Dall’inviato alieno William Dollace
Mi lascio sedurre dall’ultima parte della Mostra di “Pollock e gli Irascibili” a Palazzo Reale a Milano.
Mark Rothko accede alla mia vista dietro un intercalare di pareti grigio scure, indosso la cuffia, premo il tasto play, alzo la testa, ed è subito un ipnotico incedere nell’uni(in)formale disinformato per(forma)nte disinformante informale tumore di colore.
Non sono mai stato disinformato sul Disagio.
Rothko cancella ogni movimento dall’igiene mentale della sua tela. Il sudore freddo che produce è solo uno dei dazi da pagare per trovarsi di fronte al suo lirismo narcotico. L’esperienza metafisica è tutt’altro che civiltà statica. Il cucchiaino procede a scavare nel proprio mondo interiore fondendosi con la materica fisicità dello spazio fra gli occhi e l’opera.
Si procede minuto dopo minuto, di conquista in conquista, rimanendo sul centimetro vago dell’immobilità, sorvolando come un ascesso emotivo sull’audio-guida gratuita.
E di gratuito in Rothko non v’è nulla. Solo pareti che fanno del colore un monolite di dolore intra-psichico.
E’ la storia del sogno schiacciato e costretto in una metrica precisa e devastante, è la storia dello Spazio che muore con lo spettatore inumato nella stessa tomba. L’illusione fatta a pezzi, senza controllo.
Solo rumore assordante.
Possano i giorni essere senza meta – scrive DeLillo in Rumore Bianco. E si esce, al freddo, lo sterno un pannello, la visione un manifesto, il manifesto un testamento senza catalogo che tenga raccolta la stessa materia con cui saremo de-composti, una produzione costante di memoria passiva.
William Dollace [email protected]