Racconto breve di Marco La Terra
Doveva calmarsi. Riflettere. Pensare.
Riordinare le idee.
In quel bar fetido e maleodorante, dalle luci soffuse e i tavolacci di legno grezzo, rigonfi di umidità e di vite spezzate, Beçevel osservava un punto indefinito del bancone davanti a sé con uno sguardo fisso e allucinato, quasi ipnotico.
Doveva liberare la mente, concentrare l’attenzione sul proprio affannoso respiro, moderarlo e riportarlo alla normalità.
E poi pensare alle mosse successive.
Cercò di concentrarsi sul movimento ritmico del torace, prestando attenzione al cavernoso rimbombo del proprio fiato che, salendo dai polmoni, gorgogliava con un timbro irregolare tra le mascelle digrignate e tese.
Troppe Marlboro. Decisamente troppe.
Tra i buoni propositi, ammesso che esistesse ancora un futuro prossimo in cui poterli attuare, Beçevel annotò mentalmente l’emancipazione dal vizio del fumo anche se, in quella circostanza, esso non gli aveva impedito di seminare i suoi inseguitori.
Almeno per il momento.
Aveva poco tempo e doveva pensare.
Calmarsi, pensare con lucidità e agire di conseguenza.
Quel locale era una buona copertura, ma non poteva durare per molto.
Venti minuti. Mezz’ora. Non di più.
Dopo gli sarebbero stati addosso e l’avrebbero infarcito di piombo. O, più probabilmente, giunti di soppiatto si sarebbero limitati ad osservarlo di nascosto e pedinarlo con calma, senza fretta, per poi attaccarlo silenziosamente alle spalle con una corda di cuoio.
Purtroppo non conosceva il volto dei suoi inseguitori, quindi lo svantaggio era notevole.
Ancora non riusciva a capacitarsi di tutto quel dannato casino, e quella sensazione di smarrimento aumentava l’incertezza che si era impadronita del suo cuore.
Era troppo vecchio per certe stronzate.
Si era ritirato dagli affari poco tempo prima e desiderava solamente invecchiare in pace, vivere con sua moglie in una località di mare e veder crescere il loro bimbo di pochi anni.
Si era redento e aveva chiuso con quella vita ma, a quanto pare, il suo radicale cambiamento non era bastato.
In verità, non appena scomparso dalla circolazione, si erano diffuse voci strane sul suo conto e, dopo che un carico di 20 kg di cocaina si era come volatilizzato nell’aria, i detrattori avevano tirato in ballo il nome di Beçevel.
Beçevel, Beçevel… Nei vicoli del porto, nelle stradine malfamate e persino nei locali più esclusivi, gravidi di politici e puttane, quel nome transitava di bocca in bocca: il vecchio patriarca, all’apparenza fuori dai giochi, veniva additato come un novello Rasputin, un’abile voce silenziosa che muoveva in silenzio i suoi fili invisibili.
Un pretesto.
Nient’altro che uno schifoso pretesto per eliminare una figura scomoda, giunta alle soglie della pensione al corrente di tanti, troppi segreti. Segreti in grado di scuotere molte poltrone lì, nelle stanze del potere e, cosa forse peggiore, tali da far rimordere la coscienza sino alle soglie dell’ulcera.
“Coscienza”, che strana parola!
Averne una, in quell’ambiente, era sempre stato considerato il mezzo migliore per farsi accoppare: il malavitoso munito di coscienza era destinato ad essere eliminato perché troppo fragile o, peggio ancora, per l’inevitabile incapacità di mantenere quei terribili segreti nel silenzio più assoluto.
Per tantissimi anni, Beçevel era vissuto “con crudeltà e leggerezza”, come si diceva in gergo, senza che la sua mente si ponesse qualsivoglia dilemma di natura etica.
Era sempre vissuto così, in maniera selvatica, cinica e spietata.
Ma adesso molte cose erano cambiate e lui si sentiva diverso.
Lui era diverso.
Tuttavia, le numerose rassicurazioni e la concreta presa di distanza da tutto ciò che, fino a qualche tempo prima, aveva rappresentato il suo mondo, non erano bastate a garantirgli un futuro tranquillo: nessuno di loro aveva prestato fede alla sua redenzione. Al contrario, con mezze frasi e atteggiamenti ambigui, gli era stato fatto intendere che, per come la vedevano loro, un cuore cattivo era destinato a rimanere uguale a se stesso per tutta la vita, perché quando l’anima accoglie il Male, lo accoglie per intero sacrificando tutto il resto.
Ed un cuore cattivo, sempre secondo quest’ottica, rappresentava un pericolo in ogni circostanza, specie quando si scioglieva nel silenzio rimanendo nascosto, perché era allora che diveniva un elemento fuori controllo, una mina vagante dagli esiti incerti.
Per di più, se a un cuore cattivo si aggiungevano un’intelligenza fuori dal comune, una smisurata forza fisica e una diffidenza verso il prossimo oltre la soglia della paranoia, il punto di vista e le reali intenzioni dei suoi nemici erano più che chiare, quasi giustificabili.
Beçevel comprendeva tutto questo sin troppo bene perché era stato anche lui come loro, una volta: soprattutto, Beçevel capiva che non l’avrebbero mai lasciato in pace finchè non l’avessero ucciso e, di riflesso, posto fine alla minaccia che lui rappresentava ai loro occhi.
A quel punto, la cosa più intelligente da fare era sforzarsi di pensare come loro.
La sua unica àncora di salvezza era rappresentata da questo e questo soltanto: ragionare come uno di loro.
Tuttavia, questo processo di immedesimazione era più semplice a dirsi che a farsi, per il semplice fatto che lui si sentiva diverso, oramai.
Lui era diverso.
In cuor suo, tutto ciò che desiderava era lasciarsi alle spalle il marciume del suo passato, raggiungere Ann e Lucien a casa di suo padre e partire con loro verso il mare.
L’infinito.
La libertà.
Lontano da quella città, violenta e infame.
Solo quello, nient’altro.
– Que voulez-vous, Monsieur? – domandò il barman, interrompendo il flusso caotico dei suoi pensieri.
– Pastis 51 simple, pas d’eau – rispose Beçevel, senza alzare lo sguardo dal bancone.
– Oui Monsieur, immèdiatement –
Un Pastis 51, senz’acqua. Questo gli ci voleva, per schiarirsi le idee.
Certo, insieme al vizio del fumo, forse avrebbe dovuto esorcizzare anche quello dell’alcool, in un prossimo futuro, se mai un futuro fosse stato ancora possibile.
Ma non era quello il momento opportuno per pensare alle proprie debolezze, né di improvvisarsi un salutista, fatto quest’ultimo assai poco credibile, a dire il vero.
L’unica cosa cui dover pensare, rifletteva, era salvare la pelle: per se stesso, ma soprattutto per Ann e il piccolo Lucien.
Quando ci fosse riuscito, se ci fosse riuscito, allora tutto avrebbe potuto essere diverso. Tutto quanto, sin dal principio.
Una volta fuggiti da lì, avrebbero azzerato le proprie esistenze e ricominciato daccapo… ma prima… prima…
– Pastis voici: sept francs et soixante s’il vous plaît –, esclamò il cameriere, posando davanti a Beçevel il liquore.
– Ici, merci beaucoup –.
L’uomo osservò il bicchiere di vetro: semplice, allungato, di forma cilindrica, colmo per un buon terzo di quel liquido ambrato dall’aroma di anice così intenso che, evidentemente, poteva solo essere amato.
Per il Pastis 51, l’odio non era contemplato.
In tutta sincerità, non era mai riuscito a comprendere i sedicenti estimatori che, in spregio ad ogni logica e buon gusto, lo diluivano nell’acqua: in cuor suo, l’aveva sempre considerato un atto di profonda barbarie, un po’ come lo zucchero nel caffè o l’uso del preservativo nell’atto del piacere, per intenderci.
“Castrazione dei sapori forti”, l’aveva definita: l’intenso profumo del caffè tragicamente confuso nella stucchevole dolcezza dello zucchero, o il paradisiaco aroma dell’anice annacquato in una bibita biancastra e priva di mordente.
Quanto al preservativo… beh… lasciamo stare.
Beçevel accostò il naso al bordo del bicchiere e inspirò profondamente.
Chiuse gli occhi.
Davanti a sé, il deserto del Sahara con le sue dune uniformi, la sabbia fine incendiata dal sole, l’aria secca e rarefatta. E ancora gli avamposti di servizio della Legione Straniera che, finalmente, sorgevano in mezzo a quel nulla dimenticato da dio, dopo ore ed ore trascorse in sella. Senza soluzione di continuità, l’inconfondibile aroma richiamò alla sua mente il Mar dei Caraibi, dai bassi fondali e le acque cristalline, dove il sole morente lo sorprendeva intento a pescare lampughe, ricciole e giovani barracuda, con il semplice ausilio di una fiocina.
Una vita fa, quand’era ancora giovane, errante e profondamente irresponsabile.
Riaprì gli occhi: due fessure grigie in mezzo a un mare di nervature tutt’intorno, che andavano a confluire in una barba folta e brizzolata.
Perso nei ricordi accostò le labbra al bicchiere e bevve un sorso, dimentico di tutto ciò che era stato sin lì: il liquido ambrato scivolò lungo l’esofago e riscaldò lo stomaco, vuoto da diverse ore.
All’improvviso, sentì girargli la testa.
Scese dallo sgabello per avviarsi verso l’uscita, ma cominciò a barcollare.
– Tout va bien, Monsieur? –, gli chiese sollecito il barman che l’aveva servito poco prima.
– Oui, m-m-merci -, bisbigliò Beçevel, la testa china sul petto, vittima di improvvisi conati di vomito.
– Pas VRA-I-MENT sûr que tout va bien? -, chiese nuovamente il cameriere con un tono di voce così strano da spingere Beçevel ad alzare gli occhi per guardarlo in faccia, nonostante la fatica che questa semplice azione gli costasse.
L’uomo lo fissava con due occhi di ghiaccio, immobili, privi di espressione e un sorriso cattivo che andava dipingendosi con estrema calma sul suo volto spigoloso: “Cette partie de Monsieur Lacroix”, bisbigliò il barman senza scomporsi, con l’impeccabile professionalità che aveva dimostrato in tutto quel contesto.
Un emissario di Lacroix! Ecco chi era! Dannazione, l’avevano fregato!
In effetti, da quando aveva messo piede nel locale e per tutto il tempo in cui era rimasto seduto, non aveva fatto altro che tenere gli occhi fissi sul bancone, perso nei suoi pensieri, e quando gli era stato servito il Pastis non si era accorto… non si era accorto…
Quale imperdonabile errore!
Credendosi temporaneamente al sicuro, non aveva prestato attenzione al barman che gli aveva servito il liquore e adesso… adesso… si era fatto fregare come uno scolaretto alle prime armi!
Una semplice e banale disattenzione: era stato sufficiente qualche istante di relax per mandare all’aria tutti i suoi piani e, quel che è peggio, condannare a morte certa sua moglie ed il piccolo Lucien.
Questo pensava Beçevel mentre stramazzava sul pavimento sudicio di quell’infimo locale, in preda a spasmi che in pochi secondi l’avrebbero ucciso.
Che stupido! Che stupido era stato!
Ora ricordava quella faccia! Ricordava dove l’aveva incrociata l’ultima volta e, soprattutto, in compagnia di chi l’aveva vista, non molto tempo prima.
Ricordava tutto quanto adesso, ma era troppo tardi!
E così, mentre una frotta di persone si assembrava intorno al corpo ormai esanime, l’ultima cosa che udì fu la voce del barman che, fedele al suo personaggio, con tono mellifluo continuava a chiedergli se andasse tutto bene.
24 gennaio 2014
bel noir! sembra l’incipit di un romanzo in rewind.
25 gennaio 2014
Bentornato Fortemarmo, era da un po’ che non ti affacciavi qui.. ti ringrazio per l’apprezzamento e per il suggerimento! 😉
3 febbraio 2014
Brillante come sempre doc!!! Grande!!!