dimostrare l’esistenza dell’altro mondo, quello “reale”, da cui lui, Karina Subonis e tutti gli altri provenivano. La distanza tra il sonno e la veglia era un confine sottilissimo.
Ad ogni modo, gran parte del gruppo, superò correndo il complicato dedalo di vie. Praticamente ovunque c’erano segni di disfacimento: numerosi edifici crollati, pareti diroccate con fori di proiettili, carcasse arrugginite di automobili, marciapiedi distrutti dal passaggio dei mezzi pesanti, pali della luce divelti e blocchi di cemento posizionati a sbarrare le carreggiate ridotte a cumuli di macerie.
L’unico edificio a ostentare ancora i vecchi sfarzi della Nuova Nazione era il lontano Palazzo del W.A.O.D. (Western Area Of Dream): sede del governo di Mintler, Guida Unica dei Desti, si sollevava quasi fino in cielo, con un’ostinazione di pietra e metallo, sopra il triste cumulo di detriti.
Gli Apaches, impossibilitati ad atterrare, stavano in aria ad un’altezza di circa 100 metri, liberando schiere di Guardiani con delle corde. Non appena toccavano terra le guardie si lanciavano subito all’inseguimento delle loro prede.
Giunti all’altezza di un muro spianato, Halan Petrović tirò da una parte la sua compagna un attimo prima che un esile Guardiano si lanciasse come un parà privo di attrezzatura; finì così per atterrare rozzamente sulle spalle di un altro dei fuggitivi, un uomo di mezz’età con i capelli tutti brizzolati, bloccandolo a terra con una scarica elettrica.
Karina Subonis guardò, per qualche attimo, Harlan con aria interrogativa. Poi, ripresero la corsa. Era uno schema, in cui tutto si ripeteva. Possibile che Karina Subonis non se ne rendesse conto? Dopo quell’assalto, sarebbero seguiti altri agguati in diversi altri punti della strada e il gruppo si sarebbe sparso ulteriormente.
Harlan Petrović era in grado di prevedere tutto semplicemente perché l’aveva vissuto interrottamente per due anni.
Strinse un polso di Karina Subonis e le disse: “Tiriamoci fuori della folla.”
“Ma perché?” chiese la donna.
“Fa come ti dico!”
Non smisero di correre.
A intervalli irregolari gli Apaches continuavano ad abbassarsi e a liberare piccole legioni di Guardie Nere. Dall’interno di un ex minimarket posto sul lato destro della Main sbucò un nugolo di uomini in divise antracite. Lo schioccare delle loro fruste d’ordinanza tormentò l’atmosfera come un tuono inaspettato può lacerare un pomeriggio sereno.
Quelli nelle prime file tramortirono immediatamente al suolo, finendo cotti come capretti. Si contorsero sul suolo come dei vermi, e quando le guardie gli diedero la scarica di grazia non si mossero più.
Karina Subonis questa volta non si voltò a guardare il suo compagno, non si stupì neanche, ma si limitò a lasciarsi trascinare via senza chiedersi nulla. Anzi, l’unica cosa che le riuscì di pensare fu che per un oscuro motivo, la parte del suo gruppo era stata destinata ad una sorte meno nefasta. Nelle retroguardie Harlan e Karina, insieme a diverse altre persone, si produssero in una interminabile corsa a perdifiato in direzione di un gruppo di basse costruzioni di cemento armato appena oltre la Main Street.
Speravano tutti di potersi allontanare e mettersi in salvo.
Presso i Confini Meridionali la voce metallica, atona di Mintler annunciò: “Miei cari dormienti, questo è un messaggio per tutti voi. È la vostra Guida Unica che vi parla, dal Palazzo del W.A.O.D. Le parole, in determinate circostanze, possono essere dei fatti. So che siete colpevoli! Finché vi arrenderete tanto facilmente alle vostre debolezze lo sarete sempre. Ma ogni problema ha sempre una sua soluzione; la mia è questa: se vi consegnerete immediatamente alle autorità della Veglia, non vi sarà fatto alcun male!” Si udì un breve fruscio, come di una puntina che non fa bene pressione su di un disco. Poi, la voce di Mintler continuò: “Tutto ciò che vi chiedo è una profonda analisi di coscienza. Meditate… Ciò che dico è solo per il vostro bene. Per l’interesse di un popolo sano e migliore. Il sonno è il vostro unico male, sappiatelo! Rammentate sempre che soltanto chi sa resistere al torpore è il più forte perché può sopravvivere più a lungo! I nostri medici potranno guarire la vostra malattia…” Poi, ad un certo punto, il suono del disco s’interruppe definitivamente.
Harlan Petrović, imitando diversi altri fuggiaschi, si voltò a guardare indietro. Alle loro spalle, le Guardie erano piccole sagome grigio polvere. Avanzavano veloci, guadagnando terreno. Impugnavano, all’interno di guanti di pelle nera, le terribili fruste T-60 d’ordinanza. Di tanto in tanto, le estremità delle armi saettavano nell’aria, ruggendo elettricamente; e quando le loro estremità raggiungevano qualcuno sul fondo del gruppo, lo fulminavano all’istante con una scarica a 600 mA.
All’uscita del Villaggio, la folla si sparpagliò velocemente in diverse direzioni. Quasi per un istinto naturale Harlan tirò alla sua destra Karina, in modo da ritrovarsi nel mezzo di un gruppo più piccolo di Desti. Al centro del gruppo, un tizio massiccio, completamente calvo, sulla cinquantina, gridò con voce possente: “Presto, gente! Si va verso la Stazione!” Riprese fiato, ansimando con l’intero corpo e, alzando un braccio e guardandosi attorno, chiese: “Chi è con me?”
Anche questa richiesta, naturalmente, era stata messa in conto da Harlan Petrović, tant’è che qualche secondo prima che la frase fosse pronunciata si voltò alla sua sinistra, nel punto in cui una donna, con tono nervoso, boccheggiando, avrebbe detto: “Io sono davvero sfinita. Non ce la faccio più a continuare a correre. Mi scoppiano i polmoni. Non so voi, ma io continuo ad avere la vaga sensazione di rivivere sempre lo stesso momento. Sono convinta che non può succederci nulla di male…”
Il discorso della donna dava un certo slancio ad Harlan Petrović; ed era ogni volta sempre sul punto di dire la sua (che era convinto a sua volta che si trattasse solo di un sogno, e che da un paio d’anni continuava a rivivere sempre quel medesimo momento), ma le parole gli si bloccavano improvvisamente sulla punta della lingua, e restava così in silenzio.
Quindi, l’uomo calvo assumeva un’espressione contrita, le vene gli si mettevano in risalto sulla superficie di un collo indurito e dopo aver chiesto: “C’è qualcun altro che vuole rimanere qui?”, con un risoluto gesto del braccio faceva ripartire l’intero gruppo.
A quel punto, Harlan Petrović e Karina Subonis, si voltavano a guardare la donna inginocchiata al suolo, con un’espressione basita; sarebbero passati pochi secondi prima che venisse avviluppata, immobilizzata e trascinata via da un paio di fruste d’ordinanza scagliate dalle Guardie Nere.
E proprio a quel punto Harlan Petrović cominciava a raccogliere pensieri. Metteva in chiaro con se stesso che fosse soltanto un sogno. Pensava: “Se questo è solamente un sogno, perché mai dovrei fuggire?” E: “L’evolversi degli eventi avviene per forza di cose, indipendentemente da ciò che penso o faccio. Se provo a rallentare la corsa, a fermarmi del tutto magari mi ritrovo nel mio letto.” Ma quando provava a fermarsi Karina Subonis rallentava e si fermava a sua volta, con le mani strette attorno alle ginocchia indolenzite, facendosi travolgere dagli spintoni di quelli che le stavano dietro; poi doveva fare a ritroso un pezzo di strada, e andargli in soccorso. “Non ti fermare, Harlan. Hai visto cosa è successo a quella donna?”
“Non pensare a me, continua a correre”, diceva lui, a sua volta piegato con le mani sulle ginocchia. Proprio come se Karina Subonis, compagna fedele da più di quindici anni, sarebbe stata capace di abbandonarlo lì in mezzo.
Ed era esattamente a quel punto che il sogno e la realtà si mescolavano di nuovo, come un vortice invisibile, un turbolento moto rotatorio nell’aria che gli impediva di ragionare. Le estremità delle armi di ordinanza delle Guardie gli saettavano vicinissimo ad un orecchio, sfiorandoglielo. A quel punto Karina Subonis gli stringeva forte un polso, e lo trascinava via tempestivamente, in modo da non restare troppo staccati dal resto del gruppo. “Su, Harlan”, diceva. “Siamo quasi arrivati alla Stazione.”
Una scritta incompleta, consumata dal tempo, e intarsiata a grandi lettere, troneggiava sull’imponente frontone di pietra e acciaio, annunciando: S T A Ţ I E. Stazione.
Erano stremati, ma non si fermarono. Alle loro spalle le piccole sagome scure delle Guardie, era distanti, ma già abbastanza distinguibili.
Un folto drappello di nuvole si riunì d’improvviso, come per un appuntamento a sorpresa, coprendo i raggi del sole. Sembrava un triste presagio. Anche l’aspetto della Stazione lo suggeriva; lo stesso triste spettacolo di rovine già visto altrove. In più, dinnanzi la vecchia entrata dell’imponente edificio, c’era una quantità industriale di erba gramigna. Un’amorfa bestia verde che attecchiva un po’ dappertutto: sulle scale dell’ingresso, attorno alle carcasse arrugginite delle biglietterie, sopra i tabelloni delle partenze e degli arrivi.
Il folto gruppo varcò l’entrata principale, senza interrompere la corsa. Scese nel sottosuolo per le scale mobili, ormai statiche da anni, superò il lungo corridoio di collegamento tra i binari e quindi rallentò l’impeto della corsa solo nel momento in cui un vento impetuoso, soffiando sulla banchina, preannunciò l’ingresso in stazione del treno a vapore.
Non appena il treno ebbe rallentato la corsa, ognuno provò a salire a bordo delle vetture di testa, spingendo e venendo sospinti, per ritrovarsi all’interno di carrozze già pateticamente affollate. Furono accolti da sguardi sorpresi e infastiditi di diversi viaggiatori borghesi. Le loro erano facce distese, colorite. Erano senza dubbio facce di gente destinata ad un futuro più fortunato.
Il treno si rimise in cammino senza aspettare nemmeno che tutti i fuggitivi fossero saliti a bordo. In parecchi caddero dal treno, nel momento in cui questo si avviò con un terribile singhiozzo della locomotiva che creò un’onda d’urto all’interno delle carrozze; poi, prese velocità e viaggiò in un modo folle, una schizofrenia di ferro e vapore infinitamente maggiore di quella impiegata dai fuggiaschi per giungere sin lì.
Karina Subonis, dopo qualche momento di sbigottimento, si lasciò cadere per terra, contro una parete del vagone; era davvero sfinita. Strinse forte i denti, e allargò le orbite impedendosi di dormire.
Harlan Petrović, invece, si sedette a poca distanza, contro uno dei sedili, in mezzo agli altri passeggeri; anche lui era esausto, ma finalmente poteva dare un po’ di tregua alle sue gambe. Socchiuse gli occhi, sentendo il sangue pulsargli forte nelle tempie, senza quasi accorgersi che quello sarebbe stato l’unico momento buono di tutta la giornata.
Il rumore infernale delle carrozze che vibravano ed il costante e collerico scambio di occhiate tra i viaggiatori borghesi e le persone in fuga non impedirono ad Harlan di appisolarsi, ma proprio nel momento in cui stava per cadere vittima della stanchezza, sentì una stretta all’altezza della spalla.
L’uomo scattò come una molla, guardando in direzione della donna bionda, sulla trentina, seduta su uno dei sediolini accanto a lui; come al solito stringeva le maniche della sua borsa con dita lattiginose, laccate di un forte rosso. Aveva una pelle talmente chiara che avrebbe potuto facilmente mimetizzarsi in un paesaggio innevato. Attese pazientemente la solita domanda (“Da dove venite?”), che dopo diversi giorni aveva perso ormai ogni significato, e, con tono secco, annoiato, rispose: “Caraşova, il Villaggio dei Dormienti.”
La donna s’accorse del tono infastidito dell’uomo, ma, assumendo un’espressione di tradita sorpresa, replicò ugualmente: “Ah. Pure due giorni fa c’è stato un altro violento sovvertimento, a Sud, in Dobrugia, se non rammento male.” Sfoggiando un sorriso mesto, aggiunse: “La rivolta di Tudor Vladimirescu del mese passato ha fatto scuola; secondo me a poco a poco anche tutti gli altri Villaggi finiranno per imitarla.”
La donna tirò fuori della borsa un quotidiano piegato in quattro parti e lo allungò ad Harlan. “Se le interessa, a pagina 14 o 15, c’è un articolo che parla proprio di Tudor.” Harlan prese il giornale, fingendo di assecondarla. Concentrando lo sguardo sulla chioma biondo cenere, si arrovellò il cervello per capire se avesse potuto tentare per una prima volta una rottura a quello schema; magari impostare un dialogo vero con quella donna che andasse oltre i soliti paradigmi che da diversi mesi nemmeno ascoltava più. Così, quella volta, invece di aprire il giornale e fingere d’interessarsi al solito trafiletto, volle fidarsi di quella persona. Con un cenno della mano, disse: “Senta…”
La donna, incuriosita, allungò il collo in direzione di Harlan Petrović. “Forse le sembrerà una cosa assurda, ma lei, questo giornale me lo ha già prestato ieri.”
“Come?”, chiese la donna assumendo un’espressione interrogativa.
“Sì, è così”, aggiunse Harlan. “Senza nemmeno sfogliarlo le so dire di che cosa parla.” Allungò il quotidiano di nuovo alla donna. “Lo apra. A pagina 15 c’è il trafiletto intitolato Sanguinose rivolte all’interno del Villaggio di Medgigia. A pagina 36, invece, c’è un ricco Dossier sugli Scout Indiani. C’è una frase che mi piace in particolar modo e che dice: Sin dal loro primo incontro i visi pallidi coltivarono una profonda diffidenza verso i musi rossi. Controlli pure, se non mi crede. Quel giornale lo avrò letto centinaia di volte. Lo conosco come le mie tasche.”
La donna continuò a fissarlo sempre senza capire; poi, dopo un po’, andò a pagina 36. Trovando quella frase, chiese all’uomo: “Ma lei non l’ha aperto nemmeno questo giornale, come ha fatto a…”
“Come ho fatto, dice?” Trasse un lungo respiro. “Sembra che l’unica persona qui presente, anzi sembra proprio che l’unica persona in assoluto che abbia capito che questa non è la realtà, ma un sogno sia io. È difficile da credere ed è ancora più difficile spiegarlo agli altri, ma le cose stanno proprio così. Riesco a prevedere ciò che succede, ben prima che questo accada. Conosco già tutto il copione della storia, ecco. Poco fa, nel Villaggio, ho evitato alla mia compagna di essere assalita da un Guardiano, ad esempio.”
La donna continuò a guardarlo con un misto di sorpresa e d’interesse. Allargò un sorriso. “Interessante”, disse. “Tutto molto interessante.”
“Interessante, dice? Sì, lo so che cosa pensa”, disse l’uomo. “Questo qui è un po’ matto. Gli piace prendersi gioco delle persone inventandosi dei giochi di prestigio. Non è facile credermi.”
“Io, invece, penso che sia facile crederle”, disse la donna senza smettere di sorridere. “Ad esempio, basta che mi dice che cosa accadrà tra poco.”
Dopo diverse ore di viaggio, il treno giunse al capolinea, terminando la corsa. Uno dei passeggeri, probabilmente un fuggiasco, gridò: “Sono qui! Sono di nuovo qui!” Si riferiva alle Guardie Nere. Harlan Petrović sollevò di scatto il capo, si alzò in piedi e andò a guardare fuori del finestrino. Diversi uomini in divisa antracite avanzavano velocemente in direzione del convoglio. Era difficile stabilire se si trattasse delle stesse guardie di prima o di altre accorse in aiuto dei colleghi. Ma non era rilevante. L’importante era scendere immediatamente dal treno e continuare a fuggire.
“Karina!”, gridò con quanto fiato aveva in gola, ma nel bel mezzo della confusione era difficile ascoltare una risposta. “Karina Subonis, dove sei?” Fu spintonato attraverso il corridoio e non riuscì ad evitare di finire giù dal convoglio. Chiamò, ancora diverse volte, disperatamente il nome della compagna: “Karina! Karina Subonis!”, ma la calca lo spinse sempre più lontano dal convoglio.
All’altezza di un binario, ritrovò la donna bionda che gli disse: “Mi spiega come ha fatto? È riuscito a prevedere ogni cosa: il treno che si fermava immediatamente, la folla che ci travolgeva, e ora la fuga! Lei mi ha detto la verità!”
“Ho perso di vista Karina!”, disse di rimando l’uomo, senza badare a quello che la donna stava dicendo. “Mi dispiace, ma devo tornare indietro a trovarla.”
“In bocca al lupo”, gli urlò la donna alle sue spalle.
Fece tutta la strada a ritroso. Senza temere le scudisciate delle Guardie Nere. La folla era un fiume impetuoso, ma lui l’affrontò con dinamismo, andando controcorrente. Fu travolto da urti, grida e diversi insulti, ma riuscì a giungere di nuovo a brevissima distanza dal convoglio. Quando finalmente vide la sua compagna battere con insistenza una serie di pugni contro il vetro della carrozza di coda, gridò: “Karina Subonis. Perché non scendi?” Provò ad allungare una mano in direzione della compagna, ma fu un gesto inutile e disperato. Il convoglio chiuse le porte e riprese il suo viaggio, guadagnando velocemente terreno.
Le loro strade si divisero.
Nel tardo pomeriggio il sole guadagnò di nuovo il suo spazio tra le coltri di nuvole grigie, e quando queste si dileguarono del tutto il cielo fu invaso da raggi incandescenti che resero il resto della giornata insopportabilmente calda. I pochi fuggitivi rimasti si spostavano alquanto velocemente davanti alla massa scura delle Guardie. Quell’inseguimento sembrava non destinato ad alcuna soluzione. Erano due fazioni perlopiù esauste; lo si notava nel ritmo più blando della corsa, dalle facce grigie e affaticate. Le note stonate, in mezzo a quel motivo uniforme, monocorde, erano quei prigionieri della veglia che non stavano al passo; nel momento in cui cadevano per terra i loro corpi inermi subivano le violente sferzate delle armi d’ordinanza.
Nell’aria calda del crepuscolo si levarono nel cielo svariati schiocchi, implacabili.
Anche Harlan Petrović era esausto e sentiva che la resa sarebbe stata prossima.
Un deserto color nocciola si estendeva a perdita d’occhio; non c’era nulla attorno a loro: non un albero, nessuna casa, o una collina in lontananza; nemmeno un masso dietro cui andarsi a nascondere. E due pensieri adesso gli inondavano la testa, simili a un fiume in piena straripante dagli argini. Il primo era: “Se cado anch’io, morirò sotto le sferzate”. Il secondo era un pensiero un po’ diverso. Gli suggeriva che per diversi mesi, rinchiuso nella sua abitazione, era stato una non-persona, una specie d’insetto timoroso persino della sua ombra. Adesso, invece, nel mezzo di quel nulla assoluto era diventato improvvisamente un vero essere umano; un uomo pronto a conquistarsi la sua fetta di gloria.
Che senso avrebbe avuto nascondersi ancora?
La fine prima o poi sarebbe arrivata, ma questa volta avrebbe lottato sino in fondo.
L’immagine di quella fuga in mezzo al deserto si sovrappose, a poco a poco, all’immagine del sogno: le decine di uomini nelle divise scure avvolti dalla nuvola di polvere sollevata in aria dai loro passi veloci. TU-dum-TU-Dum-Tu-dum. Sembravano proprio zoccoli a contatto col terreno. Ad un certo momento, Harlan rallentò fino a fermarsi. Alcuni uomini lo investirono immediatamente con violente spallate e in breve si ritrovò faccia a terra, nella sabbia calda, travolto da coloro che gli correvano alle spalle.
S’addormentò.
Quando il sole si sollevò di nuovo ad est, Harlan Petrović ricordò di avere fatto uno strano sogno. Nell’angusta stanza immersa nella penombra, la mano di Karina Subonis gli strinse con violenza un polso.
“Svegliati, Harlan”, gli disse nervosamente la donna. “Stanno venendo qui!”
Immagini di testata: Edvard Munch – Separation II