invia il tuo racconto inedito

Parcheggio a Pagamento

Racconto breve di Marco La Terra

Il 31 ottobre 19.. il signor M.T., avvocato trentacinquenne, si apprestava ad uscire dal parcheggio pubblico di Via S., nella cittadina di M., dopo un’udienza che aveva lasciato sul suo volto tracce di autentico disappunto.

A dirla tutta, non era stato solamente l’esito della causa ad aver generato quella particolare reazione, specchio di un sentimento freddo come il clima autunnale di quella giornata amorfa e slavata, ma l’intera concatenazione di eventi che, sin dalle prime ore del mattino, avevano caratterizzato il suo umore.

Tanto per cominciare anche quel giorno, al risveglio, la prima cosa che aveva visto era stato il viso della consorte, arcigno e affilato, quotidiano supplizio sulla cui ineluttabilità elucubrava già da tempo allo scopo di porvi rimedio, senza però trovare una soluzione valida che scongiurasse l’uxoricidio.

Non che provasse particolare ribrezzo all’idea di uccidere sua moglie: semplicemente, non riusciva ad accettare l’idea di dover essere privato della libertà personale, anche solo per pochi anni, per un’azione che il suo cuore, lungi dal considerare un vero e proprio delitto, riteneva al contrario una misura di salute pubblica.

Oltre a non ricordare i motivi per cui, solo pochi anni prima, fosse caduto nel tranello del vincolo matrimoniale, al momento era certo che sua moglie R., dalla passionalità pressochè assente quando si trattava di adempiere a quei doveri che, almeno in parte, potevano forse giustificare la sua permanenza in vita, si sciogliesse come un panetto di burro fra le braccia di B.L., diretto superiore dell’uomo.

Più in generale, lo infastidiva l’essere prigioniero del banale “lui – lei – l’altro”, quasi fosse l’involontario protagonista di una fiction di quart’ordine: una vita senza acuti né gioie rinchiusa fra lavoro, infedeltà e sogni svaniti troppo presto.

Un’esistenza sprecata, insomma.

All’apice delle proprie frustrazioni, si sentiva rinchiuso in uno schema dove tutto era già stato deciso da qualcuno più forte di lui.

Si sentiva succube. Impotente. Senza via d’uscita.

Se solo… se solo… se solo…

In tutta quella maledetta faccenda, l’aspetto più difficile da digerire era l’esatta consapevolezza che aveva della propria condizione: fosse stato mediocre, inetto o stupido, come la maggior parte delle persone che conosceva, avrebbe potuto appagare i propri impulsi sottocorticali con il lusso, il denaro e donne (un altro luogo comune! Era proprio un fottuto schema quello di cui era vittima!) smettendo così di pensare,interrogarsi, elucubrare, dichiarando a se stesso un’inconsapevole resa.

E invece no, nemmeno questo gli era stato concesso!

Il buon dio, o qualunque altra cosa potesse chiamarsi con quel nome, l’aveva dotato di un intelletto fin troppo attivo e vivace, e quindi adesso stava lì, immobile, in un parcheggio di merda in mezzo al tanfo stantìo di piscio e gas di scarico, a farsi tutte quelle domande.

Quanto all’udienza appena conclusa, l’uomo si interrogava sulla propria sfortuna.

Ripensava a quel giudice odioso e incompetente, che aveva svilito l’importanza di quella giornata trincerandosi dietro un serafico: – avvocati, non ho avuto il tempo di studiare le carte. Rinvio la causa al 15 maggio dell’anno prossimo per i medesimi incombenti –

Porca vacca! A ripensarci, gli saliva di nuovo il sangue al cervello!

In quell’angusto perimetro, soffocato da pareti dalle tinte verdastre, simili a quelle che decorano i cessi degli Autogrill, all’improvviso era sceso un silenzio irreale. Inaspettato. Malsano.

Con la coda dell’occhio aveva scorto il collega avversario chinare il capo in modo servile, l’ombra di un sorriso compiaciuto sotto i baffi da topo. “Grazie signor giudice, ci aggiorniamo a maggio dell’anno prossimo, allora. Colgo l’occasione per porgerle i miei più sentiti auguri di Buon Natale se non ci vedremo più”.

Natale?!? Si era ancora al 31 di ottobre e quel ruffiano d’un collega porgeva gli auguri di Buon Natale sdilinquendosi in ipocriti convenevoli? Bel mestiere del cazzo si era scelto, per tutti i diavoli!

Paonazzo e confuso, si era poi voltato verso il suo assistito per osservare l’effetto che la categorica affermazione del giudice aveva prodotto sul di lui: a onor del vero il Signor G., ottantino lucidissimo quando si trattava di maneggiare denaro (specialmente altrui) non dava cenno di aver compreso il significato di quelle parole, e se ne stava beatamente seduto con la testa reclinata verso destra, un occhio semichiuso, il respiro incatramato di Multifilter e un leggero rivolo di bava che, sdegnoso delle circostanze, colava impunemente sulla camicia color giallo – piscio.

Il torpore prima della tempesta.

Quando avesse realizzato le reali conseguenze della pronuncia giudiziale, altro che miti torpori e rincoglionimento senile! Quel vecchio bastardo l’avrebbe salutato freddamente, senza stringergli la mano, per poi inforcare gli occhiali, telefonare a B.L. (il chiavatore della propria moglie, per intenderci) e lamentarsi dell’accaduto.

E lì sarebbero stati davvero cazzi acidi.

Doveva fare qualcosa, lì, subito, in quel momento, ma non gli veniva nulla di intelligente da dire.

Tuttavia, armatosi di molto coraggio, aveva abbozzato una timida reazione.

– Signor giudice, mi perdoni, ma la causa è a sue mani da tre mesi, e con un rinvio così lungo le garanzie patrimoniali del mio assistito rischiano di essere gravemente compromesse –

– Scusi avvocato, io capisco le ragioni del suo assistito ma non capisco il senso di questa sua frase. “A sue mani da tre mesi”… quindi? Cosa vorrebbe farmi intendere? Che sono stato tutti questi mesi a grattarmi la pancia? –

– Mi perdoni collega -, s’intromise l’avvocato di controparte -scusi se la interrompo signor giudice, ma sono indignato quanto lei. Perché le garanzie del suo assistito verrebbero meno? Vuole forse dire che, nelle more, il mio cliente potrebbe disfarsi del proprio patrimonio e risultare così incapiente? Sta forse cercando di dare del furfante, o peggio del criminale, al mio assistito? –

Eccoci. Un doppio attacco frontale. Da una parte una capra ignorante, dall’altra un verme schifoso la cui lingua, se avesse continuato a blaterare, sarebbe finita diritta nel culo della capra ignorante.

La cosa più sensata da fare era rispondere al quadrupede idiota, facendolo sentire quanto meno un essere dotato di intelletto: non era ipocrisia la sua, ma semplice sopravvivenza.

– No signor giudice, non mi permetterei mai un simile affronto nei riguardi della sua persona. So che l’ufficio è oberato di lavoro, ci mancherebbe, tuttavia mi domandavo semplicemente se non fosse possibile anticipare l’udienza di qualche settimana per dare modo al mio assistito di dormire sonni più tranquilli. Tutto qui –

– ‘Sogni più tranquilli?’ – scattò all’improvviso il viscido invertebrato – Signor giudice, io credo che il collega si stia muovendo su un terreno molto insidioso, cercando di ingenerare nel suo ragguardevole acume l’infondato sospetto che il mio assistito sia un poco di buono, anticipando di fatto alcuni aspetti dell’istruttoria che, come il collega mi insegna, è una fase successiva del giudizio –

– Anticipare l’istruttoria?!? Ma questo è ridicolo…! Si tratta solo…. –

– RIDICOLO?!? Ha sentito signor giudice? Essendo il collega a corto di argomentazioni squisitamente tecniche, ora la butta sull’insulto personale! –

– Ma cosa stai dicendo, collega? -, aveva cercato di ribattere M.T., passando incautamente dal “Lei” al “Tu”.

Del resto, la frittata era ormai fatta.

– Lo vede Signor Giudice? -, incalzò l’ectoplasma. –Manca di rispetto anche al sottoscritto, come se non bastasse! Ho venticinque anni di attività, potrei essere suo padre e il collega si permette di darmi del “Tu”, come se fossi un novizio alle prime armi! –

– Ma che diav… –

– Basta così avvocato! Il suo collega ha ragione. In poche frasi è riuscito a insultare tre persone: lui, il suo cliente e quel che è peggio il sottoscritto. Usasse la lingua per difendere le ragioni del suo assistito anziché fomentare il malcontento in quella che è, glielo ricordo, un’aula di tribunale, gli renderebbe senza alcun dubbio un servizio migliore –

Nel sentire queste parole, il Signor G. si era improvvisamente destato dalla sua posa bovina e, spalancati gli occhi incrostati di sporcizia, si era messo ad osservare M.T. con espressione inquisitoria e cattiva.

– Che vuol dire questo? Io lo sapevo che valevi n’anticchia…-

– Signor G. -, lo interruppe il giudice – questi sono aspetti di cui dovrà discutere col suo legale in separata sede. Non qui e non davanti al sottoscritto, ma le consiglio vivamente di affrontarli, prima o poi –

– Ah, ci po scummìntiri, carusu -, rispose baldanzoso il vecchio.

Ecco. Magnifico.

L’apoteosi.

Chiamate un becchino, scavatemi una fossa e invitate mia moglie e B.L. a ballarci sopra.

– Scusi che ha detto? –

– Nulla signor giudice -, rispose M.T., immerso in un bagno di sudore e disperazione, – ha detto che la sua osservazione è pertinente e che ne discuteremo in privato –

– Sì, e macari rùmpiri i corna! –

Nell’aula, all’improvviso, il gelo.

E subito un sorriso, dal sapore inequivocabile, lumeggiò i volti della capra e del verme.

Anche loro sapevano, che diavolo! Anche loro sapevano che B.L. si sbatteva impunemente sua moglie! Oh mio dio! Tutti lo sapevano, oramai!

– Bene avvocati… cough! cough! Ora scusate ma devo proseguire con le altre cause -, fece il giudice, cercando disperatamente di mantenere un contegno – La causa è rinviata al 15 maggio dell’anno prossimo, arrivederci –

– Arrivederci Signor giudice, e grazie ancora per la sua pazienza e il suo equilibrio nel dirimere una vicenda così incresciosa -, aveva concluso l’avvocato di controparte, alzandosi dalla sedia e ammiccando vistosamente a M.T.

Il quale se ne stava lì, immobile, incapace di proferire parola, limitandosi a osservare il verme e la capra che lo guardavano a loro volta, in attesa che recitasse la sua battuta, si scusasse magari, rispondendo al commiato e congedandosi a sua volta.

Invece niente.

M.T. rimaneva inchiodato alla seggiola, il volto d’improvviso mortalmente pallido, i lineamenti simili alle fessurazioni del legno, tesi e profondi, le vene del collo in rilievo, le mani fredde e smorte, come di marmo.

Nel suo ostinato silenzio l’uomo stava pensando che, in quel momento, l’unica risposta possibile a quella profondissima umiliazione fosse afferrare il fermacarte che giaceva sulla scrivania, proprio davanti ai suoi occhi, e con esso accecare il quadrupede, spingendo l’arma entro uno dei bulbi oculari con tutta la forza che aveva in corpo.

Dopo di che, estrarre il fermacarte dal bulbo oramai scoppiato e tirare un fendente alla gola del verme.

Quanto al vecchio, avrebbe preferito somministrare una morte lenta e dolorosa, per fargli scontare una ad una tutte le mortificazioni che B.L., per suo tramite, gli aveva inflitto in tutti quei mesi.

Perso nei suoi pensieri, guardò distrattamente l’orologio mentre le mani stringevano nervose il volante, la macchina ancora ferma in quel parcheggio schifoso.

– Sarà meglio che vada o la mia dolce metà potrebbe preoccuparsi -, pensò l’uomo con un sorriso sardonico stampato in volto.

E finalmente, uscito dal tunnel delle proprie elucubrazioni, accese il motore e si avvio verso l’uscita del parcheggio:al suo fianco, un fermacarte incrostato di materia cerebrale sembrava sorridergli.

 

Marco La Terra
[email protected]

Author: Marco La Terra

Marco La Terra, classe 1977, vive il senso di alienità dell’epoca infausta in cui è recluso in modo viscerale e sofferente, cercando di rintracciare in tutto ciò che è “altro da sé” una forma spuria di logica superiore.

Share This Post On
  • Google

2 Comments

  1. Grande bel lavoro! Complimenti!

    Post a Reply
  2. Grazie!

    Post a Reply

Submit a Comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *