Quella roba lì.
Quella roba lì si chiama nostalgia; nostalgia di casa, dei ricordi più veri, degli anni spensierati dell’infanzia, degli amici, della famiglia, dei posti a cui non riesci a non voler bene.
In Brasile hanno coniato la parola perfetta per descrivere questo melting pot di sensazioni: saudade.
Dicono che quando approdi in questa terra, il paese del samba e del carnevale, non riesci ad andartene senza provare questa malinconia tutta sorrisi e frutta baciata dal sole.
La mia saudade aveva il colore del tramonto sulle mura, delle domeniche tutti insieme davanti a un piatto di polenta fumante, dei giri in bicicletta passando per la vecchia scuola, la latteria, il cinema del quartiere. La mia saudade era quella casa: sempre dritto per tutta la salita e poi la prima via a sinistra. Via a fondo chiuso, via che prendeva consistenza grazie alle urla di noi bambini tutti impegnati a giocare fino a sera, quando le grida delle nostre madri si sentivano fino allo stradone e andavano a mischiarsi al profumo della cena.
La mia saudade era il volto di mia madre, troppo spesso segnato da preoccupazioni con le quali avrei dovuto imparare a convivere; quel volto capace di darmi quella sicurezza che solo una madre sa dare, quel sorriso che ripagava ore e ore di interminabile sofferenza.
Le sigarette fumate di nascosto sul terrazzo, la pelle scura baciata dal sole, il suo essere incredibilmente bella senza alcun tipo di fatica. Ricordo come fosse ieri come portava un paio di jeans e una maglietta di una o due taglie più grandi e, ai piedi, quelle incredibili superga senza tempo. L’eleganza innata di una ragazza di paese, arrivata in città così giovane da potersi permettere tutto.
La naturalezza con cui apriva il pane ancora caldo in coda alle casse, le litigate a cielo aperto non curarandosi di nessuno e quella gioia mozzafiato che le si leggeva sul viso quando le capitava di guidare tutta la notte, senza paura.
La mia saudade ha il profumo del loro amore, degli occhi di mio padre quando lei si vestiva la mattina, quando vomitava parole e chemioterapie, quando la consapevolezza di un addio faceva a pugni con la più testarda delle speranze.
Qui non piove da settimane, mesi forse, i 40 gradi di Rio de Janeiro ti entrano nelle ossa, nella testa, nel cuore. Non si può essere tristi, eppure la mia mente ripercorre gli inverni bergamaschi, alla disperata ricerca di segnali di primavera. Le stagioni che cambiano, i colori che definiscono l’umore, le persone che sono sempre le stesse sedute negli stessi bar lamentandosi della lungaggine di un freddo che sembra non passare mai.
Saudade del freddo. Saudade del freddo che sta per terminare.
Penso a casa.
Penso che l’unica cosa che non ho lasciato a casa è la Paura.
Siamo sempre state insieme io e la paura.
Corro a ritroso nei miei ricordi eppure non riesco a incontrare l’immagine del giorno che la conobbi, è come se fosse sempre stata con me.
Seduta in terrazzo con mamma a prendere il primo sole primaverile: “mamma come si fa a sconfiggere la paura?”.
Insomma lei c’è sempre stata: tra i banchi e la cattedra di un professore, nella richiesta della lista dei gelati in riviera, in un telefono che squilla; presente a tutti i saggi scolastici, alle prime uscite e alle seconde, ai voli aerei, ai “ti devo parlare”. Sempre.
Eccoti, paura.
La conosco così bene da sentirne i suoi passi da lontano, lo stomaco che si chiude, le ore passate nei bagni di ogni ostacolo e città incontrate nella mia vita.
Probabilmente io le sono simpatica, e lei è solo l’ennesima cosa distruttiva alla quale mi attacco, da sempre, negli anni.
Quel leggero sentore di vomito misto all’assenza di raziocinio e a quella precisa consapevolezza di essere completamente inadeguata. Ben arrivata paura, anche oggi hai deciso di tenermi compagnia.
Mamma sapeva che erano principalmente le persone a darmi preoccupazione, la loro arroganza, la loro assenza di sinonimi e imperativi. Ricordo ancora quando mi insegnava a immaginarmeli in bagno, seduti sulla tazza impegnati in un significativo dopo cena. “Vedrai – diceva – in questo modo non avrai più paura di nulla”.
Nella mia vita ho percorso parecchie strade, attraversato continenti e parlato diverse lingue eppure lei, quella maledetta sensazione di disagio è ancora qui con me.
Ho sempre cercato terrazzi molto alti, dai quali guardare lontano provando a ricordare ogni parola di quei discorsi pronunciati in quelle giornate di pioggia piene di sole.
Certe sere ce ne stiamo io e lei davanti a una birra gelata; per qualche secondo mi dimentico di quanto sia terribile, la osservo mentre mi impedisce di vivere serena e brindo alla sua salute, perché la mia è da tempo che mi sfugge di mano.
Siamo sempre io e lei su quel terrazzo e una sedia vuota oramai è prenotata dal dolore, il dolore di un’assenza così ingombrante da far invidia al più mastodontico degli elefanti.
Me ne sto lì con una musica di sottofondo domandandomi per quale motivo, negli anni, invece che imparare a gestirla ne sia diventata succube.
E dire che c’erano stati anni in cui mi ero dimenticata della paura.
Ogni tanto immagini rapide di quei giorni colorano la mia memoria lasciando macchie di china nera quasi indelebili; giornate che vanno a cancellare temporalità e rimembranze.
Le settimane erano tutte uguali, scandite da episodi di dolore più o meno grandi; il timore non mi seguiva più come un’ombra, mi lasciava tranquilla in quella totale assenza di emozioni. La mia apatia faceva da schermo a tutta quella sofferenza e non avevo più bisogno di immaginarmi le persone sul cesso; mi importava così poco di tutto il resto, e per resto intendo tutto.
Tutto tranne lei.
Tutto tranne l’altra lei, quella che sedeva con me spiegandomi come sconfiggere i mostri della vita.
Ho smesso di avere paura quando mia madre ha cominciato ad averne.
Paura di morire, paura di lasciarci tutti senza risposte, paura nell’accorgersi di non averne nemmeno per lei.
Quando se n’è andata quel vuoto immenso, quel vuoto nato ed espanso con la malattia stessa, piano piano è tornato a urlare, a gridare che c’era bisogno di avere paura, di nuovo.
Continuo a pensare a casa.
Penso che non importa dove ti conducano la vita, il lavoro o le decisioni, consapevoli o meno, che ti trovi a dover prendere; ovunque tu sia, il pensiero di dove sei nato è il fondamento di ogni giornata. Ti accompagna come un cane fedele impedentoti di dimenticare gli odori di un passato così attuale da lasciarti senza fiato.
Quando abiti in una grande città cominci a fare pace con i taxi, a non sentirti una di quelle ricche privilegiate che spesso incontri solo nei film; impari a lottare contro le lungaggini degli spostamenti, sempre in guerra con lei, quella stessa città in cui stai vivendo giorno dopo giorno. Il sole mattutino bacia il paesaggio di una domenica desolante, una di quelle domeniche di passaggio, spese e sospese tra aereoporti e coicidenze. Dal finestrino del taxi guardo i passanti, qualcuno già popola le strade, tutto preso da esercizi per gli addominali e attività aerobica; se lo guardi bene capisci che è proprio quel qualcuno che invidi così tanto, completamente coinvolto nella sua corsa, anticipatrice di un pranzo in famiglia che lo sta aspettando; lo osservo piena di gelosia, consapevole che la mia direzione, invece, non è di certo quella che porta verso casa. Meglio non contarle le domeniche senza di loro, le domeniche che mancano al pranzo di Natale.
Ingoio quel nodo in gola prima che sia troppo tardi, prima che i ricordi fagocitino le scelte di un presente così concreto. Le immagini corrono veloci insieme ai pensieri e alle possibilità. Le corsie autostradali, i cartelli: tutto annuncia la prossimità a quel luogo asettico e spersonalizzato, covo di aria condizionata e panini tutti uguali.
Poltrona dopo poltrona assisto al passaggio di quei visi che mi sembra di avere già visto migliaia di volte; visi che raccontano la loro direzione, visi che urlano in silenzio quale è il loro destino.
Io non riesco a fare altro che starmene immobile di fronte alla mia vita e, mi faccio domande il più lontano possibile da qualsiasi risposta.
Saluto il taxista, gli sussurro buon lavoro. La giornata è lunga ma glielo leggo negli occhi che sente già il profumo di casa.
immagine di testata: The Silver Ray of Consciousness (Max Gasparini) – Pittura Premio Celeste 2012. Pittura Figura umana Olio (Max Gasparini – Bergamo Italia)