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Non fare il Sentimentale

Racconto scritto e proposto da Nemo Rascati

Indossava quel vestito a fiori con gonna ampia che aveva comprato da Zara in giugno, e quel giorno fuori dal camerino c’era lui, seduto a gambe accavallate su una poltrona in stoffa, sorridente e vagamente imbarazzato. Lo sfondo su cui risaltavano fioriture e arabeschi era giallo. Anche i sandali erano gialli. Tutti particolari che per Nicolas in quel particolare momento non significavano niente. Faceva yoga, seduto sul letto a gambe incrociate. La osservava sbattendo le ciglia.

Le telefonate e le lettere e le condoglianze, le visite dei conoscenti o dei parenti più prossimi, durarono per tutta la prima settimana. Quindi rimasero soli, lui e Giovanna, in una villetta rustica a qualche chilometro dalla strada provinciale e da altra forma di vita. A quel punto però era irrimediabilmente caduto nell’apatia. Incapace di relazionarsi con il mondo circostante, di cui Giovanna sentiva dignitosamente di farne parte, si dedicava mente e corpo a giochi di guerra che giravano nell’X-Box. Lei spazzava la sala, la camera da letto, stendeva la biancheria, rassettava la cucina, e in sottofondo c’erano deflagrazioni, mitragliate, rantoli di dolore e oscure comunicazioni radio. Si dedicò alle faccende di casa con profonda generosità e, una mattina, avvertì che la misura era colma. Aveva dato tutto quello che poteva dare.

Svuotò l’armadio e la cassettiera, ripose nella valigia gli indumenti piegati e ordinati.

Infilò l’anello metallico del lucchetto negli occhielli della zip. Nicolas scivolò giù dal letto appostandosi davanti a lei con le spalle scese e le braccia lungo i fianchi. Le labbra arricciate in un broncio, gli occhi arrossati. La sua lunga ombra proiettata sulla valigia, sulle piastrelle quadrate grige e sull’armadio laccato di bianco. Lo guardò dal basso. Gli chiese: – Dimmi che intenzioni hai?

Aspettò una risposta per una decina di secondi. Lui tacque, sottolineando il silenzio con profondi e ostentati respiri. Sbuffò, fece scattare il lucchetto, raccolse a due mani la valigia e la trascinò sul corridoio, in sala, appoggiandola sotto l’attaccapanni vicino all’ingresso. Andò in cucina e aprì il frigorifero. Parlava da sola. – Dove ho messo lo yogurt?

Nicolas l’aveva seguita senza dire niente, a testa china, e ora girava attorno al tavolo con le mani sui fianchi guardandosi attorno, come se non avesse idea di dove fosse.

Mangiarono in silenzio, poi lui si alzò dalla tavola e andò in sala.

Chiamò un taxi. Abbassò la cornetta. Fissò la finestra. Non era la madre, era il riflesso di Giovanna seduta a tavola. Eppure per un attimo era sembrata proprio lei. Oltre il vetro la siepe di graminacee che delimitava il giardino. Chi se ne sarebbe occupato se non lui. La morte e lo slancio vitale. Forse era questo che intendeva Don Marco. «Cristo è morto per te». L’aveva afferrato per un braccio, una presa d’acciaio. Ma Nicolas era riuscito a liberarsene e ad acchiapparlo per un orecchio. «Comprendo il tuo dolore figliolo». A quelle parole compassionevoli, a quello sguardo di dolorosa rassegnazione, non aveva resistito. L’accompagnò a calci nel sedere giù per il vialetto fino alla station wagon coreana. «Torna a casa buffone». Che soddisfazione, che slancio vitale, che gesto autentico, che volontà di potenza.

Tornato in casa scoprì che un lontano cugino di sua madre era uno psichiatria. Era stato assalito, sedato con barbiturici. Nel conciliabolo che si creò attorno al divano in salotto il dottore informava con tono cospiratorio che il ragazzo era in preda di crisi ciclotipiche. A suo vantaggio, questa diagnosi incomprensibile fu qualcosa che suscitò terrore e presto la diaspora dei parenti venuti da lontano.

Colse il suo riflesso nella finestra. Alle spalle Giovanna lo stava guardando di sbieco.

– Ehi, tutto bene?

– Dieci minuti e il taxi è qui, – disse infilandosi le mani in tasca. – Vado a prepararmi. Andò in camera. Indossò i pantaloni di una vecchia tuta da ginnastica e una maglietta nera pataccata, mentre lei sul divano della sala si lisciava i capelli e buttava un occhio disinteressato alle previsioni meteo della TV.

Fuori, il sole aveva trovato un pertugio tra le nuvole e il maestrale aveva perso intensità. Restarono a lungo abbracciati sullo zerbino all’ingresso, fino a quando il tassista diede un colpo di clacson. La vide camminare sul prato, con i capelli al vento, e fu preso dal violento desiderio di riportarla in casa e strapparle i vestiti di dosso. Gonfiò il petto e tornò in casa. Prima di vederla chiudere la portiera ebbe il tempo di ricordarle di scrivergli un messaggio una volta giunta in aeroporto. Lei rispose: – Non fare il sentimentale. Mi farò sentire.

Non indugiò oltre, liberatosi della compagna non aveva più un pubblico da coinvolgere, da provocare e annoiare con i suoi patemi d’animo. Chiuse la porta, strofinò le mani contemplando l’interno del salotto e annusando nell’aria il confortevole odore di casa, elencandosi le possibilità d’intrattenimento in un tempo appartato dal mondo. Sentiva una certa euforia, le possibilità erano davvero infinite. Si avviò verso una esplorazione della cucina.

Nella credenza, trovò una bottiglia di Lagavulin colma per due terzi nascosta dietro una dozzina di barattoli in vetro. Pensò si trattasse di un regalo postumo della cara madre. Fece un po’ di zapping, ma non riusciva a concentrarsi su nessun programma in particolare, niente che impegnasse la concentrazione per più di cinque minuti. Buttava un occhio al display sul lettore DVD e aveva la netta sensazione che tra un bicchiere di whisky e l’altro il tempo stesse rallentando. Sotto la TV, nell’X-Box acceso girava il disco della morte. Con i cavi attorcigliati al controller sembrava un cefalopode artificiale contorto dal dolore. Una creatura aliena di Cronenberg.

Si addormentò con il bicchiere in mano e un cuscino stretto al petto, risvegliandosi al tramonto. Tirò giù le persiane e strisciando i piedi andò in camera da letto per prendere il telefono. Giovanna gli aveva scritto un messaggio striminzito, con più puntini di sospensione che parole. Fece schioccare la lingua e lanciò il telefono sul letto. – Ma vai a cagare, stronza -. Insultarla, soprattutto quando lei non c’era, aveva sempre un effetto catartico sul suo umore.

Mani in tasca attraversò il corridoio. Poco prima di rientrare in salotto si fermò e iniziò a guardarsi attorno circospetto. Aveva sentito un rumore. Pochi secondi ed eccolo di nuovo. Sembrava un foglio di carta stropicciato e appallottolato. Pacchi spacchettati, confezioni regalo disfatte dalle avide mani di un bambino. Guardò il fondo del corridoio alle sue spalle: a destra la porta di camera sua, a sinistra il bagno. Il rumore proveniva da quella parte e tornò sui suoi passi. Eccolo, ancora, più vicino. Alzò la testa verso lo sportello di compensato della soffitta e vide che la cordicella attaccata alla serratura oscillava. Tornò in camera da letto, prese una sedia, la posizionò sotto la botola e ci salì sopra. Tirò la cordicella e fece scattare la sicura della scaletta telescopica.

C’era odore di muffa, di calce e qualche altra essenza chimica. Vicino alla botola trovò una torcia elettrica e prese a illuminare gli spazi meno accessibili, dove i travicelli in legno incontravano il pavimento. Seguì una striscia bianca di Baygon da un angolo all’altro. L’odore era greve e acido. Starnutì e coprì il muso con la maglietta. Alle sue spalle c’erano tre scaffali in alluminio occupati da scatole di cartone, ordinate dalla mensola bassa alla cima per grandezza e senza alcun segno distintivo. Era curioso ora, parecchio curioso. Ma non poteva stare lassù ancora per molto, il tanfo era insopportabile. Passò la torcia da un ripiano all’altro degli scaffali, e l’attenzione cadde su uno scatolone in cima. Era aperto. Si avvicinò e si accorse che il nastro adesivo si era scollato dal cartone. Infilò una mano e scartò diversi strati di cellofan per poi giungere con i polpastrelli a un oggetto freddo e liscio. Un tubo in ferro, in acciaio, o qualcosa di simile. Ora era seriamente curioso. Arrivò a un estremo dell’oggetto e si rese conto che era un tubo cavo. Infilò il dito nella cavità e poi tirò fuori la mano dalla scatola. Il polpastrello era nero, e aveva un odore familiare. Era l’odore del padre, e quello era il suo fucile.

Dopo ore di ricerche su internet capì di avere tra le mani un vecchio Breda Gemma. Tre chili e settanta centimetri di canna. Semiautomatico, fresature d’alleggerimento, manetta otturatore estraibile. Su You Tube trovò il video di un vecchio baffuto americano che spiegava come smontare e rimontare l’arma, esponendo a favore di camera le sue mani ammorbate dal Parkinson, i suoi calli e le unghie annerite. Seguì passo per passo le sue istruzioni. Canna, otturatore, pacchetto di scatto e mollone del caricatore tubolare. Con un vecchio spazzolino da denti e olio d’oliva ripulì i pezzi e lo riassemblò con cura. Compiaciuto e fischiettante si guardò allo specchio imbracciando l’arma con un mezzo sorriso satanico di un Lee Oswald di campagna.

Passeggiò per la casa con il fucile a tracolla. Marciava, a petto gonfio. Poi lo imbracciava e puntava per gioco abat jour, soprammobili, orologi, quadri, specchi, lampadari, ragnatele. Accarezzava il calcio, baciava la canna, pigiava il grilletto.

Sdraiò il fucile sul divano e andò a svuotare la vescica in bagno. Canticchiava una marcia militare e si guardava allo specchio. Sorrideva e si lavava le mani, strofinando palmo e dorso con cura. C’era una luce dorata alle sue spalle che dava al suo volto un’espressione eroica. Era notte fonda, la luna era piena e dalla finestra poteva vedere lo stagno. C’erano figure, silhouette, magre ed eleganti sul vello d’oro dell’acqua. Lente e compassate, sinuose creature acquatiche di un mondo sovrannaturale. Rostro incurvato, zampe come trampoli, impettiti dinnanzi alla vacillante luce lunare. Fenicotteri rosa. Era almeno vent’anni che non se ne vedevano da quelle parti, suo padre era ancora vivo.

Nello scatolone era rimasta una scatola di Clever Mirage, con sei proiettili calibro dodici. Dio che sballo, Dio che sensazione. Disperata euforia. Toccare la canna calda, abbracciare il rinculo, puntare e premere il grilletto contro quelle creature, ascoltare il grugnito nasale, l’ansito della morte dei pennuti venuti del paradiso.

Nemo Rascati

Author: Alieni Metropolitani

Gli Alieni Metropolitani non cercano soluzioni. A volte ne trovano… é irrilevante. Appartengono alla Società e con sguardo consapevole ne colgono l’inconsistenza. Non sono accomunati da ideologia, religione o stile di vita ma da una medesima percezione del mondo. Accettano i riti della vita, riuscendone a provare imbarazzo. Scrivere! Una reazione creativa alla sterile inconsistenza del mondo.

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