Due persone, un uomo e una donna, si abbracciano accanto al finestrino. Stanno in piedi, e l’uomo si china in avanti a baciare la donna. Cerca di tenersi in equilibrio mentre il treno riparte, tenendole ben stretto un polso, e continuando a baciare con dei fastidiosi rumori della bocca. Le appiccica le labbra sulla guancia facendole schioccare. Quindi, si stacca e la scuote leggermente per i fianchi come se fosse un pezzo di legno, o una specie di pupazzo gigante.
La signora è sui cinquant’anni. Ha capelli biondi, due occhi gelidi come pezzi di ghiaccio, con un filo di malinconia attorno. Braccia grosse, appese ai fianchi, e mani ciondolanti; mi dà l’impressione di una persona totalmente inattiva. Con lo sguardo abbassato, perso, incassa gli slanci teneri dell’uomo senza contraccambiare.
Anche l’uomo ha l’aria infelice. Non ha l’aspetto di un marito. Dal modo in cui abbraccia la donna, si direbbe piuttosto il fratello, o un cugino. Ha questo modo di baciare piuttosto goffo, e dà la sensazione di non averlo mai fatto in vita sua. Si china troppo, allunga le labbra in modo eccessivo, e bacia.
L’avrà fatto almeno una decina di volte da quando li osservo.
Ad un certo punto, l’uomo si stacca di nuovo dalla donna e mi punta gli occhi addosso. Distolgo subito lo sguardo e cerco di guardare altrove. Così mi ritrovo ad interessarmi a tutte le cose che mi stanno attorno. Guardo le persone sedute di fronte a me, il pavimento sporco e le rastrelliere vuote. Fingo di provare interesse per i neon che passano veloci al di fuori del finestrino. Ne passano diversi, ne conto dieci. Poi, leggo le targhette poste sul finestrino: Non gettate alcun oggetto dal finestrino ed È pericoloso sporgersi. Leggo le due frasi anche in francese. Di solito, in metro, faccio scorrere il tempo leggendo un libro. Ma stamattina, nella fretta, ho dimenticato ‘Il ciclo delle Fondazioni’ sulla scrivania. Così cerco di pensare ad altro, ma ora i loro gesti si riflettono nel vetro.
Definirli eccentrici è poco. Non me ne sono accorto solo io. Anche gli altri passeggeri li guardano. Anzi, hanno gli occhi di tutto lo scompartimento puntati addosso, e forse nemmeno se l’immaginano che sono due persone strane.
Il treno fa un’altra fermata. Piazza Amedeo. Scendono in parecchi dando il cambio ad altre persone che salgono a bordo.
L’uomo non si stanca a stringere goffamente la donna come una bambola di pezza. Hanno assorbito completamente la mia attenzione e non saprei spiegare perché non riesco a smettere di guardarli.
Ad un certo punto, l’uomo allunga un braccio e mi indica. Richiamando il mio sguardo, induce a voltarmi di nuovo. Mi si avvicina. Per come si sposta lento dà l’impressione di un palombaro che cammina sott’acqua.
“Roberto” dice allungando una mano. Ha pochi capelli grigi sopra una fronte larga, e tristi occhi azzurri. “Voi siete tale e quale a Roberto” dice; si sporge e mi sfiora la faccia con mani grosse e calde.
Provo un certo ribrezzo e mi ritraggo. Temo soprattutto gli occhi dello scompartimento addosso. “Come avete detto?”
“Somigliate a Roberto, mio figlio” ripete. Tenta di nuovo di toccarmi una guancia. Tiro ancora la faccia all’indietro, senza evitare lo spostamento d’aria della sua grossa mano. È un uomo imponente. Una specie di gigante arrivato in città per rendersi conto di come vive la gente normale. Poi, ritorna indietro e va a mettere quelle grosse mani sulle tempie della donna; gliele preme forte come se dalla sua testa potesse venir fuori qualcosa di prodigioso. Ripete per un po’: “Vera, Vera”, come una filastrocca monocorde. La costringe a girare la testa, prima di liberargliela. Gli occhi della donna mi squadrano in un modo apatico. È lo sguardo di un animale senza espressione. “Tu guarda un po’ se questo giovanotto non è proprio tale e quale a Roberto. Guarda. La stessa faccia.”
La donna mi punta, ma è come se il suo cervello non elaborasse immagini; ed ha una bravura eccezionale nel tenere il volto immobile. Gli occhi fissi, e nessun movimento del corpo. È proprio il pezzo di legno che l’uomo stringeva poco fa. Chiude per un paio di volte le ciglia; ma più che movimenti sono spasmi. Lei non controlla nulla. La bocca piegata all’ingiù è quella di chi non riesce ad ingoiare un boccone troppo amaro. “Non è Roberto”, sentenzia. “Tu vedi Roberto in ogni ragazzo che incontri.”
“Siete uguale a nostro figlio” insiste lui. “Giuro. Roberto, Robertino nostro…”
Non so cosa dire o fare. Non mi sono mai trovato in una situazione del genere. Ad un certo punto lo vedo cercare qualcosa in una tasca. Indossa una camicia di flanella più larga di almeno un paio di misure e una cinta di cuoio gli tiene il jeans un po’ troppo sopra la vita. Caccia un portafoglio di pelle nera, tutto consunto, l’allarga e sfila una fotografia tutta rovinata. Mormora qualcosa mentre bacia la foto con i soliti fastidiosi rumori della bocca. Dopo qualche attimo la avvicina alla bocca della donna in modo da fargliela baciare.
Poi, viene a mostrarmela. Di primo acchito non capisco niente. C’è questo palo della luce inarcato, del vetro sparso su un marciapiede e una macchia rossa e nera su un muro. Fisso per qualche secondo questa specie di graffito imperscrutabile. Ma devo morire fulminato se capisco cos’è. Quindi, l’uomo spiega. Mette un indice sopra la foto e mi chiarisce che quel graffito è suo figlio. Roberto.
Così, avvicino la foto agli occhi e guardo meglio. E lo vedo. La macchia nera e rossa ad un lato della foto, non è affatto una macchia. E non è nemmeno un cappotto appeso ad un muro come mi ero parso ad una prima occhiata. In quella fotografia c’è una persona spiaccicata. O, per meglio dire, quel che resta di una persona.
“È Roberto” spiega ancora avvicinando di nuovo l’immagine alla sua faccia. “È morto in un incidente stradale.” Lo dice senza staccare gli occhi dalla fotografia.
“Così questo è Roberto”, penso.
Se mai qualcuno, un giorno, dovesse venire a chiedermi: “Qual è la cosa più strana che ti sia capitata in vita tua?”, potrò raccontargli di questo tizio incontrato sul treno che se ne andava in giro con la fotografia del figlio schiacciato contro un muro.
“Come vi chiamate?”, mi domanda.
“Alessandro.”
Fa una certa pausa e poi chiede ancora: “Lavorate?”
“Studio ingegneria.”
“Alessandro. Siete uguale a Roberto, giuro. Vi offendete se vi dico una cosa? Avete la sua stessa espressione”, mi fa lui. Tiene la foto tra il pollice e l’indice. Se la guarda, la bacia per l’ultima volta e la rimette nel portafoglio. “Non è vero che tiene la stessa espressione di Roberto?” chiede alla signora.
Lei questa volta mi guarda e fa una smorfia quasi di pianto.
Ad un certo punto, dice: “Se venite a casa nostra, ci terrei a farvi vedere una foto di Roberto di quando era ancora vivo. È uguale a voi.” Me lo dice con un sorriso amaro, come se dovessi fargli un favore impossibile. “Ve lo chiedo per cortesia”, aggiunge, ed è come se assistessi all’assurdo spettacolo di una maschera che si sforza di sorridere. Mi sento arrossire. Più di un passeggero si volta a guardarci. “Che ne dite? Vi va di passare per casa nostra?”
“Questa sera?” Controllo l’ora sul display del cellulare. “Mi dispiace, ma devo tornare a casa. Magari un’altra volta, va bene?”
L’uomo s’incupisce. È come se la sua pelle assumesse un tono più scuro. “Alessandro, ve lo chiedo per carità cristiana”, fa. “Voglio farvi vedere quella fotografia. Così vi convincete che è uguale a voi.”
“Io non devo convincermi di niente”, mi piacerebbe replicargli. Ma non dico nulla per non contraddirlo. E poi il treno è quasi arrivato a Piazza Garibaldi. La maggior parte dei passeggeri si avvicina alle porte. L’uomo e la donna, invece, rimangono immobili accanto al finestrino. Guardano oltre il riflesso del vetro, forse per accertarsi che quella sia la loro fermata. Per un istante i nostri sguardi, il mio e quello dell’uomo, s’incrociano ancora fugacemente e senza nemmeno accorgermene mi lascio travolgere da un improvviso slancio di compassione; avrei potuto scendere dal treno, mescolarmi al resto della folla e tornare a casa; invece, mi avvicino a loro e dico che andrò a fargli visita, ma soltanto per cinque minuti.
Il tizio sorride. Dice: “Grazie.”
La donna, invece, non esprime nulla.
Do un colpo di telefono a casa. Risponde mia madre. Le dico che farò un po’ più tardi.
§§§
L’uomo e la donna mi precedono in un androne illuminato dalle poche luci di un’edicola votiva; è un vecchio palazzo, alle spalle della Ferrovia, con i muri scrostati dall’intonaco e un lurido pavimento di basoli. L’uomo si fa il segno della croce mentre passiamo dinnanzi all’immagine del Volto Santo e di Padre Pio. Lo fa due volte di seguito. Forse si segna pure per la moglie che tiene la testa abbassata, e che per camminare deve essere sospinta per le spalle dal marito.
All’altezza di una rampa di scale l’uomo si volta, mi osserva col suo broncio, e fa un gesto eloquente con la mano. Continua a girarsi indietro, forse per assicurarsi che non me ne vada via. Sul pianerottolo del primo piano ci fermiamo e riprendiamo fiato dopo la faticata delle scale. I nostri busti si riempiono e svuotano d’aria quasi all’unisono. È l’unico momento in cui quelle due persone mi sembrano vive. Dopo un breve andito, arriviamo di fronte ad una porta di legno. L’uomo caccia fuori dalla tasca un mazzo di chiavi ed apre. Allunga un braccio nell’entrata, accende la luce, e con un altro gesto della mano mi fa segno di seguirlo. “Entrate, prego”, dice spingendo la moglie per le spalle all’interno della casa.
L’appartamento è buio e puzza di muffa. Attraversiamo un corridoio lungo e stretto, le cui pareti sono tappezzate di numerosi santini, tra cui noto ancora una volta le facce di Padre Pio e di Gesù. Sopra una mensola, una Madonna vestita di nero ci guarda lugubremente da sotto una sporca campana di vetro. In un angolo, dei vestiti sgualciti sono accatastati sopra una sedia coi braccioli. La donna si stacca subito dal gruppetto e, con un terribile fracasso, va a trascinare la sedia fin nella camera da letto alla nostra sinistra; la osservo sedersi pesantemente sul letto e incominciare a piegare un pantalone con le mani.
Il marito la guarda per un po’, poi si volta e mi fa il solito gesto con la mano. In fondo al corridoio, in una piccola voliera inchiodata ad una parete, un canarino saltella nervosamente; accanto alla gabbia, una cornice senza ritratto è poggiata in bella mostra sopra un cassettone. All’improvviso provo un senso di minaccia. È come se nell’aria aleggiasse l’avvertimento che mi succederà qualcosa di brutto non appena toccherò l’oggetto sbagliato o se pronuncerò la parola proibita. Penso ad una serie di vocaboli da evitare: figlio, morte, incidente, lutto. Cerco di metabolizzarli lentamente come si farebbe con un pasto troppo pesante da smaltire.
In salotto l’uomo mi avvicina una sedia. “Accomodatevi, prego”, mi dice. Quindi, sollevando il polso a mezz’aria, aggiunge: “Sono quasi le otto. Forse avrete fame. Vi faccio cucinare qualcosa da mia moglie?”
Scuoto la testa e gli rammento: “Mi trattengo giusto cinque minuti.”
Aveva promesso di mostrami una fotografia del figlio, ma invece di andarla a prendere s’avvicina anche lui una sedia; ma non si siede, resta in piedi come colto da un pensiero profondo, improvviso.
Scopro a mia volta il braccio e batto un paio di volte con le dita sul quadrante dell’orologio in modo da richiamare l’attenzione dell’uomo. Ma nutro i miei dubbi che questa persona farà caso al fatto che i cinque minuti passeranno velocemente. Dopo un minuto è sempre lì, immerso nei suoi pensieri. È come se qualcosa al suo interno si fosse tutto ad un tratto bloccato. Non posso far altro che guardarmi attorno, e rammaricarmi (“Perché mi sono lasciato convincere?”). Anche sulle pareti del salotto ci sono diversi santini. Un ritratto di Giuseppe Moscati e uno di Santa Lucia che mostra gli occhi su un piatto. Forse, ha ragione mia madre quando dice che sono un bravo ragazzo e mi lascio coinvolgere troppo facilmente nelle vicende degli altri.
Ad un certo punto, l’uomo finalmente si sblocca, si alza lentamente dalla sedia e va a togliere da una mensola un vaso con dei fiori di plastica rossa, in modo da scoprire una fotografia di un ragazzo dal volto tirato. L’uomo punta l’indice contro la foto, e dice: “Roberto. Mio figlio.” Poi, accende un lumino rosso, di quelli che si vedono in genere nei cimiteri, e il sinistro bagliore giallognolo mi fa correre un brivido lungo la schiena. Chiede: “Vi somiglia, non è vero?!”
Prima che io possa rispondere qualcosa, la moglie appare sulla soglia del salotto. Ha occhi persi nel vuoto, guardano tutto e niente allo stesso tempo. È una persona piccola con lo sguardo spento.
“Nostro figlio”, le dice l’uomo col sorriso ebete di chi non sa più essere sereno.
La donna solleva faticosamente lo sguardo e punta occhi umidi, arrossati sulla foto del figlio.
Passa un altro lungo minuto; poi, l’uomo soggiunge: “Vera, fai un caffè a questo giovane.”
Vorrei replicare qualcosa, ma non dico nulla. In quel momento mi sento semplicemente come un estraneo che si è intromesso nella vita privata di qualcun altro senza poter chiedere il permesso. Guardo ancora il quadrante dell’orologio. Come se servisse a qualche cosa. I cinque minuti sono trascorsi da un bel po’, ed io sono ancora lì.
La donna si asciuga gli occhi e poi si volta con calma, come se muovere ogni singolo muscolo le costasse un’enorme fatica; esce dalla stanza spostando lentamente un passo dietro l’altro in direzione della cucina. Le braccia le pendono ai fianchi, come salami appesi ad essiccare, e non sono proprio convinto che abbia afferrato la richiesta del marito.
“Lo sapete com’è morto mio figlio Roberto?”, chiede in modo retorico l’uomo. “Un incidente con la motocicletta. Tra poco fanno undici mesi.” Fa una breve pausa. Dice: “Nel verbale della polizia c’era scritto che mio figlio è morto perché andava a duecento all’ora. Ma io non ci credo. Roberto era un ragazzo tranquillo, non era certo il tipo che si metteva a correre. Non mio figlio.”
Non dico niente. C’è qualcosa da dire in casi come questo? E, poi, io non conosco nessuno che sia morto guidando una motocicletta. Più guardo quella fotografia e più non capisco perché l’uomo si ostina a dire che somiglio a suo figlio. Roberto ha la stessa fronte alta del padre, i capelli neri, e non sorride, come se da tempo era già inconsciamente preparato a tutta quella tragedia: una bella corsa a duecento all’ora, i freni che non rispondono più ai comandi ed eccoti finito sulla fotografia nel portafogli di tuo padre.
L’uomo si avvicina e preme le mani sulla mia faccia. Ha mani ruvide di chi ha lavorato parecchio. “Grazie per essere venuto”, dice. Poi mi passa una mano sotto il mento, l’altra dietro la nuca e mi bacia sopra una guancia come se fosse la mia ragazza. “Alessandro, posso abbracciarvi per un po’?” Mi abbraccia forte, senza che gli dia il consenso. Poi, dopo un po’, si stacca.
Non smetto di chiedermi cosa ci faccio io in mezzo a questa gente. Loro non mi conoscono, e io non conosco loro.
Adesso, l’uomo mi volta le spalle e fissa la fotografia di Roberto con le mani dietro le spalle. Mi copre la visuale dell’immagine con la sua imponenza. Sembra che non abbia più niente da dire.
Dalla cucina provengono dei rumori indistinti. Sento la donna mormorare qualcosa, ma non si capisce che dice. È una voce confusa.
Non sapendo come comportarmi, mi alzo dalla sedia e mi metto a fissare le foto appese sulle altre pareti. Se qualcuno non avesse capito bene che Roberto era morto, e che la strada se l’era pigliato per sempre, appeso in un angolo c’era l’ingrandimento della fotografia che l’uomo mi aveva mostrato in treno. Il palo della luce divelto, il vetro sparpagliato sul marciapiede e la macchia rossa e nera attaccata al muro. Avvicino maggiormente la faccia alla gigantografia. Guardo meglio, e vedo proprio la testa; la testa di quel ragazzo, schiacciata sul cemento armato.
Perché mai delle persone hanno voluto conservarsi l’immagine di una tragedia?
Mi ha fatto riflettere, vedere una persona ridotta così. Ve lo assicuro, vedere una foto del genere, è una cosa che fa riflettere. Ho provato un profondo turbamento. Mi sono sentito come se, da quel giorno in poi, il sole non fosse più destinato a brillare come prima, come se il mare si fosse asciugato del tutto ed il mondo fosse diventato un enorme deserto.
Ed anche il pensiero che presto sarei andato via da quella casa non mi rallegrava. La testa schiacciata di Roberto probabilmente mi avrebbe fatto visita ogni notte nel mio letto.
Quando si riprende dal torpore, l’uomo fa un lungo sospiro. Mi guarda e domanda ancora: “Lo sapete perché è morto mio figlio Roberto?” Poi pensa a qualcosa da dire, e dice: “Era la sera del suo compleanno. Faceva ventidue anni. Dice: ‘Papà, io vado a fare un giro con la moto insieme agli amici.’ Sapete, quel tipo di amici che si hanno quando si possiede una motocicletta potente. In certi momenti è difficile crederci. Stava là, in piedi, proprio dove state ora voi. Io gli avrei voluto dire: ‘Non andare Roberto, non è serata di motocicletta questa qui.’ Era il mese di dicembre. Pioveva. Ma, invece, non gli dissi niente.” Ci rimugina un po’ su e poi prosegue. “Sapete quando vi sentite una cosa qua, quella specie di peso sullo stomaco? Così mi sentivo quella sera. Mi telefonarono a mezzanotte e mi dissero il fatto. Lei è il signor Visconti? Sì, sono Eugenio Visconti. Suo figlio, così, così e così. Due ore prima Roberto stava qui con me e all’improvviso non c’era più. Come si spiega questa cosa? Che fine ha fatto mio figlio? Vorrei proprio saperlo che fine ha fatto. Vorrei che qualcuno me lo spiegasse.”
L’uomo termina il discorso, e mi punta gli occhi addosso. Mi guarda come se non riuscisse ad individuarmi, come se non fossi lì con lui. Dopo un momento sua moglie entra nella stanza con una tazzina sopra il vassoio. Lo poggia sul tavolo e si allontana un’altra volta.
“Venite a bervi il caffè,” fa lui. “Non lo fate fare freddo.” Raccoglie la tazza dal vassoio e la poggia sul tavolo.
Mentre sorseggio il caffè lo vedo prendere una sedia e accomodarsi di fronte a me. Appoggia le braccia sul tavolo e mi fissa pensieroso. Credo che non abbia mai saputo a chi dare la colpa dell’incidente. A se stesso, al destino, o forse proprio alla forte velocità a cui andava il figlio sulla motocicletta. Ho come l’impressione che per lui da quella mezzanotte in poi sia finito tutto. Proprio come il figlio, non era più la stessa persona. Quella corsa della motocicletta che finiva contro un muro era come dare un addio alle speranze del futuro e un benvenuto alle disgrazie. Perché dopo l’incidente è successo proprio questo. Quando si perde un figlio, c’è spazio solo per una rassegnata sopportazione per i genitori che gli sopravvivono. Proprio così.
L’uomo smette di fissarmi, sospira ancora pesantemente, e si alza dalla sedia. Dice: “Alessandro, siete un bravo ragazzo.”
Non dico niente. C’è qualcosa che si dice in casi come questo?
8 marzo 2014
Bello. Davvero