Recensione di Raffaella Foresti
…ragazzini di buona famiglia annoiati dalla vita quotidiana, giovani galanti senza un amore, donne tragiche, impiegati vessati che chiedono scusa. Talvolta artisti che non reggono il confronto con i maestri del passato e non hanno nulla da consegnare al futuro.
Gente comune in una capitale irlandese ferma, paralizzata, tra un secolo e l’altro.
In questi racconti Joyce non ambisce ancora, come farà in seguito, a trasferire in parole l’avventura dell’uomo moderno, ma osserva la realtà e la descrive senza girarci intorno. Non vagheggia di nichilismo. Joyce, con grazia ed eleganza, parla proprio di putrefazione.
I quindici racconti che compongono la raccolta hanno il pensiero e la geometria di una collezione. Il primo, The Sisters, imposta perfettamente la struttura del libro, giustapponendo l’amicizia tra il giovane narratore e un anziano sacerdote cattolico, paralizzato in punto di morte. L’età dei protagonisti delle successive storie avanza, fino all’ultimo, intitolato The Dead, che rappresenta perfettamente l’epilogo della narrazione. Anche le stagioni si muovono con i personaggi: nel primo racconto sta iniziando un nuovo anno; quindi si passa dalla primavera all’estate all’autunno finché sopraggiunge l’inverno. Il finale è uno dei più lodati e accattivanti di tutta la storia della letteratura: un sottile gioco di immagini fa dei morti gli unici esseri veramente presenti mentre i vivi giacciono come sepolti sotto una coltre di neve.
I Dubliners, per lo più ignari della propria condizione, raggiungono quasi sempre lampi di consapevolezza da cui derivano senso di solitudine, frustrazioni e fallimenti. La nave parte senza Eveline, le bancarelle del bazar Araby sono chiuse.
Ah, moderni. Joyce ci parla di una rivelazione da parte delle cose di una loro seconda, e più vera, realtà. Nascosta, ma ancora percepibile. Oggi alla verità abbiamo definitivamente rinunciato. Sentendo suonare l’organetto, Eveline ne seguirebbe la melodia e godrebbe, sola, di un vanesio passo di danza.
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