C’è una linea molto sottile che si snoda lungo tutto il libro di Anna Maria Ortese.
È la complessa cronaca di un male oscuro di vivere di cui è vittima Napoli negli anni immediatamente successivi al secondo dopoguerra.
L’anno è il 1953: Winston Churchill ottiene il Premio Nobel per la letteratura; Eisenhower diventa il 34^ Presidente degli Stati Uniti d’America; il 30 agosto Fausto Coppi conquista il titolo mondiale di ciclismo su strada a Lugano.
Proprio in quell’anno alla Ortese viene assegnato il Premio speciale per la narrativa del Premio Viareggio per la raccolta di novelle de Il mare non bagna Napoli.
L’Italia, dopo essere venuta fuori dalla guerra, incomincia a diventare curiosa.
Ha vissuto anni difficilissimi e prova, dopo tanto tempo, l’impulso improvviso di gettarsi alle spalle un ventennio di repressioni, di censure, per affacciarsi, così, ad avvenimenti – i fatti di cronaca prima di tutto – che il fascismo aveva sempre passato sotto silenzio. Il caso Wilma Montesi ne è un chiaro esempio. Primo fatto di cronaca nera, di male oscuro italiano, a raggiungere fama nazionale nella giovane Repubblica, in cui gli italiani si ritrovano per la primissima volta ad affondare il naso nei principali quotidiani e scegliere se schierarsi dalla parte degli innocentisti o dei colpevolisti.
Ma, al di là dei fatti di cronaca, erano questi soprattutto gli anni in cui l’Italia iniziava a discutere di tutto. E proprio in questo clima nuovo anche il libro della Ortesenon passò inosservato dai dibattiti a causa degli argomenti che trattava.
Il mare non bagna Napoli è una delle opere più note della scrittrice che le vale soprattutto la dolorosa accusa di anti-napoletanità. Ed è qui, allora, che quella linea si fa più dura, si inspessisce, sino a dividere quasi per sempre la scrittrice e la città. “Questa condanna mi costò un addio, che si fece del tutto definitivo negli anni che seguirono, alla mia città. E in circa quarant’anni – tanti ne sono passati da allora – io non tornai più, se non una volta, per qualche ora, e fuggevolmente, a Napoli”, dichiarerà la scrittrice diverso tempo dopo nel tentativo di sanare una ferita che non si era mai più cicatrizzata.
Ma Napoli non è la sua città – anche se un titolo redazionale apparso su Il Mondo l’aveva definita la Mansfield di Via Toledo, per evocare erroneamente le origini napoletane della scrittrice – perché Anna Maria Ortese, napoletana non è.
Il Mare, a parere di chi recensisce, nella scrittura intensa, fatta di una prosa esagitata, non era stato destinato dalla Ortese a produrre una Napoli personale, una città dotata di una luce speranzosa, dettata dalle solite e banali coordinate (disinteressate, astute) alto borghesi; quanto, preferibilmente, A. M. O. ha, all’opposto, voluto dare vita ad una realtà allucinante e incomprensibile.
Se Il mare non bagna Napoli fosse un quadro, non sarebbe, di certo, nessun lavoro di Bouguereau– una composizione complessa in cui è esaltato il solido senso dei volumi e il tratto decisamente fermo – quanto piuttosto una cruda opera di Cormon; una impaginazione realista e negativa.
I personaggi di Anna Maria Ortese ruotano attorno ad un mondo infernale in cui si pongono senza alcuna retorica, anche se sono costretti a gridare contro l’orrore che sono costretti a vivere. Ne è un chiaro esempio la figura di Eugenia, protagonista, mezzo cieca, del primo racconto, Un paio di occhiali, che alla fine della novella, quando finalmente donna Rosa li poggia sul volto della bambina, quest’ultima, invece di vedere il mondo fatto da Dio, un mondo di vento, di sole e di mare che aveva prima di quel momento soltanto immaginato, si piega in due e vomita. L’autrice, attraverso il personaggio della bambina, tenta unicamente di fare i conti con la realtà. Anche qui, quella linea ritorna, e passa solo per dividere due mondi. Da un lato, il mondo velato, quasi onirico, nascosto dalla miopia, che fa “apparire” le cose più belle e quindi per questo più desiderabili, ed il mondo dell’orrore, dall’altro lato, il mondo reale, che si rivela in tutto il suo senso di repulsione agli occhi di Eugenia nel momento in cui indossa per la prima volta quegli occhiali “rivelatori”.
Ma all’autrice non basta semplicemente questo saggio di neorealismo, per mettere in evidenza un mondo senza aspettative. È il caso di Anastasia Finizio, protagonista del racconto successivo, una donna non più giovane destinata alla solitudine e a mantenere la sua famiglia col proprio lavoro, che scopre che è tornato a Napoli Antonio Laurano, un suo vecchio spasimante. La donna pensa di poter cambiare la propria vita, e si illude, per un po’. Fino a quando scopre che Antonio è fidanzato con un’altra, ed allora anche tale speranza non può che occupare lo spazio di un sogno (“Un sogno, era stato, non c’era più nulla”) e bisogna quindi essere destinati a tornare ancora una volta all’amarezza della realtà.
Su tutta la prosa del libro regna il finale di un altro racconto, Oro a Forcella, in cui la Ortese dimostra di essere non semplicemente un’abile narratrice, quanto un grande maestro della descrizione: con pochissimi elementi sa ricomporre sapientemente la realtà; e qui il realismo rompe verso il fantastico (come nella descrizione dei poverissimi vicoli di Napoli) e la poesia emerge sorprendendo il lettore (come quando descrive la “farfalla marrone, con tanti fili d’oro sulle ali e sul dorso”, che entra, non si sa come, nella sala del Banco dei Pegni, nell’ultima, splendida immagine del racconto), e lasciandolo disarmato.
Il mare non bagna Napoli è la diretta testimonianza dello spaesamento vissuto dalla scrittrice negli anni trascorsi nella città e del quale nessuno può o riesce a sottrarsi, anche a distanza di tanti anni dalla pubblicazione del libro. Sono passati circa sessant’anni, ma quello spaesamento è ancora palpabile, visibile in chi si aggira per le strade di Napoli, e si lascia coinvolgere da quell’aria isterica, allarmata, sfuggente, amara e speranzosa di cui sembra essere avvolta. È un libro moderno, e fino a quando Napoli non uscirà fuori dalla propria inguaribile malattia, sarà sempre un libro attuale; sessant’anni fa, come adesso e forse ancora tra sessant’anni.
Dichiara ancora la scrittrice: “Quest’orrore – che le attribuii – fu la mia debolezza. Me ne sono a lungo rammaricata, e ho tentato più volte di precisare quanto comprendessi il disagio di un comune lettore italiano cui non fu detto […] che il Mare era solo uno schermo, non proprio inventato, sui cui si proiettava il doloroso spaesamento, il