Racconto breve di Alfredo Perna
La scorsa notte ho di nuovo sognato di fare ritorno a Calle San Miguel.
Non è stato proprio un sogno. Non lo è mai. Provate ad immaginare un giorno sul finire dell’estate, nel momento in cui l’aria diviene elettrica poco prima di un temporale e tutto assume un’inafferrabile opacità, come quando si è pervasi da una febbre troppo alta. La morte è una nozione difficile da esprimere ad una persona che non sia ancora passata da parte a parte – se mi concedete la definizione che spesso usano in queste zone. Attualmente, miei sogni trascendenti sono proiezioni di immagini all’interno di uno stato d’animo permeato di panico.
So che niente di tutto questo mi seguirà per il resto dei miei giorni. Ho imparato anch’io, a poco a poco, a stabilizzare il mio corpo. Un’idea di proiezione eterea avvolta al di fuori di un’altra idea meno complicata di corpo. Mi sono impegnato duramente per raggiungere questo risultato. Una lunga terapia, una gavetta di quindici stagioni e tutta una sequela di fallimenti: la forza della mente ti aiuta non poco in questo.
Durante la giornata penso raramente a Calle San Miguel o anche a Torremolinos. Non li percepisco. Per un’anima dell’altro mondo pure il concetto di pensiero, credo, è difficile da spiegare. Qui non si fa più affidamento sulle parole, in mancanza di laringi e corde vocali; niente definizioni, né frasi: per esprimere idee e concetti ci scambiamo delle percezioni. Stati d’animo concettualizzati.
Il “la” ai sogni mi è stato dato da Hermann Villiers nella stagione dei Cirrus filosus.
Una lunga strada stretta, due solchi paralleli con una striscia centrale d’erba, e in lontananza il mare.
Nell’aldilà nessuno riesce a percepire la realtà per quello che è, ma può solo rivivere vecchi ricordi rielaborandoli in uno stato d’animo pieno di nostalgia, mi comunicò il Dottore la prima volta che tentava di scavare nella mia psiche. Nel corso delle varie sedute, la sua entità riuscì a persuadermi del fatto che le visioni mi avrebbero aiutato a non impazzire. Dovevo cercare all’interno del mio Io, proprio come avrebbe fatto uno speleologo in missione in una cavità naturale.
Però restava il fatto che un’anima non può sognare veramente: può solo elaborare formazioni spontanee di pensiero. Si parte da un’immagine e la si collega ad un’altra immagine; quando si trova un elemento comune alle due figure, allora quello è un ricordo.
Un lavoro assurdo.
Alcuni definivano Villiers un ciarlatano, soprattutto da quando si era proclamato Medico della mente. A dire la verità, non so se avesse mai studiato psicologia in vita sua, psichiatria o qualcosa di simile, ma mi piaceva molto come lavorava e il modo in cui si poneva con gli altri.
Era molto scaltro.
E poi riusciva a restare perfettamente immobile, in modo da assestare bene la proiezione eterea attorno alla sua anima. La sua staticità riusciva a trasmettermi calma e, allo stesso tempo, farmi sentire meno disorientato nella mia condizione di defunto. Non a caso era membro storico del Gruppo Stabile dei Veterani.
L’unico essere trapassato che percepivo per intero con i miei pochi sensi.
Riusciva a tenersi ben saldo, per un tempo lunghissimo, come una nave ancorata al porto in un giorno d’estate; certe volte, invece, si sdoppiava: due esseri eteri in uno.
Deve imparare a nutrirsi di Visioni, in modo da ottenere immagini da elaborare. E potrà farlo solamente se ricorda come si fa a sognare, aggiunse poco prima che il buio della notte ci risucchiasse come fumo nelle sue fauci.
Wanda Rhodes aveva una vera e propria fissazione per tutto ciò che produceva luce, un po’ come le persone romantiche alla perenne ricerca dell’anima gemella o i giapponesi con la loro abnorme devozione verso tutto ciò che può essere fotografato.
Non temeva le lunghe attese.
Si spostava continuamente per cercare il luogo più adatto e non appena lo trovava se ne stava lì, quasi del tutto immobile, in attesa che la luce del giorno la pervadesse.
Lei mi ha insegnato come riconoscermi nelle mie nuove forme.
Ci siamo spostati insieme per svariati chilometri, quest’oggi, macinando migliaia di banchi di nuvole candide come latte. Quindi, mi ha mostrato il suo angolino segreto. Da quanto ho capito, è un posto che conosce soltanto lei.
La mia mano, dice, sollevando un ammasso di ioni. È schiumoso e trasparente, sembra fumo congelato.
La riesci a vedere? Annuisco con il pensiero.
Non posso ancora mostrarle nulla di mio.
Wanda ha impiegato dodici stagioni piene per riuscire a fabbricarsi quell’unico arto. Quando era in vita abitava a New Orleans. Era una donna di colore, alta e fiera. Poi un brutto incidente in macchina l’ha portata fin qua.
È praticamente la storia di tutti, la morte.
La prospettiva di non riuscire mi spaventa abbastanza e non glielo nascondo: È spettacolare! Chissà se mai mi riuscirà.
Ricorda che non dovrai mai smettere di crederci, dice lei, continuando a far girare quella mano come una pietra preziosa nella vetrina di una gioielleria. Lo so. All’inizio è avvilente, ma dopo che hai imparato a recuperare i tuoi ricordi la strada è tutta in discesa. Il Dott. Villiers non ha cominciato a farti fare un po’ di pratica?
Dichiaro di sì.
E allora?
E allora ho lo stesso un po’ di timore.
Dopo un po’ abbassa la mano, come se si fosse improvvisamente stancata di un gioco troppo complicato. Timore? La terapia rende sempre i suoi frutti, Fernando, dice. Non devi avere paura, ma semplicemente lanciarti. È un po’ come andare in bicicletta, una volta che inizi a pedalare sai per sempre come si fa. Risolleva la mano. Questa volta, addirittura, ho come l’impressione di riuscire a vedere anche una porzione di polso, ma molto sottile. Non c’è nemmeno una cosa insignificante che ti ricordi?, mi domanda dopo un po’.
Ci rifletto un momento e poi dichiaro: Una piccola casa di legno, rossa e bianca, su una lingua di sabbia marrone.
Nella visione onirica mi ritrovo nel mezzo di alberi altissimi su entrambi i lati. Percorro lentamente una strada sterrata. Più che camminare mi pare di levitare a mezz’aria, come un David Copperfield troppo idealizzato. In lontananza un gabbiano bianchissimo si leva in volo emettendo un grido. Quando comincio a scorgere la casa oramai è giorno fatto. È inverno, perché una violenta brezza, spazzando la sabbia, mi fa accapponare la pelle. E poi in giro non c’è nessuno.
Alle spalle della casa il mare brilla sinistramente nell’opaca luce dell’alba.
La cosa assurda è che anche in quei momenti non posso percepire la mia presenza.
Non percepisco le mie mani, non sento il mio naso o i piedi. Sono soltanto un’anima che vaga alla ricerca del suo vecchio Io. A dire il vero, di cose assurde nel sogno ce ne sono diverse.
Penso: Se questo è un sogno, posso nutrirmi di Visioni.
È un pensiero che mi perseguita.
Ricordo come si sogna, e tra non molto potrò fabbricare di nuovo il mio corpo. Ma poi il tutto svanisce, si cancella completamente, come un castello di sabbia assorbito da un’onda e io rimango con niente.
Niente più sogno, niente Visioni.
Anche quest’oggi abbiamo camminato parecchio, io e Wanda. E dopo la sterrata siamo giunti per la prima volta nel mio angolo privato.
È una lingua di sabbia marrone immersa in un perenne vento invernale, freddo.
Sorride.
Adesso sono in grado di vedere i suoi denti senza nemmeno che si sforzi di restare ferma. Ha un manto etereo che le avvolge un’elaborata idea di corpo sinuoso. Sotto certi aspetti mi ricorda Villiers. Anche lei da un bel pezzo riesce a essere solida.
La invidio.
Da tre periodi di stagione ha avviato la pratica per divenire una Veterana. Sarebbe la prima donna del Gruppo Stabile.
Staremo a vedere cosa succederà.
Quando il gabbiano si leva in volo, emettendo un grido, dà il battesimo al nuovo giorno. Le indico la piccola casa di legno, rossa e bianca. Wanda guarda la mia mano e si compiace con me.
Sostiene: Questo è il tuo giorno numero zero. Sai come si sogna, e tra non molto potrai fabbricare il tuo nuovo corpo.
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