Recensione di Andrea Corona
«Non toccarmi! Sei un estraneo per me! Non capisci niente di me, di quello che ho nel cuore o nell’anima. Un estraneo! Vivo con un estraneo!»
Dublino, estate 1912. Al termine di una serie di rispettivi viaggi, Richard, Bertha, Robert e Beatrice sono finalmente riuniti insieme. L’azione si apre col ritorno a Dublino di Beatrice Justice. Insegnante di musica, Beatrice fa visita in casa Rowan, dove impartisce lezioni di piano al figlio di Richard e Berta, il piccolo Archie. Di lì a poco sopraggiunge anche Robert, con in mano un mazzo di rose per Bertha. Cugino di Beatrice, Robert Hand, giornalista, è un amico di vecchia data di Richard Rowan, che nel frattempo è divenuto uno scrittore affermato.
L’idilliaco quadretto dell’alta società presentato nelle prime scene, dove a prevalere è un esasperato bon ton, subisce una sferzata già nel primo atto, allorquando diviene evidente che l’omaggio floreale per Bertha rientra in una cerimonia di corteggiamento da parte di Robert. Di contro, le indicazioni testuali fornite da Joyce lasciano intendere che Richard sia infatuato di Beatrice.
Se il primo atto di Esuli appare nient’altro che una sorta di riscrittura de Le affinità elettive di Goethe (la quasi omonimia dei personaggi di Joyce – Richard Rowan, Robert, Bertha, Beatrice – sembra anche riprendere quella dei celebri antesignani Carlotta, Otto, Ottone, Ottilia), il secondo e il terzo atto regalano delle pagine di insolita bellezza nelle quali i pensieri dei protagonisti, i loro sospetti, i timori e le speranze assumono la stessa consistenza degli accadimenti concreti, nei confronti dei quali non hanno una minore dignità.
Ecco allora che passato e presente si fondono insieme; e realtà, ricordi e fantasie divengono parte di un unico materiale analitico e narrativo. Senza rivelare troppo degli sviluppi della vicenda, si considerino le contraddizioni apparenti con le quali Joyce mette alla prova la razionalità del lettore-spettatore: se da un lato si insinua il sospetto che Robert abbia avuto delle relazioni con entrambe le donne, dall’altro questa ipotesi viene smentita nei dialoghi fra Richard e gli altri tre personaggi; se da un lato si insiste sulla fedeltà di Bertha nei confronti del marito, dall’altro si lascia intendere che Archie sia figlio di Robert; se da un lato Richard sembra ambire a Beatrice per liberare Bertha e liberarsene a sua volta, dall’altro il suo scopo ultimo pare quello di possedere la moglie nel modo più totale e assoluto:
«Non è nella cecità della fede che ti desidero, ma nel dubbio che lacera, vive e non trova mai pace. Un possesso che non conosca catene, fossero pure d’amore, un’unione di corpi e anime nude, a questo anelavo».
Se il proposito di Richard è dunque quello di assecondare le mire del romantico e passionale Robert per testare l’assoluta fedeltà della moglie, è anche vero che egli stesso cadrà vittima di questo gioco: «Mi sono torturato l’anima per te, il dubbio ha scavato una ferita profonda che non potrà mai rimarginarsi. Non mi è dato sapere, né mai saprò niente. Non voglio sapere né credere a nulla». Con queste parole risuona evidente l’eco di tutto lo scetticismo celtico e britannico (al quale, fra l’altro, lo stesso autore dichiarerà di aver attinto); ma da esse risulta, altrettanto chiaramente, che Exiles è un dramma sull’infelicità e sull’alienazione. E non poteva essere altrimenti, dato che, come attestato da un’annotazione di Joyce, «Le nazioni esigono da coloro che hanno osato abbandonarle un risarcimento da versare al momento del rientro in patria».
In conclusione, Peter Weiss dirà che «in Joyce il discorso scaturisce costantemente dal soggettivo, dall’onirico, tuttavia il materiale che fa venir su gorgogliando rispecchia la realtà esterna»; ma a venire in mente, leggendo Esuli, sono ancor più le parole di Julio Cortázar, che nel suo saggio Teoria del tunnel affermerà: «Gli scrittori ampliano le possibilità della lingua, le portano al limite, cercando sempre un’espressione più immediata, più vicina al fatto in sé che sentono e vogliono rendere manifesto, un’espressione, cioè, non estetica, non letteraria, non idiomatica. LO SCRITTORE È IL NEMICO POTENZIALE – E OGGI GIÀ ATTUALE – DELLA LINGUA».
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