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Scappa (se hai il coraggio)

Racconto breve di Giulia Costi

 

“Tabula rasa, ricomincio da zero”, erano queste le parole che continuava a ripetere a tutti.

Al suo capoufficio, dopo l’ennesima richiesta di lavorare anche la domenica, a sua moglie che non faceva che lamentarsi della sua assenza, al figlio adolescente che nemmeno lo salutava quando rientrava la sera.
“Basta, non ce la faccio più!”, un pugno sulla scrivania, la sedia che cade a terra e il silenzio ammutolito dei colleghi.

Un biglietto sola andata per la disoccupazione.
La lettera di licenziamento sul mobile dell’ingresso, uno schiaffo dalla moglie in lacrime, il borsone sul letto, le camicie e i pantaloni gettati per tutta la stanza.

Non sapeva come fosse arrivato fin lì, l’ultima cosa che ricordava era il vialetto di casa e una valigia troppo leggera per contenere una vita intera (scuola, appendicectomia, università, tirocinio, posto fisso, conto corrente con un basso tasso d’interesse, matrimonio, cura per la fertilità, biberon, notti in bianco, “suo figlio sarà bocciato anche quest’anno”, canne nascoste sotto il letto). La ringhiera era arrugginita, del verde originario non rimaneva altro che qualche traccia sparsa soffocata da scritte a pennarello di giovani innamorati. Da lassù la circonvallazione era un serpentone grigio spoglio delle auto che ormai dormivano nei garage e nei parcheggi residenziali. Ovunque guardasse, in qualsiasi direzione voltasse la testa, intorno a sé non vedeva che deserto: se fosse rimasto lì sarebbe morto, ma non di fame o di sete.

Si vide arrampicarsi sulla ringhiera arrugginita e scavalcarla, le sue gambe penzolavano nel vuoto e le mani tremavano, non per la paura ma per il freddo di quella sera dicembrina. In un secondo l’asfalto gli levigò la guancia sinistra, gli ruppe le gambe, le braccia e l’osso del collo. Un pezzo di cervello tinse di bianco la strada grigia.
Le nocche diventarono bianche, scosse la testa e pensò che non era quello il momento.

Il suo fiato si condensava in nuvolette bianche. La valigia l’aveva buttata in un fosso vicino a una stradina sterrata: i suoi averi gli erano solo d’impaccio.
Sulla collina l’aria era più fresca di quella che si respirava giù in città.

Sulla collina l’aria portava l’odore degli abeti, e i suoni del bosco.

Su quella collina, se avessi chiuso gli occhi, avresti potuto vedere la legna ardere nel fuoco, udire gli scoppiettii delle scintille, sentire sulla pelle e sui vestiti il calore delle fiamme. Con la forza dell’immaginazione avresti potuto godere di un reale tepore anche a tre gradi sotto zero, seduto sull’erba brinata, mentre le lampadine della città perdevano la battaglia contro la luminosità delle stelle.
Sulla collina la sua testa era circondata da una lingua di fuoco. Si scioglievano le catene dei pensieri che, liberi per la prima volta, avevano cominciato a scivolare sui gangli, a diventare sempre più grandi, come quelle valanghe che si autoalimentano. Bruciavano i castelli di carta delle convinzioni, evaporavano le oasi dei sogni e si disperdevano nell’aria.
Per la prima volta in vita sua si sentiva sveglio, lontano da quel coma indotto da una realtà anestetizzante nella quale sempre aveva fluttuato.
Per la prima volta in vita sua si sentiva spaventato, smarrito, solo.
Per la prima volta in vita sua si sentiva coraggioso, determinato, pronto a non sopravvivere, ma a vivere.

Volse la testa in direzione del bosco, da dove proveniva il bubolare dei gufi. C’era un ruscello e anche un piccolo stagno. Lo sapeva perché… perché lo sapeva? Nella sua testa tutto era confuso da una coltre di uguale disinteresse.

(Il grido degli Uomini squarciava la notte)

Da lontano gli giungeva un grido, come quello dei soldati mentre frustano il cavallo e scendono dall’altura.

(“Riprendiamoci la nostra anima!”)

Si alzò e si incamminò a testa alta verso il bosco. Sotto lo sguardo disattento dell’Universo seguì quel richiamo, dove avrebbe trovato, ne era sicuro, degli esseri simili a lui.

 

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Author: Giulia Costi

Ci sono domande a cui non riesco a dar risposta e pensieri che mi scavano un buco nel petto. Leggere e scrivere sono la mia medicina, il mio oppio, il filo da sutura che tiene insieme i pezzi del mio io.

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